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Guardare per credere

Posté par atempodiblog le 2 juillet 2011

Guardare per credere
di Antonio Socci – Il Sabato

Il capitolo XX del Vangelo di Giovanni
Si chiama «pedagogia del vedere». E’ quella a cui Gesù ricorre nel capitolo 20 di Giovanni. Che leggiamo in traduzione sbagliata. Padre Ignace de la Potterie, gesuita e famoso biblista, lancia la polemica
Intervista di Antonio Socci a Padre Ignace de la Potterie

Guardare per credere dans Antonio Socci Giovanni-e-Pietro-al-Sepolcro-vuoto

Gesù Cristo è veramente risorto dai morti? E’ davvero apparso ai suoi nella sua carne gloriosa, facendo mettere a Tommaso le mani dentro le sue ferite? Sono domande esplose in questo periodo non in accademie teologiche, ma -e forse non era mai accaduto- sui giornali, come uno scottante problema d’attualità.

E’ colpa -secondo Monsignore Gianfranco Ravasi intervistato dal “Corriere della sera” – di «una pattuglia di giornalisti»: noi. Al teologo di “Famiglia cristiana” non va giù che le ricerche archeologiche confermino clamorosamente la storicità dei Vangeli. Egli denuncia il fatto che «continua in modo scomposto e frenetico l’interesse per il Gesù della storia». Un altro illustre teologo, dalle colonne di “Avvenire” polemizza così: «Si sente in giro una declamazione della “carne” di Cristo, associata a retorica “antintellettualistica” che nulla ha a che vedere con la salvezza cristiana integrale».

Per aver sottolineato la storicità e la fisicità della resurrezione e delle apparizioni di Gesù, due importanti teologi tedeschi, Walter Kasper e Karl Lehmann, ci hanno accusato di “grossolanità”. Seguono Karl Rahner per cui le apparizioni pasquali non vanno viste «come esperienza quasi grossolanamente sensibile». Campione di questo “centrismo” teologico è anche Raymond Brown, fra i più noti biblisti cattolici americani, ed editore del “Grande commentario biblico”, che ha appena ripubblicato da Queriniana “La concezione verginale e la risurrezione corporea di Gesù”.

La domanda è: la resurrezione di Gesù Cristo è o non è un fatto, «l’avvenimento unico e strepitoso che fa da perno a tutta la storia umana» (Paolo VI)? E le apparizioni sono fatti storici di cui esistono testimoni oculari o no? Padre Ignace de la Potterie, consultore dell’ex Sant’Uffizio e conosciuto come esperto del Vangelo di Giovanni, ha accettato di rispondere a queste domande. La conversazione comincia con una rivelazione curiosa. Nella Bibbia oggi in circolazione -sia quella della Cei tipica per la liturgia, sia quella di Gerusalemme- alla fine dell’episodio di san Tommaso si leggono queste parole di Gesù: «Perché mi hai veduto hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno» (Gv 20,29). Padre Ignace de la Potterie parla di una traduzione sbagliata. Torneremo più avanti su questo fatto. «Nel Vangelo di san Giovanni» premette il gesuita dell’Istituto biblico «il “vedere” ha un’importanza fondamentale. E specialmente tutto il capitolo 20, quello delle apparizioni del Risorto, l’evangelista insiste sul “vedere” come primo passo indispensabile per arrivare a credere. In poche righe troviamo 13 volte questo verbo. All’inizio c’è un vedere sensibile che poi conduce alla contemplazione, nella profondità del visibile, si tocca il Mistero. C’è dunque uno sviluppo del “vedere”, è Gesù stesso che insegna ai suoi a guardare, è il suo metodo pedagogico».

Ravasi, nell’intervista al “Corriere”, attacca così: «trascurando il dato trascendente per quello storico si compie un’operazione monofisita, si riduce Gesù a una sola natura, quella umana. Una ricerca solo storica, dunque, è illegittima dal punto di vista teologico».
Ignace De la Potterie: Ma con quale diritto si pretende di imputare a questi credenti quel “solo” di sapore eretico (fa pensare al «sola fide» di Lutero), accusandoli addirittura di monofisismo: ma chi ha mai detto “solo” Gesù della storia? Non “solo”, ma “anche”. Il problema è che sembra che si voglia oggi eliminare la storia. Questo sì è monofisismo!

Sant’Agostino commenta l’episodio di san Tommaso scrivendo: «Toccò l’umanità, riconobbe la divinità: toccò la carne, fissò l’occhio sul Verbo, poiché il Verbo si è fatto carne ed ha abitato in mezzo a noi».
Ignace De la Potterie: Certo. Vedere l’uomo gli fu necessario per riconoscere Dio. Nell’ultima Cena Gesù dice: «Chi ha visto me ha visto il Padre» (14,9). E’ il versetto centrale del quarto Vangelo. Vedere fisicamente Gesù non bastava, ovviamente, anche i suoi nemici lo vedevano eppure lo ritenevano semplicemente un uomo di Nazareth, anzi un impostore. Ma vedere e udire fisicamente Gesù, un uomo con un volto, una carne, era indispensabile, per pervenire progressivamente a contemplare in lui, con l’occhio della fede, il Figlio di Dio, cioè a scoprire in lui il Verbo fatto carne. E’ Gesù, con le parole, i gesti, i miracoli, con tutta la sua presenza, che introduce al Mistero e conduce dal “vedere” un uomo di carne al riconoscere, in quella carne, il Verbo di Dio. Il “vedere” fisico, per tutto il Vangelo, è la via d’accesso al Mistero. Questa pedagogia del vedere diventa esplicita -è Gesù stesso che la spiega- nel capitolo 20. E pochi finora sembrano averlo capito.

Dunque cosa è possibile scoprire…
Ignace De la Potterie: Il punto di partenza è ciò che si vede con questi nostri occhi di carne: si comincia dai segni, come il sepolcro vuoto o il giardiniere, un uomo reale in cui s’imbatte Maria Maddalena, che poi riconosce in lui Gesù… E’ una progressione. Anche del verbo vedere: prima il verbo greco “bleso”, che vuol dire scorgere, notare qualcosa. Poi “theorein” che troviamo per la Maddalena e vuol dire guardare attentamente, osservare. Poi il verbo “horan”, al perfetto greco che esprime la forma perfetta del verbo vedere e che io tradurrei qui «ora vedo perfettamente, contemplo il senso profondo di ciò che vedo». Dunque dall’accorgersi di qualcosa alla contemplazione del Mistero di Dio nella realtà visibile, questa è la dinamica della prima fede cristiana, secondo i Vangeli.

E’ una “storia” raccontata attraverso gli occhi degli apostoli.
Ignace De la Potterie: Certo. L’evangelista però cerca di descrivere, nei primi testimoni della resurrezione, l’approfondimento progressivo del loro sguardo su Gesù. Il semplice “blepein” (accorgersi) dell’inizio, diventa uno sguardo attento, scrutatore (theorein), ma la pienezza della fede pasquale è espressa solo dal verbo al perfetto (heôraka ton Kyrion). «Ho visto il Signore» come annuncia la Maddalena ai discepoli.

L’evangelista ha curato tutti i particolari di questo capitolo?
Ignace De la Potterie: Il capitolo è costruito in maniera concentrica. Primo episodio: i due apostoli, Pietro e Giovanni, al sepolcro (vv. 1-10). Secondo: l’apparizione alla Maddalena (vv. 11-18). Terzo: l’apparizione ai discepoli senza Tommaso (vv. 19-25). Infine, quarto: l’apparizione in presenza di Tommaso (vv. 26-29). Il primo episodio è parallelo al quarto e il secondo al terzo. Questa struttura sottolinea che la fede in Cristo risorto si basa sulla testimonianza «di quelli che “hanno visto” il sepolcro vuoto e il Signore vivo». Sono parole di padre Mollat. Non si parla più spesso in questo modo oggi.

Si fanno oggi molti distinguo sulla fisicità del Risorto al punto da teorizzare che «se il corpo di Gesù si corruppe nella tomba e pertanto la sua vittoria sulla morte non implicò una risurrezione corporea» (Crown) cambia solo il significato teologico. Eppure prendendo alla lettera san Giovanni, Gesù torna fra i suoi con la sua carne, le sue ferite che Tommaso può toccare.
Ignace De la Potterie: Infatti la resurrezione della carne, non è un mito, non è un «theolegumenon», cioè un puro significato teologico (cfr. “30Giorni” agosto-settembre 1992, pag. 71). E’ innanzitutto un «fatto», come disse Paolo VI al Congresso sulla Resurrezione nel 1970. Però il Signore glorioso, anche nel suo corpo, non è più limitato dal tempo e dallo spazio. Dopo che è salito al Padre non ha più i limiti dell’uomo di prima pur essendo la stessa persona: è il Signore risorto. Così, nonostante le porte chiuse, entra e si mette in mezzo a loro. Gesù aveva promesso molte volte «io torno in mezzo a voi». Ecco questo prepara il nuovo modo della sua presenza nella Chiesa, Gesù Cristo ormai risorto, rimarrà misteriosamente presente fra noi. Di questa presenza futura invisibile e permanente le apparizioni del Risorto visibile ma misterioso sono allo stesso tempo l’annuncio e il segno.

Secondo Ravasi «è necessario distinguere fra l’apostolo e l’anonimo evangelista». Gran parte degli esegeti cattolici la pensano così. Anche Brown: «Gli evangelisti appartengono alla seconda generazione dei cristiani e non furono essi stessi testimoni oculari». E aggiunge che la lettera di Paolo ai Corinti è «l’unica testimonianza della risurrezione nel Nuovo Testamento scritta da uno che sostiene di aver visto Gesù risorto». Per quale motivo si dice che «è necessario fare quella distinzione»?
Ignace De la Potterie: I Vangeli che fine fanno? E il Vangelo di Giovanni? E’ tutto un mito? Quel Vangelo è innanzitutto la testimoniaza di uno che «ha visto». Si rilegga, prima di scrivere queste cose, il prologo della Prima lettera di Giovanni: «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi ciò che noi abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato, del Verbo della vita (poiché la vita si è manifestata, noi abbigamo veduto e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era rivolta verso il Padre e si è manifestata a noi) quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi».

Dunque, cosa riferisce il testimone Giovanni?
Ignace De la Potterie: Limitiamoci alle apparizioni pasquali. Il primo episodio, Pietro e Giovanni al sepolcro, la tomba vuota, le bende e Giovanni che «cominciò a credere» (non «credette» come recita la traduzione normale, perché subito dopo aggiunge: «Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura»). E’ la fede iniziale del discepolo che Gesù amava. Anche per la Maddalena è molto chiara la purificazione progressiva del suo sguardo. Quando riconosce quell’uomo dice «Maestro, sei tu!» No, non è più il maestro di prima. Maria è legata alla vecchia immagine che aveva di lui. Ma poi accetta il riconoscimento della fede: è il Signore risorto. E lui stesso che glielo dice. Allora capisce: Gesù non è più come prima pur essendo sempre la stessa persona.

Poi l’apparizione ai discepoli senza Tommaso.
Ignace De la Potterie: I discepoli sono pieni di gioia «alla vista del Signore». Diranno a Tommaso: «Abbiamo visto il Signore». Lo avevano riconosciuto prima che aprisse bocca, perché avevano accettato la testimonianza della Maddalena. E’ molto importante saper accettare una cosa su testimonianza. Ciò che Tommaso non fa. Lui diffida della testimonianza dei suoi amici. Gesù voleva educare il loro sguardo così: la prima tappa è il vedere fisico, i segni, quindi il vedere su testimonianza, infine vedere e contemplare con lo sguardo trasformato dallo Spirito che permette di cogliere il senso delle cose, tutta la profondità della realtà.

E’ questo che Gesù rimprovera a Tommaso, non essersi fidato?
Ignace De la Potterie: E’ molto importante l’episodio di Tommaso. Anche lui appartiene ai dodici, quindi a coloro che dovevano vedere fisicamente il Signore risorto e testimoniarlo davanti alla storia e all’umanità. Però anche a lui, inizialmente, è chiesto di credere alle testimonianze, come gli altri avevano già creduto alla testimonianza della Maddalena (e come è chiesto a noi). Non fidarsi delle testimonianze: qui sta l’errore di Tommaso.

Arriviamo così al famoso versetto 29: «Beati coloro che crederanno senza aver visto». Gesù stesso sembra opporsi al bisogno dell’uomo di vedere. Sembra chiedere una fede cieca.
Ignace De la Potterie: No. Quel verbo non è al futuro, come viene interpretato. Sia nel testo greco che nella Vulgata latina il verbo è all’aoristo (tempo passato): «Tu hai creduto perché hai visto» dice Gesù a Tommaso «beati coloro che anche senza aver visto (me direttamente) hanno creduto». Anche Tommaso avrebbe già dovuto fidarsi della testimonianza degli altri, i quali avevano già creduto sulla testimonianza della Maddalena. C’è un cammino da fare per ciascuno.

Dunque il verbo al passato si riferisce agli apostoli?
Ignace De la Potterie: Sì, o piuttosto al discepolo amato. Lui «ha cominciato a credere» («Vidi et credidi», 20,8). Ha cominciato a credere con i segni.

Non è quindi la richiesta di una fede cieca…
Ignace De la Potterie: Esatto. E’ la beatitudine promessa a chi comincia a credere a partire dai segni e dà credito alla testimonianza.

E perché è stato stravolto il tempo di quel verbo?
Ignace De la Potterie: Perché si pensa subito ai credenti nella Chiesa. Tipico è il caso di Bultmann che traduce al presente: «Beati coloro che non vedono e credono». Nella traduzione delle Paoline G. Segalla commenta: «Ad una fede si deve arrivare, però senza la pretesa di Tommaso: il riferimento è ai futuri credenti». Ma quel verbo era al passato, non al futuro come lo comprendono anche Schnackenburg e la Bibbia di Gerusalemme.

Ed è passata così anche l’interpretazione di Bultmann.
Ignace De la Potterie: Indirettamente sì. Se si traduce al futuro quel verbo, allora Bultmann può interpretare la frase di Gesù «come una critica radicale dei “segni” e delle apparizioni pasquali e come una apologia della fede privata di ogni appoggio esteriore» (D. Mollat). E’ esattamente il contrario. Ciò che viene rimproverato a Tommaso, non è di aver “visto” Gesù, poiché Gesù stesso ha voluto manifestarsi a lui. Il rimprovero cade sul fatto che Tommaso ha rifiutato, all’inizio, di dare credito all’annuncio dei discepoli. E ha voluto porre e definire lui stesso le condizioni della fede. Tuttavia Gesù accede al suo desiderio e si lascia toccare, ma lo invita formalmente a superare quella posizione equivoca e pericolosa in cui si era posto.

L’interpretazione di Bultmann ha fatto scuola fra i cattolici.
Ignace De la Potterie: Lo si vede soprattutto nell’imbarazzo con cui vengono trattate le apparizioni pasquali. Dice Bultmann: «Le apparizioni ai discepoli rappresentano una concessione alla loro debolezza. In fondo non sarebbero richieste». C’è qui una critica radicale al valore stesso dei racconti pasquali, a cui è dato un valore molto relativo. Questi -per Bultmann, seguito da molti teologi contemporanei- «non sono da comprendere come racconti di eventi storici, così da indurre forse il lettore ingenuo a voler fare anche lui la stessa esperienza, e neanche come sostitutivo di tale vedere perché si vuole una garanzia della resurrezione». Insomma è la pura posizione protestante: la fede cieca («sola fide»).

E cosa sono allora, per Bultmann e gli altri, questi racconti?
Ignace De la Potterie: Dice Bultmann: «Sono soltanto immagini simboliche per la comunità nella quale sta colui che è salito al Padre». E così la resurrezione fisica di Gesù che fine fa? Un puro simbolo. Ma se quel versetto finale vuol dire che tutte quelle apparizioni non servono a nulla perché allora sono state riferite dall’evangelista? Se avesse ragione Bultmann il rimprovero di Gesù andrebbe esteso a tutti gli apostoli e anche alla Maddalena, anche loro hanno creduto «perché hanno veduto».

Invece Gesù sembra voler insegnare a Tommaso a “guardare” con l’intelligenza di Giovanni al sepolcro.
Ignace De la Potterie: Esatto. Infatti c’è un parallelismo strutturale fra i due episodi e Gesù dice «Beati coloro che non hanno visto» (me) però «hanno cominciato a credere» vedendo i segni. Si tratta di Giovanni (e Pietro) quando ha trovato il sepolcro vuoto (20,8).

Dunque Gesù sottolinea l’importanza di “accorgersi” dei segni e dare credito ragionevole alle testimonianze?
Ignace De la Potterie: Questa è la sua pedagogia. Lo stesso Agostino insegna questo cammino: dal vedere fisico a contemplare il mistero. E per il Concilio di Calcedonia Gesù è vero uomo e vero Dio. Allora il vedere fisico è decisivo, perché anche le testimonianze sono fondate su un fatto storico visto.

Così all’origine della fede ci sono dei segni reali di cui «accorgersi» e delle testimonianze. Già sant’Atanasio invitava il suo interlocutore a credere alla resurrezione di Cristo «in base a ciò che accade davanti ai suoi occhi… in base a ciò che vedete».
Ignace De la Potterie: Con Atanasio tutti i Padri della Chiesa. La fede cristiana è un cammino dello sguardo e -direi- lo è anche l’esegesi. Non sono del tutto d’accordo con padre De Lubac quando, alla fine di “Esegesi medievale”, sostiene che l’approccio dei Padri è ormai una cosa del passato. Specialmente il 20° capitolo di san Giovanni mi sembra invitare all’antica e bellissima pratica cristiana della contemplazione delle scene dei Vangeli. Ignazio di Loyola, all’inizio dei tempi moderni, ha posto questa “applicatio sensuum” nei suoi esercizi spirituali: ci invita a guardare, contemplare, vedere, toccare… Sappiamo che era rimasto molto colpito da una pagina di Ludolfo di Sassonia.

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Dir male del prossimo

Posté par atempodiblog le 2 juillet 2011

Dir male del prossimo  dans Citazioni, frasi e pensieri pettegolezzi

Ma voi dite che i falli del prossimo sono numerosi; ed io vi rispondo che certe volte non sono che calunnie quelle che sembrano verità autentiche. Qualcosa sembrava infatti, più vera che quella per cui fu accusata di adulterio la casta Susanna? Eppure noi sappiamo che era una solenne impostura. Ma siano pure anche vere: avremmo forse piacere che di noi o di qualche nostro congiunto fossero rivelati falli o mancanze, che sono veri, verissimi? No, certamente. Come, dunque, saremo così facili a propagandare le mancanze degli altri? La legge naturale, molto più la legge evangelica, non ci proibisce di fare agli altri quello che non vorremmo fosse fatto a noi?

I fatti che voi riferite sono veri? Ma ditemi, noi non abbiamo mai mancato in niente? Chi è che può dirsi senza peccato? Se vi è alcuno così innocente che la sua coscienza non gli rinfacci colpa di sorta, si faccia avanti e sia costui il primo a dir male del suo prossimo che io mi contento.

di Sant’Agostino Roscelli
Fonte: Immacolatine.it

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La mormorazione

Posté par atempodiblog le 2 juillet 2011

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Bella è la virtù della Carità! Questa figlia del Cielo, se da una parte ci eleva sopra di noi stessi e ci porta direttamente a Dio, centro di ogni bene, che dobbiamo amare sopra ogni altra cosa con tutte le nostre forze, dall’altra parte, riguardo al prossimo, ci comanda di amarlo come noi stessi, pronti a fare per lui tutto ciò che vorremmo fosse fatto a noi, e a non fare a lui ciò che non vorremmo fosse fatto a noi. Vi sono però vizi e peccati che più si oppongono alla santa carità. Questa sera dunque desidero parlarvi della maldicenza che diametralmente si oppone alla carità fraterna, al fine di prevenirvi se qualcuna di voi, anche inavvertitamente, se ne fosse resa colpevole. Ad ottenere lo scopo, vi mostrerò che cosa sia la maldicenza, di quante specie ve ne siano, quanto essa sia peccato comune, e quanti siano i disordini che cagiona, le scuse con cui si difende e finalmente i pericoli a cui espone. La materia è vasta e non può certo contenersi tutta nei limiti di una istruzione, ma quello che non posso dire questa sera lo diremo la prossima volta. Seguite con grande attenzione e gravità: si tratta di un argomento di somma importanza.

La detrazione, ossia la mormorazione, è un’ingiusta diminuzione della fama altrui, fatta in assenza di quella persona contro cui si mormora. Ho detto un’ingiusta diminuzione della fama altrui, perché chi dicesse male di se stesso e diminuisse così la fama propria, non sarebbe ingiusto, perché ciascuno è padrone del suo buon nome e della sua propria fama. Ho detto in secondo luogo: fatta in assenza della persona di cui si mormora, perché se si fa alla sua stessa presenza si tratta di semplice contumelia. Inoltre, se si toglie o si diminuisce la fama al prossimo, manifestando un suo difetto vero, si chiama semplice mormorazione; se poi gli si toglie la fama, propalando un difetto falso, allora si chiama calunnia, la quale è assai più grave della semplice mormorazione, perché vi si unisce una bugia perniciosa contro il prossimo. Vari poi e diversi sono i modi con cui si può togliere e diminuire la fama o la riputazione al prossimo, ossia con cui si può mormorare. S. Tommaso ne conta sino a otto. Il primo e il più grave di tutti è la calunnia.

Pare strano che un cristiano, tenuto per legge alla pratica della carità e ad amare il suo prossimo come se stesso, possa giungere a tanto di malizia da imputare ad un suo fratello, ad una sua sorella, un difetto di cui non è colpevole; questo è un peccato così odioso che non può certo commetterlo chiunque serba ancora in cuore qualche residuo di probità e di amore. Eppure, sebbene non succeda con tanta frequenza, si sono trovati dei calunniatori e delle calunniatrici che imputano a persone innocenti delle colpe che non hanno commesso, né pensato mai di commettere. S’incolpa quella di intrigante, quell’altra di scrupolosa e di manica stretta; questa come persona che riporta e che dice ciò che non dovrebbe dire; quella come persona che parla per stizza e con finzione. E non temete che vi sorprenda l’ira di Dio inventando tali calunnie?

E’ anche poi una specie di calunnia, attribuire all’operato del prossimo dei fini e delle intenzioni che egli non ha mai avuto. Quegli, dicono queste lingue calunniatrici, ha detto la tal cosa, ma dev’essere perché qualcuno l’ha informato; quell’altro ha fatto la tal cosa, ma per farsi vedere e stimare; questa non tratta quasi mai con me, perché mi porta odio, non mi può vedere; quella mi ha usata un’attenzione perché aspettava da me un qualche regalo; la tale va spesso al parlatorio perché non ha niente da fare; oppure è più amante della conversazione che del ritiro; quest’altra sta molto in confessionale perché è scrupolosa, oppure confessa anche i peccati degli altri; quell’altra tace e ubbidisce sempre, perché non sa dire la sua ragione e non sa farsi portare rispetto, così si lascia mettere i piedi sul collo. Oh interpreti maligni! Chi vi ha data facoltà di entrare nelle intenzioni e nel cuore dei vostri simili? Come avete ardimento di usurparvi un diritto che appartiene solamente a Dio?

Il secondo modo di mormorare e togliere, o diminuire, la fama del prossimo è quello di amplificare o accrescere un suo difetto vero; l’ingrandimento che se ne fa è anche questo una vera calunnia.

Uno per esempio, dirà o farà una cosa piccolissima e di nessun valore, ma raccontata con quell’aria di serietà, con quell’importanza si amplifica in modo che si fa comparire una grande cosa e un grande difetto.

- Se sapeste, dice una, che cosa la tale ha detto alla cuciniera di voi!

- Che cosa ha detto? – Ha detto che siete buona a far niente, che vi perdete in chiacchiere, che danneggiate la comunità e via discorrendo, e invece aveva detto solamente che la minestra era troppo salala. – Sapete niente della tale che pare una santarella? – Io no, cosa c’è? – Sa dare certe risposte! Se aveste sentito che lingua! – E invece non aveva fatto altro che parlare un po’ più forte. E intanto con l’ingrandire, le mosche diventano cammelli.

Il terzo modo di mormorare è quello di manifestare gli altrui difetti occulti. Questa maniera di screditare il prossimo è quanto mai familiare e comune nelle conversazioni e nelle adunanze: non si fa altro dalla mattina alla sera, dal principio dell’anno fino alla fine, che mormorare e dir male del prossimo. Appena si trovano insieme due persone, sapete qual è il loro trattenimento, il loro discorso? Nel parlare male di questa o di quella; nello scoprire questo o quell’altro difetto. Confessatelo voi, sorelle mie, se non è vero che trovandovi fuori di casa, o in parlatorio con parenti o altre persone, e forse anche nella stessa vostra casa con alcune delle vostre consorelle, non si faccia qualche mormorazione grave o leggera del prossimo?

Il quarto modo di mormorare è quello di interpretare sinistramente e prendere in mala parte le azioni del prossimo. Uno, per esempio, vuol fare elemosina a quella famiglia, a quelle persone bisognose e, « Non è tutta carità – dice subito il maldicente – vi sarà qualche altro fine ». Un’altra si presta volentieri e si sacrifica intorno a quella inferma e lo fa per semplice e pura carità, ma una lingua maledica vuole aggiungere che lo fa per interesse. Questa se ne sta ritirata per schivare le chiacchiere inutili e non perdere il raccoglimento e la presenza di Dio, ma la maldicente dirà che lo fa per malinconia e per cattiva indole.

Si mormora, in quinto luogo, nel negare o nascondere le opere buone del nostro prossimo. Uno, a mo’ d’esempio, crede che quella tale persona abbia fatto questa o quell’altra opera buona, abbia esercitata questa o quell’altra virtù, ma la maldicente dice che non è vero.

Si mormora, in sesto luogo, nel tacere di quelle circostanze, dalle quali dal nostro silenzio si può facilmente intendere che quel nostro prossimo non è degno d’essere lodato, o almeno non merita tanta lode. Quel tale è proprio una brava persona docile, ubbidiente, caritatevole; l’altra che sente questo discorso, tace e questo silenzio è una vera mormorazione, perché col suo silenzio dà a vedere che la cosa non è così.

In settimo luogo si manca coll’attenuare la virtù del prossimo, o col lodarlo così freddamente che gli astanti s’accorgono che chi loda non ha buona opinione della persona da lui lodata. Si mormora coi gesti, quando cioè, sentendo discorrere di qualche difetto, si indica con gli occhi o con la mano, o con altro segno una persona, quasi fosse anch’essa colpevole di un tale difetto.

In ultimo, si mormora sotto pretesto di dar buoni consigli. « Non fate come quel tale o quella tale che non si diportano molto bene. – Guardate di non imitare quell’altra che tende a far partito. – Non vi fidate di questa, perché non sa tacere una parola ». Bella maniera di dar consigli! Si mormora, dice S. Bernardo, anche sotto apparenza di zelo, di compassione, di carità. « Che disgrazia che quella persona, così modesta e devota, abbia quel tale difetto! Che dite di quella Superiora? E’ proprio una brava persona, ma non è buona a niente, non ha energia, si lascia menar pel naso da tutti. Di quel religioso, di quel sacerdote che ve ne pare? Conduce una vita irreprensibile: peccato che sia così scrupoloso e si lasci talvolta trasportare dalla sua passione, dall’interesse, dalla superbia ». E questa vi pare compassione? vi pare carità? vi pare zelo? Non vedete che sono raffinate mormorazioni, vere maldicenze?

Ma chi sono quei tali che in tante e sì svariate maniere tolgono la fama e la riputazione ai loro fratelli? Sono talvolta i cristiani, e non sono pochi. Purtroppo, anche in mezzo ad essi, anche nelle stesse famiglie religiose, non v’è cosa che si ascolti con maggior gusto, quanto la detrazione del prossimo. Il vizio di mormorare è comune a tutti. Si mormora dai ricchi e dai poveri, dalla gente di campagna e da quella di città. Si mormora non solamente dalle persone più rilassate e corrotte, ma anche da quelle che fanno professione di pietà e di religione, persone che si fanno tanto scrupolo di tante cose… e non si fanno scrupolo di mettersi sovente a dir male del prossimo e ad ascoltare volentieri chi ha da dire male. Pochi son quelli, dice S. Paolo, che sanno tenersi forti contro questo vizio. Essi dopo aver fatto resistenza a tutti gli altri vizi, cadono in questo che può chiamarsi l’ultimo laccio del demonio. Ma che gioverà a costoro la loro pietà, se sono mordaci e crudeli col loro prossimo? Che gioveranno le orazioni, le comunioni, le penitenze, se con i loro discorsi non fanno altro che denigrare la fama e la riputazione di questo e di quello? Credete forse che il mormorare non sia peccato? Esso è un vizio dei più enormi, che si oppone direttamente alla più grande di tutte le virtù, cioè alla santa fraterna carità.

A Dio piacendo, in altro ragionamento ne esamine remo la colpevolezza e la malizia, con tutte le conseguenze che ne derivano, ma intanto riflettiamo sopra noi stessi, perché si tratta di un punto di grande importanza. Ho aperto un poco il mio cuore e vi ho detto ciò che già da tempo avrei dovuto dirvi, ma ho dilazionato (e chissà che non debba rendere conto a Dio!) perché mi rincresceva, come mi rincresce grandemente ora di averlo fatto. Vi prego però di non prenderve-la a male, perché io non parlo che per scrupolo di coscienza e per vostro bene, e per l’amore che porto a questa vostra comunità. Amen.

di Sant’Agostino Roscelli
Fonte: Immacolatine.it

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