Il giudizio temerario
Posté par atempodiblog le 24 mai 2011
In due modi si può recar danno alla fama del prossimo e fargli perdere la sua buona stima e la sua reputazione: 1°) con la calunnia e la mormorazione, come abbiamo veduto nelle precedenti istruzioni; 2°) internamente col giudizio temerario. Quando noi diciamo male di qualcuno, mormorando o calunniandolo, facciamo perdere a questo tale quella buona stima ch’egli godeva presso gli altri; quando invece ne giudichiamo male, gli facciamo perdere la buona opinione ch’egli godeva presso noi stessi, cioè nella nostra mente. Dopo aver parlato della maldicenza con cui si toglie la fama al prossimo, esternamente, è bene che parliamo anche del giudizio temerario con cui si toglie la fama al prossimo, internamente.
Anche il giudizio temerario è un vizio che è divenuto comune, perché ci si mette, con tutta facilità, a giudicare e a sentenziare sulle azioni altrui. Vediamo quanto sia male giudicare temerariamente il prossimo, per evitare in noi questo vizio, per averne l’orrore che esso merita e per schivarlo con diligenza. Uditemi con attenzione.
Per procedere con chiarezza in questa materia e togliere ogni ansietà all’anima timorata e devota, bisogna avvertire che non sono giudizi temerari quei semplici pensieri e quei sospetti involontari che vengono in mente contro il prossimo, senza accorgercene, e che vorremmo che non ci venissero. Altro è sentirsi da essi molestati e combattuti, altro è essere vinti. Sarebbe bene che in noi ardesse tale carità verso il prossimo che ci facesse sempre pensar bene di tutti, e che fossimo così occupati nella indagine dei nostri difetti da non aver tempo di pensare a quelli degli altri; ma poiché in questa vita non viviamo senza tentazioni, basterà che contro di esse si combatta e si resista.
In secondo luogo bisogna avvertire che altro è il sospetto e altro è il giudizio. Il sospetto si ha quando si è più inclinati a credere il male; il giudizio si ha quando si ritiene una cosa per certa e indubitata. Il giudicare male del prossimo, apertamente e fermamente, senza giusto e vero motivo, è sempre peccato grave, perché ritenendo decisamente il nostro prossimo come cattivo, gli si toglie la buona stima e la riputazione. Ho detto: giudicar male decisamente, senza giusto motivo, perché se vi fossero dei gravi motivi, ossia dei gravi e forti indizi, allora il nostro giudizio non sarebbe più temerario, sebbene anche in questo caso sarebbe molto meglio sospendere ogni giudizio e coprire ogni cosa col manto della carità.
Premesse queste nozioni generali, è certo che non è mai lecito, senza un grave e giusto motivo, giudicar male del prossimo; se noi lo facciamo, i nostri giudizi sono sempre temerari e gravemente peccaminosi, a meno che la cosa di cui si giudica sia piccola e di poco conto, nel qual caso il giudizio sarebbe solo colpa veniale, per parvità di materia.
La ragione è quella che adduce l’angelico dottore S. Tommaso. Tre condizioni, dice il santo, si richiedono affinché un giudizio sia retto e lecito: a) autorità in chi giudica; b) cognizione di ciò di cui si giudica; c) che si giudichi con giustizia. Ora, che autorità abbiamo noi sopra il nostro prossimo? L’autorità è di due sorta: ordinaria e delegata. L’ordinaria è quella che compete a qualcuno in ragione del suo ufficio; la delegata è quella che si dà ad alcuno da chi ha l’ordinaria. Per esempio, un principe che abbia un assoluto dominio sopra i sudditi del suo regno, ha una giurisdizione ordinaria sopra di essi, e con autorità ordinaria li può giudicare. Ma perché non può trovarsi in ogni luogo del suo stato, costituisce dei ministri, propone loro che facciano le sue veci e questi si chiamano giudici delegati. Ora, di queste due autorità quale abbiamo noi che ci mettiamo a giudicare così facilmente il nostro prossimo? Nessuna: né l’ordinaria perché non abbiamo un ufficio a cui questa sia annessa; né la delegata, perché non ci fu conferita da nessuno. Non ci fu data nemmeno da Dio, supremo padrone di tutte le cose, a cui solo appartiene il diritto di giudicare tutti gli uomini. Egli, anzi, ci proibisce nel suo Vangelo di giudicare i fratelli, e se lo facciamo, ci minaccia di avere per noi giudizi severi: «Non giudicate e non sarete giudicati; un giudizio senza misericordia sarà fatto per colui che non usò misericordia».
«Chi siete voi – dice S. Paolo – che vi prendete la libertà di giudicare il servo altrui? Sono forse vostri sudditi e dipendenti, quelli che voi giudicate? Certo no: sono servi e dipendenti di Dio. Se fanno bene o male, se cadono o no, non tocca a voi tenerne conto. Perché, dunque, volete censurare il vostro fratello, continua l’Apostolo, se non è suddito né servo vostro? Se sopra di lui non avete alcuna giurisdizione o potere? Lasciatelo completamente al suo giudice naturale, altrimenti fate ingiuria al vostro fratello, sottomettendolo al vostro giudizio, quando dipende solo da Dio».
«Nemmeno il divin Padre – dice S. Bernardo – si prende l’arbitrio di giudicare gli uomini, quantunque ne avrebbe tutto il diritto»: infatti ha rimesso il giudizio al suo divin Figlio G. C, che è giudice dei vivi e dei morti. Crediamo pure alla grande carità promessa da Gesù agli apostoli, e a noi nella loro persona, che se osserviamo scrupolosamente la sua legge e adempiamo con esattezza gli obblighi della nostra vocazione, sederemo un giorno con Gesù Cristo per giudicare. Ma non preveniamo la venuta di questo Giudice supremo, né vogliamo giudicare prima di Lui. Se solamente nel giorno del giudizio universale, Gesù Cristo ci comunicherà il suo divino potere, aspettiamo che ce ne faccia parte, e aspettiamolo con umiltà e pazienza. In una parola, non giudichiamo prima del tempo, come ci dice lo stesso apostolo Paolo, né prima della venuta del Signore; altrimenti i nostri giudizi saranno temerari, perché fatti senza autorità e sufficiente cognizione di causa, ch’è la seconda condizione richiesta da S. Tommaso, per formare un retto e giusto giudizio.
Ditemi un poco, voi che giudicate così facilmente il vostro prossimo: che cognizioni avete delle sue azioni? I giudici e i magistrati, prima di condannare uno, accusato come reo, fanno ricerche sopra ricerche. Dopo aver sentita l’accusa, esaminano con diligenza le prove da una parte e dall’altra, pesano tutte le circostanze del fatto, interrogano i testimoni, concedono la difesa al reo e fanno tutto il possibile per trarre la verità dalla bocca stessa dell’imputato, per non incorrere nel pericolo di proferire sentenze ingiuste. Ma noi, quando giudichiamo il nostro prossimo, non osserviamo alcuna di queste formalità. Solo da ciò che esternamente si vede, si giudica delle condizioni interne del cuore. Si giudica di tutto e si prendono per evidenti, i più leggeri sospetti. E non crediamo che siano falsi i nostri giudizi? Nessuna legge ancora ordina di intromettersi nel santuario dei cuori e di giudicarne i pensieri, le intenzioni, le idee, perché Dio solo può conoscere l’interno dell’uomo. La stessa Chiesa Cattolica, sebbene fondata da Gesù Cristo e illuminata dallo Spirito Santo, affinché non erri, in materia di fede e di costumi, non giudica mai le interne disposizioni e i movimenti del cuore. E noi, che non siamo che tenebre ed ignoranza, saremo così temerari ed audaci da giudicare la condotta del prossimo, la quale proviene dal fondo del cuore, perché l’azione esterna per sé non è né buona né cattiva, se non viene informata dall’interno? Ma se non capiamo neppure noi stessi, come possiamo pretendere di conoscere l’intimo degli altri? Non è forse vero che tante volte, essendo sorpresi da tentazioni di odio, d’invidia, d’impurità, non sappiamo neppure decidere se abbiamo acconsentito o no, e per levarci ogni ansietà, siamo pronte ad accusarcene in confessione come ne fossimo rei davanti a Dio? Se non sappiamo tante volte cosa passa nel nostro cuore, nel nostro intimo, come possiamo giudicare ciò che passa nell’intimo del cuore altrui? Decidiamo delle altrui intenzioni, senza timore di ingannarci; e con facilità definiamo il prossimo reo di questo o di quel difetto. Può darsi temerarietà maggiore di questa? Ma noi, padre, dirà forse qualcuna, non giudichiamo dalle sole apparenze, giudichiamo da ciò che vediamo con i nostri occhi. E il giudicare da quel che si vede, non è giudicare dall’apparenza e perciò temerariamente? Giudicare dalle apparenze, ci si mette a rischio di cadere in inganno.
Le abominazioni di Sodoma e Gomorra erano divenute così pubbliche e pestifere, che avevano contaminato tutto il paese all’intorno e, secondo l’espressione della divina Scrittura, erano salite fino al trono di Dio. Che fa Iddio? Giudica forse quegli sciagurati sull’istante e dà loro il meritato castigo? «No, esaminerò meglio la loro causa», dice Egli. Vuole portarsi sul luogo e constatare di persona l’entità di quell’enorme delitto. Ma perché questo? Iddio non è presente in ogni luogo? Non conosce minutamente ogni cosa, senza aver bisogno di portarsi a vedere? Perché, dunque, venire sul luogo a vedere, se la cosa sia vera? Per ammaestrare noi, dice S. Gregorio, e farci intendere che quando si tratta di giudicare il nostro prossimo non dobbiamo farlo così a precipizio, per quanto i fatti sembrino manifesti e divulgati. Bisogna andare adagio, prendere informazione diretta, non starsene alle relazioni altrui, esaminare se i fatti siano così, o altrimenti, per evitare i giudizi temerari. E la causa di questi giudizi sapete qual è? E’ perché si giudica secondo le proprie passioni. Sì le nostre cattive passioni sono quelle che ci spingono a giudicare il prossimo non solo senza carità, ma anche senza giustizia. L’invidia, l’amor proprio, la superbia non ci lasciano mai pensar bene del prossimo, ci fanno comparire colpevoli quegli stessi che sono innocenti. Davide agli occhi di Giònata sembrava innocente e tanto caro da essere amato da tutti; agli occhi di Saul, invece, lo stesso Davide pareva così malvagio, da giudicarlo degno di morte. Come mai un giudizio così diverso sulla stessa persona? Perché Giònata aveva un cuore ben fatto e questo lo faceva giudicare rettamente del suo amico; Saul invece aveva un cuore, maligno e lacerato dall’invidia che lo portava a fare sinistri giudizi. Gesù conduceva una vita irreprensibile, eppure scribi e farisei lo facevano passare per un peccatore. Sapete perché? Essi erano dominati da interessi e da amor proprio, e temevano che i suoi insegnamenti facessero loro perdere la stima del popolo. Così capita anche a noi, sorelle mie, giudicando il nostro prossimo con cuore accecato dalle passioni: tutto ciò che vediamo in esso ci pare vizioso e malvagio.
Stabiliamo dunque, come frutto di questa istruzione di non alzar mai più tribunali contro i nostri simili, né giudicare mai più alcuno dei nostri fratelli, perché non avendo noi autorità di farlo, mancandoci la sufficiente cognizione di poterlo fare rettamente ed essendo d’ordinario prevenuti dalle passioni, i nostri giu dizi non possono essere che temerari e conseguentemente peccaminosi. Cerchiamo di giudicare noi stessi e non gli altri, perché noi saremo giudicati da Dio non sopra le azioni altrui, ma sopra le nostre. S. Paolo ci avvisa che se giudicheremo e condanneremo noi stessi, non sentiremo più un giorno i rigori del giudizio di Dio.
Forse nel corso di questa istruzione avrò detto qualcosa che non a tutte sarà piaciuta, ma ricordatevi, mie sorelle, che come vi ho detto già un’altra volta, la verità che rimprovera è quella sola che corregge i costumi e risana il cuore dalle proprie miserie. Non dimentichiamo mai che Gesù Cristo N. S. nel S. Vangelo vieta il giudizio temerario nella maniera più rigorosa, dicendo: «Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; altrimenti sarete giudicati con la stessa severità che avrete usata verso gli altri». Amen.
di Sant’Agostino Roscelli
Fonte: Immacolatine.it
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