La controversa storia della scoperta dello studioso gesuita. L’entusiasmo di Paolo VI e il misterioso, ventennale silenzio.
di Antonio Socci
Tratto da: 30Giorni, giugno 1991, p. 12-13
Fonte: Storia Libera
Fra i manoscritti in ebraico e aramaico che dal 1947 furono ritrovati in alcune grotte tra le rocce ad ovest del Mar Morto, vicino al Kirbet Qumran, si scoprirono pure – nella grotta settima – dei frammenti in greco, 19 in tutto. A differenza degli altri manoscritti, non erano in pergamena o pelle, ma su papiro e, caso unico, in lingua greca. Due di essi furono identificati: appartenevano a libri dell’Antico Testamento, Esodo 28,4-7 e Baruc 6,43-44. Per gli altri non si trovò l’originaria collocazione.
Dopo alcuni anni, nel 1971, un papirologo spagnolo, il gesuita José O’Callaghan, docente al Pontificio istituto biblico di Roma, riprese a lavorare su quei frammenti rimasti orfani, soprattutto il n. 5, perché stava redigendo un catalogo dei manoscritti dell’Antico Testamento. La fatica fu vana. Neanche la chiara sequenza di lettere – «nnes» – alla quarta riga, che sembrava rimandare alla parola «egennesen» (generare) e quindi alle sezioni genealogiche della Bibbia, fu di aiuto. Peraltro un autorevole papirologo britannico, Cecil H. Roberts, in base ai criteri scientifici di datazione della scrittura (com’è noto assai attendibili), aveva datato quel frammento non oltre il 50 d.C. Padre O’Callaghan doveva dunque escludere a priori che potesse trattarsi di un frammento dei Vangeli sinottici, ufficialmente datati, anche nella Chiesa cattolica, fra 70 e 100 d.C.
Stava per abbandonare l’impresa quando si affacciò alla sua mente l’ipotesi che la combinazione – «nnes» – potesse invece far parte di «Gennesaret», nome di una città della Palestina. Ma nell’Antico Testamento non trovò nessun passo che coincidesse con questo gruppo testuale. Il frammento, chiamato 7Q5, comprendeva infatti venti lettere disposte su cinque righe.
Alla fine, solo per curiosità, fece un sondaggio sul Nuovo Testamento. Si può immaginare il suo stupore quando scoprì che un passo del Vangelo di Marco coincideva perfettamente. E che 7Q5 conteneva perfino altre coincidenze particolari, come lo spazio bianco fra due lettere dov’era la cesura del discorso (la «paragraphos») e il «Kai» iniziale (la « E ») tipico della paratassi di Marco.
Padre Carlo Maria Martini, a quel tempo rettore del Biblico e oggi cardinale arcivescovo di Milano, accompagnando la pubblicazione della scoperta di O’Callaghan con un suo prudentissimo articolo su «La Civiltà Cattolica» nel ’72, spiegava: « Pur se al profano potrebbe sembrare il contrario, è assai improbabile una coincidenza casuale di alcune lettere, disposte su diverse righe, con un testo letterario già noto ».
Eppure lo stesso Martini sottopose la scoperta di O’Callaghan al vaglio di tutti gli esperti del Biblico prima e poi anche a quello del professor Sergio Daris, papirologo dell’Università di Trieste. Alla fine fu concessa l’autorizzazione per la pubblicazione, ma dietro un eloquente punto interrogativo. « Ricordo che Paolo VI venne a sapere della scoperta » racconta padre Michele Piccirillo, archeologo in Terrasanta « e avrebbe voluto dar lui stesso l’annuncio ufficiale al mondo, ma ne fu dissuaso ».
La prudenza fu motivata con la necessità di non compromettere la Chiesa su una scoperta che doveva ancora reggere al vaglio della comunità scientifica internazionale.
I diretti interessati, padre Benoit e padre Ballet, che avevano curato il ritrovamento, reagirono con virulenza contro la scoperta di O’Callaghan, come pure Kurt Aland, l’autorevole direttore dell’Istituto per la ricerca sul testo del Nuovo Testamento di Münster e coeditore del mitico Nestle-Aland e del «Greek New Testament». Accettare quella scoperta significherebbe distruggere tutta la costruzione «professorale» ufficiale. Tutto il castello esegetico moderno crollerebbe rovinosamente, i Vangeli sarebbero restituiti ad una piena storicità e le loro cronache sarebbero testimonianze dirette di uomini che avevano visto, sentito, e toccato con mano.
Insomma, nel piccolo frammento di papiro 7Q5 sarebbe contenuta una eccezionale conferma documentaria di ciò che la Chiesa ha insegnato ininterrottamente per diciannove secoli. Due professori presbiteriani, D. Estrada e W. White Jr, nel libro «The First New Testament», spiegano che in questa diatriba si contrappongono « punti di vista liberali sul Nuovo Testamento contro una scoperta capace di distruggere i fondamenti delle tesi liberali e teologiche già accettate; il lavoro dell’ultimo arrivato sui rotoli del Mar Morto (O’Callaghan) contro gli sforzi di alcuni scienziati largamente stimati e responsabili istituzionali del lavoro ».
« Confesso che io stesso sarei stato prudentissimo ad accettare subito i risultati di 7Q5″, ammette lealmente padre O’Callaghan, che certo non manca di scrupolo scientifico e di prudenza, « ma credo anche che se si fosse trattato di un frammento di letteratura greca o dell’Antico Testamento non sarebbero insorti tanti problemi immotivati. Ho fatto tante altre identificazioni analoghe, da Senofonte a Teocrito, a Eusebio di Cesarea e tutto è stato pacificamente accettato. Ne ho pubblicate altre a Bruxelles, altre ancora in Spagna e sono stato molto lodato ». O’Callaghan, decano della Facoltà biblica, dove insegna da 24 anni, ha un curriculum di oltre 200 titoli. Ma su 7Q5 è scesa una censura che non ha permesso alla notizia di essere ufficializzata né di trapelare granché fuori della cerchia degli addetti ai lavori (nonostante l’attenzione dedicata da tempo alla vicenda dal periodico «Si si no no»).
Eppure quel frammento è stato sottoposto a tante prove del computer. La più recente a Oxford: è stato messo a raffronto con tutto l’insieme della letteratura greco-cristiana, ma l’unico responso possibile che il computer continua a dare per quel gruppo testuale è Marco 6,52-53.
Dopo tanti anni, a rompere questa sospetta cappa di silenzio è stato uno studioso luterano, Carsten Peter Thiede, che in un suo approfondito studio, «Il più antico manoscritto dei vangeli?», pubblicato dall’Istituto biblico di Roma, arriva a una argomentata e certa conclusione: « in base alle regole del lavoro paleografico e di critica testuale, è certo che 7Q5 è Mc 6,52-53, il più antico frammento conservato di un testo del Nuovo Testamento, scritto attorno al 50, e sicuramente prima del 68. E che il passo come tale non provenga da una raccolta formatasi prima di Marco, ma presupponga un Vangelo già completamente terminato, era già stato affermato, giustamente, dallo stesso Kurt Aland ».
Le crepe scientifiche sull’edificio «professorale» dell’esegesi storica si stanno allargando. Ma i dogmi dell’esegesi razionalista, che si mostrano sempre più irrazionali, sembrano avere dalla loro talora l’ufficialità ecclesiastica.