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Degna sepoltura per i bimbi non nati

Posté par atempodiblog le 31 juillet 2011

Degna sepoltura per i bimbi non nati dans Aborto fetobambinochedorme

La notizia non è nuova, ma ha ora un certo rilievo sui grandi media: a Caserta, l’associazione Difendere la vita con Maria, fondata e presieduta da don Maurizio Gagliardini, ha siglato un protocollo di intesa, approvato con delibera del 22 luglio 2011, con l’Azienda ospedaliera Sant’Anna e San Sebastiano, per promuove il seppellimento dei «bambini non nati».

Il sindaco della città ha dato la propria disponibilità a concedere un apposito spazio nel cimitero cittadino, ma, come sempe in questi casi, si è levata, violenta e intollerante, la voce di alcuni protestatari – rappresentati dal sindacato medico Fp-Cgil Medici – che sono divenuti, per il Corriere della Sera, « i medici » tout court. Il che non dovrebbe essere, dal momento che nel nostro Paese la maggioranza dei ginecologi sono obiettori e quindi ritengono l’aborto quantomeno qualcosa di negativo. Secondo il sindacato di sinistra, si tratterebbe di «violenza psicologica sulle donne da fermare».

A queste lamentazioni, si è unito, puntuale e immancabile, l’anatema dei Radicali, con un comunicato di Maria Antonietta Farina Coscioni, che comincia così: «Apripista è stata la regione Lombardia di Formigoni, che ha varato provvedimenti che vanno ben oltre le sue competenze disponendo la sepoltura dei feti come fossero esseri umani e mettendo in essere una vergognosa speculazione». Perché tanta rabbia, tanto ingiustificato livore?

A Caserta, infatti, non è successo nulla di nuovo, sia perché la sepoltura dei feti, morti per aborto spontaneo, o uccisi tramite ivg, è già realtà in varie zone del nostro paese, come, appunto, la Lombardia, sia perché nulla cambia, dal punto di vista della legge 194, in quanto l’aborto procurato rimane libero e gratuito, esattamente come prima. Cerchiamo di capire come stanno i fatti.

Nel nostro Paese è previsto il seppellimento dei feti superiori alle 20 settimane, le cui fattezze umane così evidenti e visibili impediscono anche ai più cinici di gettare questi resti umani nell’inceneritore. Un dpr del 21 ottobre 1975, n. 803, stabilisce, all’articolo 7, «su richiesta dei genitori il seppellimento anche dei prodotti di concepimento abortivi di presunta età inferiore alle 20 settimane». Proprio sulla base di questo dpr, l’allora ministro alla Sanità Donat Cattin emanò la circolare telegrafica n.500/2/4 del 13 marzo 1988, tutt’ora in vigore, in cui si stabiliva la sepoltura di feti anche in assenza di richiesta dei genitori, e si ricordava che «lo smaltimento attraverso rete fognante o i rifiuti urbani ordinari costituisce violazione del Regolamento di polizia mortuaria e del Regolamento di igiene», mentre lo «smaltimento attraverso la linea dei rifiuti speciali, seppur legittimo, urta contro i principi dell’etica comune».

Il dpr n. 285 del 1990 prevede ugualmente che i bambini, definiti «prodotti abortivi», di età gestazionale dalle 20 alle 28 settimane vengano sepolti a cura della struttura ospedaliera. A richiesta dei genitori possono essere raccolti nel cimitero, con la stessa procedura, i resti di «prodotti del concepimento» di età inferiore alle 20 settimane. In questo caso i genitori, a titolo proprio, o associazioni come quella fondata da don Gagliardini, attraverso convenzioni mirate, possono raccogliere i resti dei bambini non nati e chiedere all’unità sanitaria locale i relativi permessi del trasporto e del seppellimento. Infine dovranno accordarsi con i servizi cimiteriali, per l’atto di pietà dell’inumazione.

Riassumendo: i feti oltre le 20 settimane hanno automatico diritto alla sepoltura, anche se sovente questo avviene con ben poca cura (in modo anonimo, cumulativo, senza possibilità di conoscere il luogo), mentre per quelli più piccoli sarebbe richiesta un’analoga pietas, trattandosi pur sempre di resti umani, ma nella realtà dei fatti essi finiscono spesso bruciati nell’inceneritore insieme ai « rifiuti speciali », quando non buttati, come un tempo avveniva sicuramente più spesso, nelle fogne.

«La nostra associazione – spiegano Maria Luisa e Francesca, dell’associazione Life di Ospedaletto Euganeo, che si occupa proprio della sepoltura dei feti – è cominciata agli inizi del 2000 in seguito alla richiesta di una madre, che aveva perso il proprio bambino nelle prime settimane di gestazione. Questa madre desiderava sapere se poteva salutare il suo bambino attraverso un rito religioso. Da allora abbiamo capito l’importanza di venire in aiuto al dolore di alcune madri, e nello stesso tempo di compiere un atto dovuto a creature umane. Proprio in questi giorni una famiglia che si trova nel dolore per la perdita del proprio figlio, ha richiesto di poter seppellire il proprio bambino, morto a 18 settimane di gestazione, e ha richiesto il nostro aiuto. Il rito ha avuto luogo giovedì 12 maggio alle ore 8.30 presso l’ospedale di Monselice», che è uno dei tanti, oltre a quello di Caserta, ad aver riconosciuto questa possibilità.

La sepoltura dei feti non è però, come si potrebbe pensare, un sollievo solo per le madri che hanno visto morire un bambino desiderato, e che per questo sentono il dovere di tributargli un ultimo gesto di affetto. Può esserlo anche per quelle che, essendosi sottoposte all’aborto procurato (spesso spinte da qualcuno, dalla solitudine, dalle circostanze, da una cultura disumana…), sono poi cadute, come spesso accade, in un profondo stato di desolazione, e cercano quantomeno un luogo in cui piangere, per non essere del tutto impotenti di fronte al fantasma del loro bambino, rimpianto e perduto, ma non scomparso dal loro cuore.
Rimangono a questo punto da proporre alcune considerazioni.

La prima: gli abortisti aborrono la sepoltura dei feti, tirando in ballo contro di essa ora « i costi », ora la « violenza psicologica sulle donne », perché seppellire un feto significa riconoscergli una dignità. Significa riconoscere che è un essere umano.
Invece la mentalità abortista, ben esemplificata nella frase menzognera della Coscioni («…feti come fossero esseri umani…»), vuole che questo non avvenga: lotta perché nell’immaginario collettivo, nonostante le evidenze scientifiche, accessibili con qualsiasi ecografia, un feto rimanga un « grumo di cellule », un qualcosa di indistinto, di inumano; lotta perché abortire o partorire siano due decisioni esattamente equivalenti, in ogni circostanza. Per questo gli abortisti devono negare completamente la realtà del bambino nell’utero materno, ad ogni stadio, e anche dopo la morte.

La seconda considerazione porta un po’ più lontano, al senso stesso della vita e della morte, e quindi anche della sepoltura. Un poeta ateo come Ugo Foscolo notava che «dal dì che nozze tribunali ed are dier alle umane belve esser pietose di se stesse e d’altrui», gli uomini provvidero a seppellire i loro morti, sottraendoli alle ingiurie degli animali e degli agenti atmosferici. Foscolo riteneva che gli uomini fossero solo materia: eppure, dimostrando una lodevole e significativa incoerenza, negava potesse essere « civile » una società che sottrae ai suoi morti un ultimo tributo. La sepoltura è infatti un segno chiaro della dignità umana.

Solo gli uomini, infatti, seppelliscono i loro simili, dalla notte dei tempi. Le bestie mortali non lo fanno. Uno scienziato contemporaneo, anch’egli ateo, come Edoardo Boncinelli sostiene che tutto ciò che esiste, in un universo, anche umano, solo materiale, è sempre in vista di qualche utilità concreta. Eppure, nota in un suo libro, il fatto che gli uomini abbiano sempre seppellito i loro defunti, è, da un punto di vista puramente naturalistico e materialistico, ingiustificabile, incomprensibile. A meno che, diciamo noi, non si riconosca che l’uomo, da sempre, ha visto nei suoi cari qualcosa di più della loro carne, della loro materia: cioè una vita spirituale, un destino eterno, immortale.

Ecco, coloro che seppelliscono oggi i feti abortiti, spontaneamente o in modo procurato, saranno un giorno ricordati per la loro coraggiosa testimonianza: si dirà che in un’epoca di disumanità – che ha partorito lager e gulag, guerre mondiali e sperimentazioni sugli uomini, tentativi di clonazione e pompe Karman per fare a pezzi i bambini -, qualcuno ha lottato, con gesti simbolici e umanizzanti, per affermare la dignità di ogni singolo uomo, piccolo o grande, di 20 settimane o di 25, sano o malato che fosse. Si dirà che in tempi di feroce ateismo, quando la legge di Dio è stata sostituita dal capriccio e dall’arbitrio di ogni singolo uomo, cioè dalla legge del più forte, qualcuno ha voluto tener viva la sacra pietas e, con essa, la differenza che corre tra le cose e le persone, tra un tumore strappato dalla carne, e gettato nel water o tra i “rifiuti speciali”, e un bimbo, strappato, suo malgrado, dal grembo di sua madre e dal cuore di suo padre.

di Francesco Agnoli – La Bussola Quotidiana

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Non siamo degli abbandonati nel mondo

Posté par atempodiblog le 28 juillet 2011

Non siamo degli abbandonati nel mondo dans Antonio Socci dondolindoruotolo

[…] C’è però un episodio del Vangelo – uno solo (Mt 15,21 – 28) – in cui Gesù sembra rispondere addirittura con durezza a una dolorosa implorazione dell’uomo. Una durezza che in Gesù è del tutto insolita. Come si spiega? Che cosa nasconde? E come finisce quell’episodio? E’ una pagina che in genere viene fraintesa. Invece è estremamente significativa. Sentiamo:

Partito di là, Gesù si diresse verso le perti di Tiro e Sidòne.
Ed ecco una donna Cananèa, che veniva da quelle regioni, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide. Mia figlia è crudelmente tormentata da un demonio».
Ma egli non le rivolse neppure una parola.
Allora i discepoli gli si accostarono implorando: «Esaudiscila, vedi come ci grida dietro».
Ma egli rispose: «Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa di Israele».
Ma quella venne e si prostrò dinanzi a lui dicendo: «Signore, aiutami!».
Ed egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini».
«È vero, Signore, disse la donna, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni».
Allora Gesù le replicò: «Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri». E da quell’istante sua figlia fu guarita.

Come si giustifica questo atteggiamento di Gesù, inizialmente così duro? Lo spiega padre Dolindo Ruotolo nel suo volume di commento ai Vangeli. Egli mostra che l’episodio accade dopo uno scontro con scribi e farisei, in cui gli apostoli rischiavano di essere irretiti dai ragionamenti di costoro. Gesù allora parte e va in una regione abitata da pagani. Andò da quelle parti, scrive don Dolindo, “per indicare quello che sarebbe avvenuto in futuro e, conoscendo tutto, vi andò per mostrare con un esempio pratico agli apostoli, disorientati dalla propaganda farisaica, che cosa significasse avere fede. E’ evidente dal contesto” spiega don Dolindo “che Egli stesso attrasse a sé la povera Cananea, che andò a supplicarlo per la figlia indemoniata, anzi può dirsi che sia andato esclusivamente per lei in quelle contrade, non avendovi operato altro”.
La povera donna aveva sentito parlare dei grandi prodigi di quell’uomo ed era andata ad implorarlo per la figlia. Umilmente si gettò ai suoi piedi, lo invocò come “Figlio di David”. Com’è possibile che Gesù, il cui cuore sempre si strugge di compassione, mostri in questo caso, tanta gelida indifferenza?
La donna continuò a implorare fino a far impietosire gli apostoli che, amareggiati, intervennero presso Gesù perché la esaudisse. Ma Gesù rispose loro che era stato inviato solo alle pecore perdute della casa di Israele.
“Con queste parole” spiega Dolindo Ruotolo “non intese dire di non voler esaudire la preghiera di quella donna, ma volle mostrare agli apostoli, in una durezza che li addolorava, quanto era contraria alla carità la durezza di chi s’irrigidiva in una legge esteriore senza tener conto del suo spirito. Dal suo cuore però partivano raggi di carità invisibili che colpirono la donna, la fecero più ardita”.
Deliberatamente “volle far sentire agli apostoli, in un contrasto con una madre supplicante, quanto fosse ingiusto il disprezzo” che scribi e farisei avevano dei pagani. “Essi vedendo quel disprezzo in confronto con Lui, carità per essenza, ne distinguevano di più l’orrore… La lezione era tutta rivolta agli apostoli titubanti: essi dovevano riconoscere che non avevano quella fede profonda che sa resistere alle prove; dovettero capire quanto superiore agli scribi e ai farisei era quell’umile donna, che aveva nel cuore un tesoro di fede nel Messia…”. Il Vangelo ci informa poi che dopo questo episodio, tornato in Galilea, Gesù compì molti miracoli, guarendo ciechi, storpi, muti, consolando i loro cuori e rafforzando così la fede degli apostoli.
A questo punto padre Dolindo ricava da quell’evento un insegnamento per noi. Una stupenda intuizione che ho sentito proprio adatta a me:
“Quante volte, pregando, ci sembra che Gesù Cristo, la Madonna e i santi non ci ascoltino, e l’anima si disorienta a volte fino a sentirsi venir meno la fede! Quante volte, in questi momenti di tenebre, satana ci suggerisce che è vano pregare e ci getta in una cupa disperazione che è forse il tormento maggiore della vita! Eppure in quei momenti di oscurità , proprio allora, dobbiamo intensificare la preghiera, perché la fede esca ingigantita dalla prova ed ottenga grazie maggiori di quelle che ha richieste. Si può dire con assoluta certezza che nessuna preghiera è vana, e che quando non ci vediamo esauditi ci si prepara una consolazione più grande, temporale ed eterna. Non siamo degli abbandonati nel mondo, non siamo dei reietti, siamo figli del Padre celeste, ed Egli ci riserba il suo pane, cioè la ricchezza delle sue misericordie”.

di Antonio Socci – Caterina. Diario di un padre nella tempesta  Ed. Rizzoli

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I danni della scienza che si autodefinisce “neutrale”

Posté par atempodiblog le 27 juillet 2011

L’evoluzionismo s’è fatto dottrina dogmatica e Darwin è il suo profeta
di Giuseppe Sermonti
Tratto da:
IL FOGLIO
.it

I danni della scienza che si autodefinisce “neutrale” dans Articoli di Giornali e News sermonti

Avanzati ormai nel Ventunesimo secolo, potevamo sperare in un rinnovamento delle tematiche biologiche, da centocinquanta anni stagnanti intorno al concetto di evoluzionismo, piamente fedele alla Parola dell’ultimo profeta, Charles Darwin.

Non ci sarebbe da allarmarsi per una teoria mal definita e troppe volte contraddetta, per una teoria che si ostina a non abbandonare il campo, particolarmente in un’epoca di rapido rinnovamento di paradigmi. Non voglio qui riprendere una discussione scientifica su una enunciazione che per me giace da tempo nel magazzino polveroso della scienza archiviata, ma ribellarmi alle disastrose implicazioni filosofiche e morali che la Teoria seguita a produrre sull’uomo moderno, che in certo modo è “moderno” proprio in virtù della tesi darwiniana. Sto scrivendo al computer e mi accorgo che la parola “Gesù” è sottolineata in rosso come straniera, mentre la parola “Darwin” è entrata nell’italiano corretto. Scriveva Stuart Mill: “Accade spesso che un convincimento, universale durante un’epoca, … in un’epoca successiva diventi un’assurdità così palpabile che l’unica difficoltà è quella di cercar di capire come mai una simile idea possa essere apparsa credibile”.

Ciò è stato reso possibile dalla caduta di livello etico e accademico che si è avuta nell’epoca vittoriana e nel secolo successivo. Ha scritto il biologo W. H. Thompson nell’introduzione alla edizione centennale de “L’Origine delle Specie”: “Questa situazione, dove uomini si riuniscono a difesa di una dottrina che non sono capaci di definire scientificamente, e ancor meno di dimostrare con rigore scientifico, tentando di mantenere il suo credito con il pubblico attraverso la soppressione della critica e l’eliminazione delle difficoltà, è anormale e indesiderabile nella scienza”.

Più che il danno che la via distorta aperta da Darwin ha recato alla scienza, preoccupa il detrimento morale e culturale che esso ha arrecato e arreca al mondo. In un’epoca in cui il male della terra è identificato con la persecuzione razziale, che è considerata il simbolo del male, è decente che la nostra filosofia e la nostra economia (e l’educazione dei nostri figli) siano fondate sul principio infame della sopraffazione del debole da parte del più forte, del “might is right”? E non si dica che questa è una mia interpretazione malevola del pensiero darwiniano. Queste parole, che cito con raccapriccio, sono di Charles Darwin, nella sua “Origine dell’Uomo”: “Tra tutti gli uomini ci deve essere lotta aperta; e non si deve impedire con leggi e costumi ai migliori di avere successo e di allevare il maggior numero di figli. Tra qualche tempo a venire, non molto lontano se misurato nei secoli, è quasi certo che le razze umane più civili stermineranno e si sostituiranno in tutto il mondo a quelle selvagge”. Questa non era una prospettiva da scongiurare, ma un preciso auspicio. Era l’unico modo per l’uomo di evolversi, secondo i canoni della teoria della selezione naturale, l’unico modo per aumentare la distanza tra i gentiluomini anglosassoni e gli scimmioni africani.

Quando ho segnalato il pezzo sullo sterminio delle razze ai miei colleghi darwinisti, nessuno ha francamente preso le distanze dal Profeta della discriminazione, e qualcuno si è limitato a dire che era opportuno collocare la sbadata affermazione darwiniana nel suo contesto vittoriano. Ma nel secolo ventesimo e ancora in questo quegli stermini sono stati messi in atto, prima ancora di quando Darwin avesse previsto. Albert Einstein aveva scritto queste parole inascoltate sul darwinismo: “La teoria di Darwin sulla lotta per l’esistenza e sulla selezione ad essa connessa è stata da molti assunta come una autorizzazione a incoraggiare lo spirito di competizione… Il mondo attuale assomiglia più a un campo di battaglia che ad un’orchestra. Dovunque nella vita economica come in quella politica il principio guida è quello della lotta spietata per il successo a danno dei propri simili”. L’estremo darwinista, Richard Dawkins, deve essersene accorto, trovando comunque il modo di salvare il darwinismo. Anche il cancro, ha ragionato, è un malanno terribile, ma questa non è una buona ragione per non coltivarne lo studio. E’ però una buona ragione per combatterne la diffusione, e nessuno mi risulta stia cercando di debellare Darwin e i suoi effetti.

Rimane ai darwinisti l’ultima e inappellabile risorsa, quella di celebrare la grande Teoria come baluardo contro la superstizione e il pregiudizio. Procurarsi un avversario di comodo, un uomo di paglia. Ed eccoli impegnati a dimostrare che hanno ripreso a sventolare le insegne del “creazionismo”. Ritorna il ridicolo racconto del Genesi, che risolverebbe l’origine della vita e delle specie con un artificioso “deus ex machina”, creatore di tutte le specie con una bacchetta magica, in un paradiso terrestre, all’incirca cinquemila anni fa. Il nuovo creazionismo protestante avrebbe solo l’astuzia di nascondersi sotto il nome di “Disegno Intelligente”, senza modificare di un nulla la biblica superstizione.

Non voglio entrare nella disputa americana, che è soprattutto una disputa se sia il caso di disputare. Voglio solo dissociarmi dalla pericolosa asserzione della “neutralità” della scienza e quindi del suo diritto a una totale libertà. Una scienza che si fonda, come il selezionismo, sulla banalità del male è cattiva scienza. Una scienza che esalta la malvagità naturale per negare Dio e la ragione è cattiva scienza. Anche i fisici che allestirono a Los Alamos la bomba atomica fecero cattiva scienza, indirizzando la ricerca verso obiettivi criminali. Forse decretarono la morte della scienza e la sua affiliazione alla politica. E aveva ragione Oppenheimer quando, davanti allo spettacolo della prima esplosione nel deserto di Alamogordo confessò sconsolato: “Abbiamo fatto il lavoro del diavolo”.

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La Madonna ama farsi pregare

Posté par atempodiblog le 26 juillet 2011

La Madonna ama farsi pregare dans Antonio Socci santabernadette

Diceva santa Bernardette, nella sua semplicità: “la Madonna ama farsi pregare”. Perché la Madonna ama farsi pregare? La ragione è profonda: penso che sia perché pregare, aprendo il cuore a Lei, serve a noi, perché così può cambiarci e stringerci a sé, ottenerci grandi grazie e soprattutto convertirci. Farci ritrovare noi stessi.

Perché infine impariamo ad affidarci totalmente a Lei, con fiducia totale, senza riserve, sospetti o timori. Perché ci accorgiamo di avere una Madre, immensamente buona. Che al Figlio può chiedere tutto, quindi che può tutto. E che è la mediatrice di tutte le grazie.

Antonio Socci

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La certezza della nostra speranza

Posté par atempodiblog le 26 juillet 2011

La certezza della nostra speranza dans Citazioni, frasi e pensieri gospam

“Maria, tu sei la certezza della nostra speranza”.

San Bernardo

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Abbiamo bisogno di Maria!

Posté par atempodiblog le 26 juillet 2011

Scoprire il ruolo della Vergine e accogliere la sua presenza nella propria vita è la risposta all’invito di Cristo: «Ecco tua Madre…».
di Giuseppe Daminelli, smm

Abbiamo bisogno di Maria! dans Fede, morale e teologia marianostramadre

Fin dalle origini del cristianesimo, i santi hanno ritenuto la presenza di Maria benefica ed indispensabile nel loro cammino spirituale per raggiungere una matura e permanente comunione con Dio. San Luigi da Montfort scrive: «Mio personale convincimento è che nessuno può giungere ad un’intima unione con Nostro Signore e ad una perfetta fedeltà allo Spirito Santo senza una grandissima unione con la santissima Vergine e una grande dipendenza dal suo soccorso» (Vera devozione, 43).
Niente dunque santità nella Chiesa senza Maria, perché Maria garantisce l’unione con Cristo e la docilità allo Spirito Santo. Questa dottrina non intende certo escludere dalla santità chi non abbia conosciuto la funzione di Maria nella storia della salvezza, come i martiri dei primi secoli e tanti altri cristiani evangelici in buona fede. Comunque, richiamandosi all’importanza unica di Maria nella comunicazione della grazia di cui è stata ricolma, il Montfort continua a dire: «Soltanto Maria ha trovato grazia presso Dio. Soltanto per mezzo di Maria la troveranno ancora quanti verranno in seguito…
L’Altissimo l’ha costituita unica depositaria dei suoi tesori e unica dispensatrice delle sue grazie» (VD 44). Dalle considerazioni sul ruolo di Maria nella storia della salvezza, Luigi Grignion trae una seconda conclusione: Maria, per volontà di Dio, è necessaria agli uomini (cf VD 39-48). Abbiamo bisogno di lei per la salvezza, per la santificazione e soprattutto per la formazione dei grandi santi degli ultimi tempi. Ma l’argomento più forte viene dalla sua esperienza personale che lo fa esclamare: «Vorrei proclamare a tutte le creature quanto sei stato buono con me (o Gesù), facendomi conoscere tua Madre e consacrare a lei…
Senza Maria sarei perduto per sempre» (Il segreto di Maria, 66). Maria è, dunque, dono di Gesù che ogni discepolo diligente deve accogliere con gioia. Oggi la Chiesa ci chiede di prendere coscienza della presenza e del ruolo di Maria nel mistero di Cristo e della Chiesa, cioè nel cuore stesso del cristianesimo, quasi a dire: se vuoi essere cristiano davvero, devi accogliere Maria, devi prenderla con te, introdurla in casa tua. Questo può significare: vivere in contatto quotidiano d’amore con lei, realizzare il misterioso legame di madre-figlio, averla come guida sicura, compagna fedele nel cammino della vita. imparare da lei e condividere con lei gioie, dolori e speranze. Significa, cioè, porre Maria tra le persone più care, tra i doni più preziosi di Dio nella vita, come la Parola, l’Eucaristia, la Chiesa, i Sacramenti. È la perla di massimo valore.

Maria, necessaria per la salvezza. La Madonna è stata necessaria a Dio, di necessità ipotetica, cioè dipendente dalla volontà di lui. Il valore di questa affermazione, «necessaria a Dio», va spiegato: Dio non ha assolutamente bisogno di Maria, ma l’ha scelta ed ha voluto aver bisogno di lei nella realizzazione del piano di salvezza, inserendola nel mistero di Cristo e della Chiesa. Per questo si parla di necessità ipotetica, dipendente dalla volontà positiva di Dio.
Bisogna allora dedurre che Maria è necessaria agli uomini nel raggiungimento dell’ultimo fine, la salvezza definitiva. Perciò non si può confondere la devozione a Maria con le devozioni ai santi: è più necessaria di esse e non un soprappiù. Di conseguenza, per volontà di Dio, Maria è divenuta necessaria agli uomini per la salvezza. La devozione mariana per il conseguimento della salvezza deve essere aperta all’universalità, come è universale il mistero della salvezza, voluto da Dio, l’incarnazione e la redenzione: essa è superiore a quella dei santi per la maggior efficacia dell’intercessione di Maria e non è facoltativa, perché l’intercessione a Maria è strettamente connessa con quella di Gesù Cristo, per volontà divina.

Maria, segno di predestinazione. È segno di riprovazione non aver stima e amore per Maria di Nazareth e rigettare coscientemente la sua maternità e la sua funzione santificatrice, perché è rigettare la volontà di Dio e quindi rifiutare la via della salvezza. La vera devozione a Maria conduce a Gesù Cristo nel quale c’è la salvezza. Maria è la speranza nell’ora della morte. L’hanno provato e affermato i teologi. L’hanno detto e ripetuto i Padri e Dottori della Chiesa. Lo riconoscono perfino gli eretici, come Giovanni Ecolampadio (1482-1531). Lo provano le figure e le frasi dell’Antico Testamento. Lo confermano i sentimenti, gli esempi dei santi. L’insegna l’esperienza e lo dimostra la ragione. Gli stessi demoni e i loro fautori, spinti dalla forza della verità, spesso sono stati obbligati a riconoscerlo controvoglia. Così pure parecchi fatti attestano la medesima verità.
Per la riflessione credente e l’insegnamento concorde dei teologi, la grazia della perseveranza è un dono singolarissimo, una grazia della misericordia divina, non dei propri meriti. L’uomo può soltanto implorarla umilmente. Per questa grazia così importante, l’intercessione di Maria presso Dio ha efficacia grandissima, perché impetra la salvezza per ognuno, secondo la volontà di Dio, ma soprattutto per quelli che le sono consacrati e le sono sinceramente devoti. Papa Benedetto XV ha detto: «C’è presso i fedeli la ferma fiducia, avvalorata dalla lunga esperienza, che tutti quelli che ricorrono alla protezione di Maria, si salvano per l’eternità» (22 marzo 1918).

Luigi da Montfort ha detto che Dio vuole servirsi di Maria, perciò l’ha scelta ed eletta a svolgere una missione necessaria nell’incarnazione e redenzione. Le ha affidato, quindi, una funzione santificatrice nel mistero della Chiesa e l’ha costituita depositaria e dispensatrice di tutte le grazie, investendola di un pieno dominio nell’ordine soprannaturale. Maria ci è necessaria per la salvezza, ma anche, e molto di più, per una speciale e maggiore perfezione (cf VD 43-48). Se la devozione alla Madonna è necessaria a tutti gli uomini per attuare semplicemente la salvezza, lo è ancora molto di più per coloro che sono chiamati ad una speciale perfezione.
«Io non credo che una persona possa raggiungere un’intima unione col Signore e una perfetta fedeltà allo Spirito Santo senza avere una strettissima unione con la Madonna ed una grande dipendenza dal suo aiuto» (VD 43). Ecco messi in risalto gli elementi della perfezione: una unione intima con Gesù Cristo e una fedeltà perfetta allo Spirito Santo. Se per ottenere semplicemente la santità ordinaria, che assicuri la salvezza, è necessaria l’unione con Maria e il suo aiuto, per attuare la perfezione occorre una strettissima unione ed una grande dipendenza dal suo materno soccorso. La conclusione è di grande importanza perché il Montfort vuole portare alla categoria dei perfetti il vero devoto di Maria, che egli intende educare e formare. Maria forma i santi di tutti i tempi perché: è un modello di santità, mediatrice di grazia, madre e regina santa. Maria è dunque necessaria agli uomini per la loro salvezza, per il raggiungimento dell’ultimo fine, come speranza nell’ora della morte.

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La devozione al Prez.mo Sangue

Posté par atempodiblog le 24 juillet 2011

La devozione al Prez.mo Sangue  dans Don Giustino Maria Russolillo Beato-Giustino-Maria-Russolillo

La devozione al Prez.mo Sangue è la più sacerdotale tra tutte le devozioni cattoliche, perché è quella che più s’immedesima con il sacrificio della croce e dell’altare, quindi è quella che più conviene alle anime sacerdotali.
Nella nostra devozione al Prez.mo Sangue, non dobbiamo fermarci al culto di adorazione e lode, d’amore e ringraziamento; di riparazione e intercessione da rendersi alla divinità di Nostro Signore Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, che con il sangue ci ha redenti.
Ci dobbiamo spingere all’assimilazione con le divine perfezioni, splendenti nel sangue sparso; all’unione con le divine intenzioni e disposizioni con cui l’effuse; alla riproduzione degli atti e degli stati del suo sacrificio e così il nostro culto sarà più completo. Poiché il Prez.mo Sangue di Gesù, come ultimo termine della sua immolazione, è essenzialmente il prezzo della redenzione universale, la sua speciale devozione consisterà nel far circolare questo divin prezzo, per tutti gli effetti della grazia in tutta la Chiesa e in tutto il mondo farlo circolare per pagare tutti i debiti e acquistare tutti i meriti, per cancellare ogni macchia e ornarci di ogni bellezza; per fertilizzare ogni deserto ed estinguere ogni purgatorio; per suggellare ogni bocca dell’abisso e aprire tutte le porte del cielo.
Beato certamente chi, da ogni evento e da ogni circostanza, saprà trarre, come un tema di preghiera, così anche uno stimolo a fare la sua offerta del Prez.mo Sangue, adattata al momento, sia per la lotta contro il male che per la conquista del bene. Ma può offrire solo chi possiede.
Può offrire il prezzo del sacrificio solo chi è, almeno in qualche modo, partecipe del sacerdozio; così il Prez.mo Sangue di Gesù non può essere offerto se non da chi, almeno in largo senso, per mezzo del Battesimo, partecipa del sacerdozio cristiano e per mezzo dello stato di grazia, possiede questo tesoro dell’eredità di famiglia dei figli adottivi di Dio, il sangue di Gesù.
Ci liberi il Signore dal credere vana cosa la ripetizione delle offerte del Prez.mo Sangue! Ci illumini il Signore sul suo valore e merito, sia dal lato della gloria che si rende a Dio, sia dal lato del bene che si attira sulle anime.
Non è vana cosa la ripetizione dell’Ave Maria nel rosario, dei salmi nel breviario, della Santa Messa tante volte celebrata ogni giorno sugli altari del mondo cristiano.
Così non è vana cosa la ripetizione e moltiplicazione dell’Offertorio del Prez.mo Sangue, che a buon diritto può considerarsi e chiamarsi come il piccolo sacrificio cristiano, riflesso del grande sacrificio della Messa!
Come è vero che il Prez.mo Sangue fu sparso per la nostra redenzione, così è ugualmente vero che ogni anima in grazia lo possiede come suo tesoro e come suo lo può offrire; solo a Dio propriamente lo può offrire, perché solo a Dio si offre il sacrificio.
Come è vero che Dio solo conosce il merito e il valore del Prez.mo Sangue, come è vero che il Prez.mo Sangue è l’unica offerta degna della santità e della giustizia di Dio, così è vero che Dio l’accoglie con gradimento infinito.

Don Giustino Maria Russolillo

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Dio è con noi!

Posté par atempodiblog le 24 juillet 2011

Dio è con noi! dans Citazioni, frasi e pensieri Ostia-santa

Dio è con noi! Non nell’azzurra volta, non al di là degli infiniti mondi, non nel fuoco violento ed in tempesta, non nell’oblio dei trascorsi tempi. Egli ora è qui! Fra i vani e tristi casi, nel fiume, che la vita ansiosa turba… Dio è con noi!

Vladimir Solov’ëv

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È molto bello essere cristiani

Posté par atempodiblog le 24 juillet 2011

È molto bello essere cristiani dans Citazioni, frasi e pensieri emmanuelmounier

È molto bello essere cristiani per la forza e la gioia che l’essere cristiani dà al cuore, la trasfigurazione dell’amore, dell’amicizia, delle ore, della morte.

Emmanuel Mounier

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La donna adultera e l’ipocrisia dei suoi accusatori

Posté par atempodiblog le 22 juillet 2011

La donna adultera e l’ipocrisia dei suoi accusatori.
Vari insegnamenti.
Tratto da: L’Evangelo come mi è stato rivelato
Opera di Maria Valtorta.

La donna adultera e l’ipocrisia dei suoi accusatori dans Commenti al Vangelo thepassion

[20 marzo 1944]
Vedo l’interno del recinto del Tempio, ossia uno dei tanti cortili contornati da porticati. E vedo anche Gesù, il quale, molto ammantellato nel suo manto che lo fascia sopra la veste, non bianca ma rosso cupo (sembra una stoffa di lana pesante), parla a della folla che lo circonda. Direi che è una giornata invernale, perché vedo che tutti sono molto ammantellati, e che faccia piuttosto freddo, perché invece di star fermi tutti camminano alla svelta come per scaldarsi. Vi è del vento che smuove i mantelli e solleva la polvere dei cortili. Il gruppo che si stringe intorno a Gesù, l’unico che stia fermo mentre tutti gli altri, intorno a questo o a quel maestro, vanno avanti e indietro, si fende per lasciar passare un drappello di scribi e farisei gesticolanti e più che mai velenosi. Sprizzano veleno dallo sguardo, dal colore del volto, dalla bocca.
Che vipere! Più che condurre, trascinano una donna sui trent’anni, scapigliata, disordinata nelle vesti come chi è stata malmenata, e piangente. La buttano ai piedi di Gesù come fosse un mucchio di cenci o una spoglia morta. E lei resta là, rannicchiata su se stessa, col volto appoggiato alle due braccia, nascosto da esse che le fanno cuscino fra il volto e il suolo. «Maestro, costei è stata colta in flagrante adulterio. Suo marito l’amava, nulla le faceva mancare. Ella era regina nella sua casa. E lei lo ha tradito perché è una peccatrice, una viziosa, un’ingrata, una profanatrice. Adultera è, e come tale va lapidata. Mosè l’ha detto. Nella sua legge lo comanda che queste tali siano lapidate come bestie immonde. E immonde sono. Perché tradiscono la fede e l’uomo che le ama e le cura, perché come terra mai sazia sempre sono affamate di lussuria. Peggio delle meretrici sono, perché senza morso di bisogno danno se stesse per dare cibo alla loro impudicizia. Corrotte sono. Contaminatrici sono. A morte devono esser condannate. Mosè l’ha detto. E Tu, Maestro, che ne dici?».

Gesù, che aveva interrotto di parlare all’arrivo tumultuoso dei farisei e che aveva guardato la muta astiosa con sguardo penetrante e poi aveva chinato lo sguardo sulla donna avvilita, gettata ai suoi piedi, tace. Si è curvato, restando seduto, e con un dito scrive sulle pietre del portico, che la polvere sollevata dal vento copre di terriccio. Quelli parlano e Lui scrive.
«Maestro? Parliamo a Te. Ascoltaci. Rispondici. Non hai capito? Questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Nella sua casa. Nel letto dell’uomo suo. Ella lo ha sporcato con la sua libidine».
Gesù scrive.
«Ma è stolto quest’uomo! Non vedete che non capisce nulla e traccia dei segni sulla polvere come un povero folle?».
«Maestro, per il tuo buon nome, parla. La tua sapienza risponda al nostro interrogare. Ti ripetiamo: questa donna non mancava di nulla. Aveva vesti, cibo, amore. E ha tradito».
Gesù scrive.
«Ha mentito all’uomo che aveva fiducia in lei. Con bocca mendace l’ha salutato e col sorriso l’ha accompagnato alla porta, e poi ha aperto la porta segreta e ha ammesso il suo amante.
E mentre il suo uomo era assente per lavorare per lei, essa, come una bestia immonda, s’è avvoltolata nella sua lussuria».
«Maestro, è una profanatrice della Legge oltre che del talamo. Una ribelle, una sacrilega, una bestemmiatrice».
Gesù scrive. Scrive e cancella lo scritto col piede calzato dal sandalo e scrive più là, girandosi piano su Se stesso per trovare altro spazio. Sembra un bambino che giuochi. Ma quello che scrive non è parola di giuoco. Ha scritto successivamente: «Usuraio», «Falso», «Figlio irriverente», «Fornicatore», «Assassino», «Profanatore della Legge», «Ladro», «Libidinoso», «Usurpatore», «Marito e padre indegno», «Bestemmiatore», «Ribelle a Dio», «Adultero». Scritto e riscritto mentre sempre nuovi accusatori parlano.
«Ma insomma, Maestro! Il tuo giudizio. La donna va giudicata. Non può col suo peso contaminare la terra. Il suo fiato è veleno che turba i cuori».

Gesù si alza. Misericordia! Che viso! È un balenare di lampi che si avventano sugli accusatori. Sembra ancor più alto, tanto tiene la testa eretta. Sembra un re sul suo trono, tanto è severo e solenne. Il manto gli è caduto da una spalla e fa un lieve strascico dietro a Lui.
Ma Egli non se ne cura. Con volto chiuso e senza la più lontana traccia di sorriso sulla bocca e negli occhi, pianta questi occhi in volto alla folla, che arretra come davanti a due lame ben pontute. Fissa uno per uno. Con una intensità di indagine che fa paura. I fissati cercano di arretrare nella folla e di nascondersi in essa. Il cerchio così si allarga e sgretola come minato da una forza occulta. Infine parla. «Chi di voi è senza peccato scagli sulla donna la prima pietra». E la voce è un tuono accompagnato da un ancor più vivo lampeggiare di sguardi. Gesù ha conserto le braccia sul petto e sta così, ritto come un giudice, in attesa. Il suo sguardo non dà pace. Fruga, penetra, accusa. Prima uno, poi due, poi cinque, poi a gruppi, i presenti si allontanano a capo basso. Non solo gli scribi e i farisei, ma anche quelli che erano prima intorno a Gesù ed altri che si erano accostati per sentire il giudizio e la condanna e che, tanto quelli che questi, si erano uniti per insolentire la colpevole e chiedere la lapidazione.
Gesù resta solo con Pietro e Giovanni. Non vedo gli altri apostoli. Gesù si è rimesso a scrivere, mentre la fuga degli accusatori avviene, e ora scrive: «Farisei», «Vipere», «Sepolcri di marciume», «Menzogneri», «Traditori», «Nemici di Dio», «Insultatori del suo Verbo»… Quando tutto il cortile si è svuotato e un gran silenzio si è fatto, non rimanendo che il fruscio del vento e quello di una fontanella in un angolo, Gesù alza il capo e guarda. Ora il volto si è placato. È mesto, ma non più irato. Dà un’occhiata a Pietro, che si è lievemente allontanato appoggiandosi ad una colonna, ed una a Giovanni che, quasi dietro a Gesù, lo guarda col suo sguardo innamorato. Gesù ha un’ombra di sorriso guardando Pietro e un più vivo sorriso guardando Giovanni. Due sorrisi diversi. Poi guarda la donna, ancora prostrata e piangente ai suoi piedi. L’osserva. Si alza, si riaggiusta il manto come fosse in procinto di mettersi in cammino. Fa un cenno ai due apostoli di avviarsi verso l’uscita. Quando resta solo, chiama la donna. «Donna, ascoltami. Guardami». Ripete il comando, perché essa non osa alzare il viso. «Donna, siamo soli. Guardami».
La disgraziata alza un viso su cui pianto e polvere fanno una maschera di avvilimento.
«Dove sono, o donna, quelli che ti accusavano?». Gesù parla piano. Con serietà pietosa. Tiene il volto e il corpo lievemente piegati verso terra, verso quella miseria, e gli occhi sono pieni di una espressione indulgente e risanatrice. «Nessuno ti ha condannata?».
La donna, fra un singulto e l’altro, risponde: «Nessuno, Maestro».
«E neppure Io ti condannerò. Va’. E non peccare più. Va’ alla tua casa. E sappi farti perdonare. Da Dio e dall’offeso. Non abusare della benignità del Signore. Va’».
E la aiuta a rialzarsi prendendola per una mano. Ma non la benedice e non le dà la pace. La guarda avviarsi, a capo chino e lievemente barcollante sotto la sua vergogna, e poi, quando è scomparsa, si avvia a sua volta coi due discepoli.

Dice Gesù: «Quello che mi feriva era la mancanza di carità e di sincerità negli accusatori. Non che mentissero nell’accusa. La donna era realmente colpevole. Ma erano insinceri facendosi scandalo di cosa da loro commessa le mille volte e che unicamente una maggior astuzia e una maggior fortuna avevano permesso rimanesse occulta. La donna, al suo primo peccato, era stata meno astuta e meno fortunata. Ma nessuno dei suoi accusatori ed accusatrici – perché anche le donne, se non alzavano la loro parola, la accusavano in fondo al cuore – erano scevri di colpa. Adultero è chi trascende all’atto e chi appetisce all’atto e lo desidera con tutte le sue forze. La lussuria è tanto in chi pecca che in chi desidera peccare.

Ricordati, Maria, la prima parola del tuo Maestro, quando ti ho chiamata dall’orlo del precipizio dove eri: “Il male non basta non farlo. Bisogna anche non desiderare di farlo”.

Chi accarezza pensieri di senso, e suscita con letture e spettacoli cercati appositamente e con abitudini malsane sensazioni di senso, è ugualmente impuro come chi commette la colpa materialmente. Oso dire: è maggiormente colpevole. Perché va col pensiero contro natura, oltre che contro morale. Non parlo poi di chi trascende a veri atti contro natura. L’unica attenuante di costui è in una malattia organica o psichica. Chi non ha tale scusante è di dieci gradi inferiore alla bestia più lurida. Per condannare con giustizia occorrerebbe essere immuni da colpa. Vi rimando a dettati passati, quando parlo delle condizioni essenziali per esser giudice. A Me non erano ignoti i cuori di quei farisei e di quegli scribi, non quelli di coloro che si erano uniti ad essi nell’inveire contro la colpevole. Peccatori contro Dio e contro il prossimo, erano in loro colpe contro il culto, colpe contro i genitori, colpe contro il prossimo, colpe, soprattutto numerose, contro le mogli loro. Se per un miracolo avessi ordinato al loro sangue di scrivere sulla loro fronte il loro peccato, fra le molte accuse avrebbe imperato quella di “adulteri” di fatto o di desiderio. Io ho detto: “È quello che viene dal cuore che contamina l’uomo”. E, tolto il mio cuore, non vi era alcuno fra i giudici che avesse il cuore incontaminato. Senza sincerità e senza carità.
Neppure l’esser simili a lei nella fame concupiscente li induceva a carità. Io ero che avevo carità per l’avvilita. Io, l’Unico che ne avrei dovuto aver schifo. Ma ricordatevi però questo: che quanto più uno è buono e più è pietoso verso i colpevoli. Non indulge alla colpa per se stessa. Questo no. Ma compatisce i deboli che alla colpa non hanno saputo resistere. L’uomo! Oh! più che canna fragile e vilucchio sottile è facile ad esser piegato dalla tentazione e portato ad avvinghiarsi là dove spera trovare un conforto. Perché molte volte la colpa avviene, specie nel sesso più debole, per questa ricerca di conforto. Perciò Io dico che chi manca di affetto per la sua donna, ed anche per la figlia sua propria, è per novanta parti su cento responsabile della colpa della sua donna o della sua creatura e ne risponderà per esse. Tanto l’affetto stolto, che è soltanto stupido schiavismo di un uomo ad una donna o di un genitore ad una figlia, quanto una trascuratezza d’affetti, o peggio una colpa di propria libidine che porta un marito ad altri amori e dei genitori ad altre cure che non siano i figli, sono fornite ad adulterio e prostituzione e, come tali, sono da Me condannati.
Siete esseri dotati di ragione e guidati da una legge divina e da una legge morale. Avvilirsi perciò ad una condotta da selvaggi o da bruti dovrebbe fare orrore alla vostra grande superbia. Ma la superbia, che in questo caso sarebbe anche utile, voi l’avete per ben altre cose. Ho guardato Pietro e Giovanni in diversa maniera, perché al primo, uomo, ho voluto dire: “Pietro, non mancare tu pure di carità e di sincerità”, e dirgli pure, come a futuro mio Pontefice: “Ricorda quest’ora e giudica come il tuo Maestro, in avvenire”; mentre al secondo, giovane dall’anima di bambino, ho voluto dire: “Tu puoi giudicare e non giudichi perché hai il mio stesso cuore. Grazie, amato, d’esser tanto mio da essere un secondo Me”.
Ho allontanato i due prima di chiamare la donna per non aumentare la sua mortificazione con la presenza di due testimoni. Imparate, o uomini senza pietà. Per quanto uno sia colpevole, va sempre trattato con rispetto e carità. Non gioire del suo annichilimento, non accanircisi contro neppure con sguardi curiosi. Pietà, pietà per chi cade! Alla colpevole indico la via da seguirsi per redimersi. Tornare alla sua casa, umilmente chiedere perdono e ottenerlo con una vita retta. Non cedere più alla carne. Non abusare della bontà divina e della bontà umana per non scontare più duramente di ora la duplice o molteplice colpa.
Dio perdona, e perdona perché è la Bontà. Ma l’uomo, per quanto Io abbia detto: “Perdona al fratello tuo settanta volte sette”, non sa perdonare due volte. Non le do pace e benedizione perché non era in lei quella completa recisione dal suo peccato che è richiesta per esser perdonati. Nella sua carne, e purtroppo nel suo cuore, non era la nausea per il peccato. Maria di Magdala, sentito il sapore del mio Verbo, aveva avuto disgusto per il peccato ed era venuta a Me con la volontà totale di essere un’altra. In costei era ancora un ondeggiamento fra le voci della carne e dello spirito. Né ella, nel turbamento dell’ora, aveva ancora potuto mettere la scure contro il ceppo della carne e reciderla per andare mutilata del suo peso bramoso al Regno di Dio. Mutilata di ciò che era rovina, ma accresciuta di ciò che è salvezza.
Vuoi sapere se si è poi salvata? Non a tutti fui Salvatore. Per tutti lo volli essere, ma non lo fui perché non tutti ebbero la volontà d’esser salvati. E questo è stato uno dei più penetranti strali della mia agonia del Getsemani.

Va’ in pace tu, Maria di Maria, e non voler più peccare neppure nelle inezie. Sotto il manto di Maria non stanno che cose pure. Ricordalo.

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Memoria Santa Maria Maddalena

Posté par atempodiblog le 22 juillet 2011

Memoria Santa Maria Maddalena dans Fede, morale e teologia beatoangelico

La Chiesa latina era solita accomunare nella liturgia le tre distinte donne di cui parla il Vangelo e che la liturgia greca commemora separatamente: Maria di Betania, sorella di Lazzaro e di Marta, la peccatrice «», e Maria Maddalena o di Magdala, l’ossessa miracolata da Gesù, che seguì il Cristo fino alla crocifissione ed ebbe il privilegio di vederlo risorto. I redattori del nuovo calendario, riconfermando la memoria di una sola Maria Maddalena senz’altra indicazione (come l’aggettivo “penitente”) hanno inteso celebrare la santa donna cui Gesù apparve dopo la Risurrezione. È questa la Maddalena che la Chiesa oggi commemora e che, secondo un’antica tradizione greca, sarebbe andata a vivere a Efeso, dove sarebbe morta. In questa città avevano preso dimora anche Giovanni, l’apostolo prediletto, e Maria, Madre di Gesù.

Fonte: Santi e Beati

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Cosa resta dei No Global cattolici?

Posté par atempodiblog le 21 juillet 2011

Cosa resta dei No Global cattolici? dans Piero Gheddo pierogheddo

Dieci anni  fa (20-22 luglio 2001) si svolgeva a Genova il G8. Gli otto Grandi del mondo si riunivano per discutere su come, nel tempo della globalizzazione, aiutare i “paesi in via di sviluppo”, specialmente quelli dell’Africa nera. Però in quei giorni vennero alla ribalta non i poveri che soffrono la fame, ma i “No Global” che manifestavano contro gli 8 Grandi e nelle frange estreme mettevano a ferro e fuoco la città di Genova.
Nel movimento No Global, circa il 60% dei 200.000 manifestanti erano cattolici, venivano da parrocchie e associazioni cattoliche. Le guide, Vittorio Agnoletto, Luca Casarini e altri si proclamavano cattolici, ma l’ideologia che i No Global esprimevano non era certamente ispirata dalla fede. D’altra parte, il “Manifesto delle Associazioni cattoliche ai leaders del G8”, firmato il 7 luglio da decine di associazioni cattoliche e istituti religiosi e anche missionari, era la chiara prova di una sudditanza dei cattolici alla corrente dei contestatori di professione, che si ispirano al marxismo e al laicismo. Si ripeteva lo schema del Sessantotto. I cattolici all’origine della protesta del 1968, come del 2001; all’inizio, in ambedue i casi, le gerarchie cattoliche tentano il dialogo con i giovani contestatori, mostrando una notevole apertura alle loro ragioni. Ma poi, nel 1968 come nel 2001, la Chiesa si accorge ben presto che la buona fede e l’indubbia generosità dei giovani  non bastano a moderare gli eccessi della protesta e l’apporto culturale dei cattolici viene fagocitato dalle altre componenti del movimento. Era successo nelle assemblee di occupazione delle università nel Sessantotto, succede nei cortei e nelle manifestazioni del luglio 2001 a Genova.
Oggi, dieci anni dopo, i No Global sono praticamente scomparsi, la storia ha dimostrato che la globalizzazione non è un’invenzione dei paesi ricchi per opprimere meglio quelli poveri, ma è “il treno dello sviluppo”: i popoli che riescono a salirci sopra si sviluppano (specie in Asia e America Latina), gli altri rimangono indietro, cioè i popoli di gran parte dell’Africa nera, che nel 1970 partecipavano al 3% del mercato globale, oggi fra l’uno e il due per cento!
Il sociologo cattolico Paolo Sorbi, passato attraverso le esperienze del Sessantotto e di Lotta continua, stigmatizzava i No Global cattolici perché la loro fede e identità era stata del tutto oscurata: “I contestatori cattolici corrono il rischio di trasformarsi nei reggicoda di una grande razionalizzazione borghese”. Beppe del Colle scriveva su Famiglia Cristiana: “L’impressione più forte suscitata dal terribile G8 di Genova è di generale sconfitta… Hanno perso i Grandi, ma hanno perso anche i piccoli, i presunti ‘nemici della globalizzazione’, che si sono rivelati furiosi demoni del Nulla, vandali odiatori di tutto quello che ha senso per le persone civili”.
Ferdinando Adornato denunziava su Il Giornale “l’inganno culturale” in cui erano caduti i cattolici: “Non si sfugge alla sensazione che alcuni settori del mondo cattolico rischino di restar vittime di un grande inganno culturale già commesso nei dintorni del Sessantotto, quando migliaia di ragazzi furono portati a confondere la Fede con la Rivoluzione, la Testimonianza evangelica con la Violenza… L’inganno consiste nell’annacquare totalmente l’identità cristiana nei riti di una comune e indistinta protesta contro l’egoismo e le disuguaglianze sociali”. Il sociologo Giuseppe De Rita si chiedeva ironicamente su Avvenire: “A cosa è servita la presenza cattolica nelle manifestazioni e nei cortei di Genova? E cosa ne resta dopo il calor bianco raggiunto in quei giorni?”. Gianni Baget Bozzo scriveva sul Giornale: “Genova ha raggiunto due vertici: la più violenta manifestazione del nichilismo anti-occidentale e un singolare impegno dei movimenti cattolici italiani per le tesi antiG8… Così la Chiesa ha offerto ai nichilisti antioccidentali una copertura religiosa e al tempo stesso una massa numerica che è servita a coprire l’azione dei violenti”.
Ero a Genova nel luglio 2001 (nella casa del Pime a Nervi), ho partecipato all’inizio della prima manifestazione e alla sera ho avuto, allo stadio Carlini, una animata  conversazione con un buon gruppo di giovani, sotto uno striscione che dichiarava: “Un altro mondo è possibile”. Io suggerivo: “Il mondo nuovo è possibile, ma solo a partire da Cristo”. Un discorso che suscitava ironia e opposizione: noi crediamo in Cristo, ma cosa c’entra questo nei problemi politici e economici del G8? Mi torna alla mente il grande e caro Davide Turoldo, che in un dibattito sul Vietnam, a Torino  nel 1973, tuonava: “Ricordati Gheddo, che il socialismo è l’unica speranza dei poveri!”. Dopo il G8 di Genova, in un dibattito alla televisione su questo tema, alla mia proposta di convertirci a Cristo come modello di amore al prossimo, che ha donato la sua vita per gli altri, una personalità dichiaratamente cattolica (vivente), ha commentato: “La conversione a Cristo è un fatto personale e non è importante. L’importante è amare l’uomo …”. Ma come “amare l’uomo”? Per noi cristiani la verità sull’uomo ha un nome preciso e nessun altro nome: Cristo.

Ripensando alle discussioni infuocate di quegli anni, il motivo fondamentale di dissenso che ancor oggi mi separa dagli epigoni cattolici del movimento No Global è questo. I cattolici dovrebbero sapere che l’unica vera e decisiva rivoluzione che salva l’uomo e l’umanità l’ha compiuta Cristo duemila anni fa. L’esperienza dei missionari conferma che il contributo essenziale della Chiesa alla crescita di un popolo e alla sua liberazione da ogni oppressione non è l’aiuto materiale o tecnico, quanto l’annunzio di Cristo: una famiglia, un villaggio, diventando cristiani passano da uno stato di passività, negligenza, divisione, ad un inizio di cammino di crescita e di liberazione. Il perché mi pare evidente e andrebbe ripreso e approfondito dai No Global cattolici e portato coraggiosamente alla ribalta nelle manifestazioni.
Non capisco perché in Italia, anche nelle riviste missionarie, questi discorsi si fanno poco o nulla e sembra quasi che noi ci siamo fatti missionari per distribuire cibo, costruire scuole, condividere la vita dei poveri, protestare contro il debito estero e la vendita delle armi ai paesi poveri… Insomma non mi risulta chiaro, nell’animazione e nella stampa missionaria in Italia, che il primo vero dono che noi portiamo ai popoli è la fede in Cristo, che trasforma la vita e la società, creando un modello nuovo e più umano di sviluppo. I cari e illusi confratelli e suore missionarie, che hanno recentemente manifestato in Piazza San Pietro, qualificandosi come tali, contro la politica italiana che vuol privatizzare la gestione dell’acqua, hanno solo contribuito ancora una volta a far apparire i missionari come “operatori sociali”. E’ solo un esempio di una tendenza generale che, nata nel Sessantotto, è riemersa a Genova nel 2001 e continua tuttora.
Il 2 dicembre 1992 l’arcivescovo di Milano card. Carlo Maria Martini, parlando ai missionari del Pime impegnati nella stampa e nell’animazione missionaria in Italia, citava le lettere di San Francesco Saverio, dicendo che “ancor oggi quelle lettere hanno una forza comunicativa straordinaria. Noi vorremmo che la nostra stampa missionaria fosse sempre così, cioè che avesse questa forza comunicativa del Vangelo, proprio attraverso le notizie sulla diffusione del Vangelo… Ridateci lo stupore del primo annunzio del Vangelo, ridatelo alle nostre comunità, non soltanto ai cristiani delle terre di missione, ma anche a noi, perché questo stupore riscaldi il cuore di tutti”.

Padre Piero Gheddo

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Il tempo della libertà

Posté par atempodiblog le 5 juillet 2011

«L’attesa delle vacanze documenta una volontà di vivere: proprio per questo non devono essere una “vacanza” da se stessi. Allora l’estate non sarà una interruzione o una proroga al prendere sul serio la vita» (Milano Studenti, 5 giugno 1964).
Don Luigi Giussani

Il tempo della libertà dans Don Luigi Giussani In-vacanza-con-lo-sguardo-rivolto-verso-il-Cielo

Appunti di un dialogo prendendo un aperitivo con don Giussani, prima di partire per le ferie
Fonte: Comunione e Liberazione

Dai primissimi giorni di Gioventù Studentesca abbiamo avuto un concetto chiaro e semplice: tempo libero è il tempo in cui uno non è obbligato a fare niente, non c’è qualcosa che si è obbligati a fare, il tempo libero è tempo libero.
Siccome discutevamo spesso coi genitori e coi professori sul fatto che Gs occupava troppo il tempo libero dei ragazzi, mentre i ragazzi avrebbero dovuto studiare o lavorare in cucina, in casa, io dicevo: «Avranno ben il tempo libero, i ragazzi!». «Ma un giovane, una persona adulta» mi si obiettava «lo si giudica dal lavoro, dalla serietà del lavoro, dalla tenacia e dalla fedeltà al lavoro». «No» rispondevo, «macché! Un ragazzo si giudica da come usa il tempo libero». Oh, si scandalizzavano tutti. E invece… se è tempo libero, significa che uno è libero di fare quello che vuole. Perciò quello che uno vuole lo si capisce da come utilizza il suo tempo libero.
Quello che una persona – giovane o adulto – veramente vuole lo capisco non dal lavoro, dallo studio, cioè da ciò che è obbligato a fare, dalle convenienze o dalle necessità sociali, ma da come usa il suo tempo libero. Se un ragazzo o una persona matura disperde il tempo libero, non ama la vita: è sciocco. La vacanza, infatti, è il classico tempo in cui quasi tutti diventano sciocchi. Al contrario, la vacanza è il tempo più nobile dell’anno, perché è il momento in cui uno si impegna come vuole col valore che riconosce prevalente nella sua vita oppure non si impegna affatto con niente e allora, appunto, è sciocco.
La risposta che davamo a genitori e insegnanti più di quarant’anni fa ha una profondità a cui essi non erano mai giunti: il valore più grande dell’uomo, la virtù, il coraggio, l’energia dell’uomo, il ciò per cui vale la pena vivere, sta nella gratuità, nella capacità della gratuità. E la gratuità è proprio nel tempo libero che emerge e si afferma in modo stupefacente. Il modo della preghiera, la fedeltà alla preghiera, la verità dei rapporti, la dedizione di sé, il gusto delle cose, la modestia nell’usare della realtà, la commozione e la compassione verso le cose, tutto questo lo si vede molto più in vacanza che durante l’anno. In vacanza uno è libero e, se è libero, fa quello che vuole.
Questo vuol dire che la vacanza è una cosa importante. Innanzitutto ciò implica attenzione nella scelta della compagnia e del luogo, ma soprattutto c’entra con il modo in cui si vive: se la vacanza non ti fa mai ricordare quello che vorresti ricordare di più, se non ti rende più buono verso gli altri, ma ti rende più istintivo, se non ti fa imparare a guardare la natura con intenzione profonda, se non ti fa compiere un sacrificio con gioia, il tempo del riposo non ottiene il suo scopo. La vacanza deve essere la più libera possibile. Il criterio delle ferie è quello di respirare, possibilmente a pieni polmoni.
Da questo punto di vista, fissare come principio a priori che un gruppo debba fare la vacanza insieme è innanzitutto contrario a quanto detto, perché i più deboli della compagnia, per esempio, possono non osare dire di no. In secondo luogo è contro il principio missionario: l’andare in vacanza insieme deve rispondere a questo criterio. Comunque, innanzitutto, libertà sopra ogni cosa. Libertà di fare ciò che si vuole… secondo l’ideale! Che cosa ne viene in tasca, a vivere così? La gratuità, la purità del rapporto umano.
In tutto questo l’ultima cosa di cui ci si può accusare è di invitare ad una vita triste o di costringere ad una vita pesante: sarebbe il segno che proprio chi obietta è triste, pesante e macilento. Dove macilento indica chi non mangia e non beve, perciò chi non gode della vita. E dire che Gesù ha identificato lo strumento, il nesso supremo tra l’uomo che cammina sulla terra e il Dio vivente, l’Infinito, il Mistero infinito, col mangiare e col bere: l’eucarestia è mangiare e bere – anche se adesso tanto spesso è ridotta a uno schematismo di cui non si capisce più il significato -. È un mangiare e un bere: agape è un mangiare e bere. L’espressione più grande del rapporto tra me e questa presenza che è Dio fatto uomo in te, o Cristo, è mangiare e bere con te. Dove tu ti identifichi con quel che mangi e bevi, così che, «pur vivendo nella carne io vivo nella fede del Figlio di Dio» (“fede” vuol dire riconoscere una Presenza).

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Confidiamo nella Provvidenza Divina e nella Sua Misericordia

Posté par atempodiblog le 4 juillet 2011

Confidiamo nella Provvidenza Divina e nella Sua Misericordia dans Beato Pier Giorgio Frassati Beato-Pier-Giorgio-Frassati

Nelle mie lotte interne mi sono spesso domandato perché dovrei io essere triste? dovrei soffrire, sopportare a malincuore questo sacrifizio? Ho forse io perso la Fede? no, grazie a Dio, la mia Fede è ancora abbastanza salda ed allora rinforziamo, rinsaldiamo questa che è l’unica Gioia, di cui uno possa essere pago in questo mondo.
Ogni sacrificio vale solo per essa; poi, come cattolici, noi abbiamo un Amore che supera ogni altro e che dopo quello dovuto a Dio è immensamente bello, come bella è la nostra religione. Amore che ebbe per avvocato quell’Apostolo, che lo predicò giornalmente in tutte le sue lettere ai vari Fedeli. La Carità, senza di cui, dice S. Paolo, ogni altra virtù non vale. Essa sì che può essere di guida e d’indirizzo per tutta la vita, per tutto un programma. Essa con la Grazia di Dio può essere la meta a cui il mio animo può attendere. Ed allora noi al primo momento siamo sgomenti, perché è un programma bello, ma duro, pieno di spine e di poche rose, ma confidiamo nella Provvidenza Divina e nella Sua Misericordia.

Pier Giorgio Frassati – Lettera a Isidoro Bonini (Torino, 6/3/1925)

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La differenza fra un treno e un golpe

Posté par atempodiblog le 4 juillet 2011

La differenza fra un treno e un golpe dans Articoli di Giornali e News tav

Sarebbe fin troppo banale condannare la guerriglia in Val di Susa dicendo che mai e poi mai si può giustificare l’uso della violenza, che una cosa sono le proteste pacifiche e un’altra i lanci di pietre e di bombe carta, eccetera eccetera. Tutte considerazioni ovvie, anche se doverose. Ma questa volta crediamo che si possa dire qualcosa di più, oltre alla solita litania di «sdegno», «indignazione», «ferma condanna» e così via.

Il punto è la distinzione tra la manifestazione del mattino e quella del pomeriggio. La prima è stata pacifica, con famigliole in corteo. La seconda la gazzarra che sappiamo, con i famigerati black bloc in azione. Tra i manifestanti del mattino e quelli del pomeriggio, o se volete tra gli storici comitati No Tav e i professionisti della violenza, c’è dunque una differenza netta. Questa sarebbe appunto la considerazione scontata e banale.

Quella meno scontata e meno banale, invece, riguarda i toni, le dichiarazioni, i discorsi che purtroppo abbiamo sentito anche dai manifestanti non violenti. Abbiamo sentito parlare di militarizzazione della valle, di violenza di Stato, di polizia assassina. Beppe Grillo poi ci ha messo il suo carico da novanta.

Ieri è venuto in Val di Susa e dalla sua arringa abbiamo estrapolato parole come «dittatura», «guerra civile», «rivoluzione», «eroi». Mettendo in ordine queste parole pesanti come pietre, Grillo ha in sostanza detto che in Val di Susa il regime sta facendo prove di dittatura, che siamo ormai alla guerra civile e che i No Tav faranno una rivoluzione che li renderà, appunto, degli eroi.

Ma di che cosa stiamo parlando? Si può pensare ciò che si vuole dell’alta velocità. Ma occorre anche stare ancorati alla realtà, e la realtà è che in Val di Susa si stanno scavando delle gallerie per far passare un treno. Belle o brutte, ma gallerie per un treno. Punto e stop. Dove sono le prove di dittatura? Inoltre, mettendo tutto nel medesimo minestrone, i capi della protesta attribuiscono a Berlusconi il tentato golpe della Tav, che invece è stata decisa da governi precedenti e di diverso colore, che è scolpita in un accordo intergovernativo tra Italia e Francia e rientra tra le grandi reti europee che disegneranno i trasporti per almeno un secolo. Se la Torino-Lione non si farà, un pezzo consistente di Italia sarà tagliato fuori da questa rete e non per quattro o cinque anni, ma per il futuro. È una faccenda che va guardata con un’elementare prospettiva storica, specie nel centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia perché proprio allora si decise il traforo del Fréjus. Cosa sarebbero stati il Piemonte e l’Italia senza quella linea ferroviaria voluta da Cavour? È possibile che un sistema economico sia prigioniero di una minoranza localistica condannata a diventare l’alibi dei professionisti della guerriglia? Che c’entra Berlusconi?

L’altro giorno l’ex sindaco Chiamparino, che certo non è un berlusconiano, ha ricordato l’elementare principio secondo il quale la democrazia ha delle regole, per cui un’opera ormai decisa e deliberata non può essere messa in discussione all’infinito. Oltretutto, prima di dare il via all’opera, ci sono stati centinaia di incontri con i sindaci, variazioni del tracciato, e via dicendo. Insomma non si può dire che non si siano ascoltate anche le ragioni di chi era contrario.

Pure le accuse rivolte alla polizia ci paiono deliranti. Si è parlato di cariche di tipo sudamericano. A noi pare che, a differenza di quanto accadde dieci anni fa a Genova, la polizia sia stata attentissima a non compiere alcun abuso. Si è difesa, certo: non doveva? L’elenco dei feriti però parla chiaro: la stragrande maggioranza sono poliziotti, non manifestanti. E comunque anche qui c’è una sproporzione stupefacente tra la realtà e la sua raffigurazione fornita da alcuni capi della protesta: la polizia ha cercato di garantire l’apertura di un cantiere, non è venuta a reprimere un’espressione di libero pensiero.

Chi guida a viso scoperto la protesta, non mette il passamontagna dei delinquenti e vuole sinceramente mantenere il tutto nell’ambito della manifestazione pacifica, dovrebbe riflettere sull’effetto che certe iperboli hanno sulle teste calde. Si sa che ci sono, le teste calde. Se si continua a far credere che in Val di Susa invece che un treno passerà un golpe, sarà più difficile operare distinzioni nette tra le manifestazioni del mattino e quelle del pomeriggio.

di Michele Brambilla – La Stampa

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