San Luigi Grignion di Montfort e la “scorciatoia” per la santità, testimonianza del card. Dias

Posté par atempodiblog le 28 avril 2010

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Una “scorciatoia” per la santità dei sacerdoti del terzo millennio: “San Luigi Maria Grignion de Montfort ci mostra come conoscere, amare e servire Nostro Signore avendo Maria come nostra Madre, modello e guida” – La testimonianza del Card. Ivan Dias

Il “Trattato sulla vera devozione a Maria”, scritto da San Luigi Maria Grignion de Montfort (1673-1716) agli inizi del 1700, sebbene sia indirizzato a tutti i cristiani in generale, può essere applicato in maniera particolare ai sacerdoti, perché essi “siano santi” secondo il desiderio espresso da Papa Giovanni Paolo II, e siano sacerdoti “secondo il Sacro Cuore di Gesù”. Una testimonianza sull’importanza del “Trattato” nella sua vita sacerdotale, è stata presentata dal Card. Ivan Dias, Prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, intervenuto il 24 maggio a Dublino, al Seminario sul tema “La Nuova Evangelizzazione: sacerdoti e laici. La grande sfida del nuovo millennio”.

Il Card. Dias ha confidato che nel piccolo volume provvidenzialmente acquistato in una libreria di Bombay, conobbe il segreto che San Luigi Maria Grignion de Montfort rivelava, “una scorciatoia per la santità”: “il segreto è Maria, il capolavoro della creazione di Dio. Luigi de Montfort ci mostra come conoscere, amare e servire nostro Signore con Maria come nostra Madre, Modello e Guida. Questo libro è un tesoro inestimabile”. Nel Trattato, la cui lettura è stata raccomandata da molti Pontefici, San Luigi Maria Grignion de Montfort “presenta una vivida immagine della Beata Vergine Maria che è molto rilevante nel suo rapporto con i sacerdoti”.

Il Prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli si è quindi soffermato sulle tre principali dimensioni della vocazione sacerdotale: una chiamata alla santità, una chiamata al servizio, una chiamata al combattimento spirituale. “San Luigi Maria ci insegna come Maria possa ricoprire un ruolo essenziale in ognuna di esse” ha detto il Cardinale. La santità consiste nell’amare Dio sopra ogni cosa con tutto il nostro cuore, la nostra anima e la nostra mente. Per raggiungere questo obiettivo, Grignion de Montfort invita a consacrarsi completamente a Gesù attraverso Maria, in una “schiavitù d’amore”. Una schiavitù che certamente non degrada la persona umana, ma nobilita e innalza la dignità umana.

La Vergine Maria costituisce un esempio da seguire: “Ella si è consegnata totalmente a Dio come sua creatura senza tenere nulla per se stessa. La sua intera esistenza è stata rivolta unicamente a Dio. In questo modo la Beata Vergine Maria insegna a noi sacerdoti a guardarci dal metterci su un piedistallo o a prendere per noi stessi la gloria dovuta solamente a Dio. Un sacerdote deve costantemente ricordare a se stesso che la sua vocazione sacerdotale è un libero dono di Dio, dato non per meriti personali, talenti o traguardi raggiunti, ma per la sua santificazione e per costruire il popolo di Dio”.

Riguardo al tema dell’umile servizio dell’amore che caratterizza la vocazione sacerdotale, il Card. Dias ha ricordato che alla scuola di spiritualità di Monfort, “un sacerdote che consacra se stesso come schiavo dell’amore non può mai considerare come sua proprietà personale alcuna cosa che possiede: la sua posizione e i suoi talenti, i suoi beni materiali, le persone affidate alle sue cure pastorali. Ogni cosa viene data a lui solo per essere amministrata”. Quando l’Arcangelo Gabriele si allontanò da Maria dopo l’Annunciazione, Maria non si compiacque delle nuova dignità di cui era stata investita, di essere la Madre di Dio, “ma andò in fretta ad aiutare sua cugina Elisabetta che, in età avanzata, aspettava un bambino”. Alle nozze di Cana, mentre tutti festeggiavano durante il banchetto, Maria si accorse delle giare di vino che erano vuote e convinse Gesù a compiere il suo primo miracolo. “Per Maria, essere creatura del Signore significa uscire e incontrare le necessità degli altri, e continua a fare questo anche oggi, dal suo trono in cielo. Maria ci insegna… a mettere il nostro tempo e i nostri talenti al servizio di Dio e del prossimo”. Il Cardinale quindi ha citato alcuni episodi evangelici della vita di Cristo, legati al servizio, che costituiscono un valido esempio per lo svolgimento del ministero sacerdotale.

La terza considerazione del Card. Dias legata alla vocazione sacerdotale, ha riguardato il combattimento spirituale. La lotta contro il male ha avuto inizio nel giardino dell’Eden, all’inizio della storia umana. Già allora Dio volle che Maria entrasse in scena e vi rimanesse fino alla fine dei tempi. Negli oltre duemila anni della storia della Chiesa, il combattimento tra le forze del bene e quelle del male si è svolto con intensità variabile, nella Chiesa, in generale, e negli individui. I Santi, in particolare, hanno sperimentato questo scontro più pienamente, con persecuzioni, sofferenze, difficoltà di vario genere. “Molte persone, compresi i sacerdoti, preferiscono vivere una vita mediocre per non essere assillati da Lucifero e dai suoi demoni – ha affermato il Card. Dias -. De Montfort capì molto presto questa battaglia, e lui stesso ebbe molto a soffrire per le astuzie del Maligno”. L’antidoto a tutte le tentazioni del Maligno (ricchezza, successo, potere) è la povertà di spirito, che significa distacco da tutto quello che ci allontana da Dio, e soprattutto l’umiltà, che intenerisce il cuore di Dio e lo fa guardare giù verso i poveri e gli umili. E’ proprio ciò che de Montfort propone nella consacrazione a Gesù attraverso Maria. Il Card. Dias ha quindi ricordato le apparizioni della Vergine a Santa Caterina Labouré ed il significato della Medaglia Miracolosa, in cui la Vergine è raffigurata nell’atto di schiacciare con il piede la testa del serpente, il diavolo. “La più grande umiliazione di Lucifero – ha affermato il Cardinale – è di essere schiacciato dalla Beata Vergine Maria, un essere puramente umano appartenente ad una categoria inferiore a quella degli angeli: Lei lo ha schiacciato non solo perché è la Madre di Dio, ma a motivo della sua umiltà, che è il colpo di martello con cui ha schiacciato l’incallito orgoglio di Lucifero”.

Il Card. Dias ha concluso il suo intervento ricordando che nei tempi in cui viviamo la sublime chiamata al sacerdozio richiede di essere “uomini di Dio e uomini per gli altri”, e “nel Trattato sulla vera devozione a Maria abbiamo un segreto che può aiutare noi preti a portare avanti in modo efficace queste spinte della nostra vocazione sacerdotale, in modo che siano ben accette agli occhi di Dio. Il segreto è Maria, attraverso cui San Luigi Maria Grignion de Montfort ci chiama a consacrarci come schiavi dell’amore di Gesù”. (S.L.) (Agenzia Fides 26/5/2007; righe 69, parole 1034)

Tratto da: Luci sull’Est

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Coltivare bene il proprio giardino

Posté par atempodiblog le 25 avril 2010

Il balsamo della soavità  dans Citazioni, frasi e pensieri San-Francesco-di-Sales

“Non seminate i vostri desideri nel giardino altrui, coltivate solo bene il vostro”.

San Francesco di Sales

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Cercare Gesù nel proprio cuore e non nei pettegolezzi

Posté par atempodiblog le 25 avril 2010

Cercare Gesù nel proprio cuore e non nei pettegolezzi dans Fede, morale e teologia Ges-confido-in-Te

Una volta durante la ricreazione una delle suore direttrici spinse a dire che le suore converse non avevano sentimenti, quindi potevano essere trattate con durezza. Mi rattristai per questo, perché le suore direttrici conoscevano così poco le suore converse e giudicavano solo dalle apparenze. Oggi ho parlato col Signore, il quale mi ha detto:

“Ci sono delle anime per le quali non posso far nulla; sono le anime che spiano continuamente le altre e non sanno quello che avviene nel loro proprio intimo. Parlano in continuazione delle altre, anche durante il silenzio rigoroso, che è destinato a parlare con Me. Povere anime, che non sentono le Mie parole, restano vuote nel loro intimo, non Mi cercano all’interno del proprio cuore, ma nei pettegolezzi, dove Io non ci sono mai.
Sentono il loro vuoto, ma non riconoscono la propria colpa e le anime nelle quali Io regno totalmente costituiscono per loro un continuo rimorso di coscienza. Esse invece di correggersi, hanno il cuore che si gonfia d’invidia, ma se non si ravvedono, affondano di più. Il loro cuore fino ad allora invidioso, comincia a coltivare l’odio. E sono già vicine al precipizio.
Invidiano i Miei doni alle altre anime, ma esse stesse non sanno e non vogliono accettarli”.

Santa Faustina Kowalska

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Al centro la Speranza

Posté par atempodiblog le 25 avril 2010

Al centro la Speranza dans Emmanuel Mounier hopeu

La tentazione più forte che potrebbe impadronirsi del nostro cuore di fronte agli scenari del tempo in cui viviamo, segnati dall’angoscia del terrorismo e della guerra e dall’insicurezza economica e sociale, è la disperazione: “Pensare con chiarezza e non sperare più” (Albert Camus). Se il rischio dei tempi di tranquillità e di relativa sicurezza è quello della presunzione – nell’illusione di poter cambiare facilmente il mondo e la vita -, il rischio opposto – proprio dei tempi di prova – è di vivere la paura del domani in maniera più forte della volontà e dell’impegno di prepararlo e di plasmarlo. In realtà, “l’ansietà, il timore dell’avvenire, sono già delle malattie. La speranza, al contrario, è, prima di tutto, una distensione dell’io. La speranza afferma l’inefficacia ultima delle tecniche nella risoluzione del destino dell’uomo: essa si situa all’opposto dell’avere, dell’indisponibilità. Essa fa credere, dà tempo, offre spazio all’esperienza in corso. La speranza è il senso dell’avventura aperta, tratta generosamente la realtà, anche se questa sembra contrastare i propri desideri. La speranza entra nella situazione più profonda dell’uomo. Accettarla o rifiutarla è accettare o rifiutare di essere uomo” (Emmanuel Mounier). Accogliere la sfida della speranza vuol dire allora volersi veramente umani, a testa alta fra il vento e il sole, umili e coraggiosi davanti alla fatica di vivere e all’apparente vittoria del male che ferisce la terra [...] Oggi, negli scenari di insicurezza che caratterizzano gli inizi del Terzo Millennio, è la speranza a sfidarci, per dare ragione di essa a un mondo che sempre più ne appare privo ed assetato. Si tratta di raccogliere in modo nuovo e di nuovo l’invito rivolto ai primi cristiani dall’Apostolo Pietro nella Prima delle due Lettere a lui attribuite, vero “vademecum” del discepolo  pellegrino fra gli uomini: “Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, sempre pronti a rendere ragione della speranza che è in voi” (1 Pt 3,15).

“La speranza – afferma Tommaso d’Aquino con la sobria  precisione dei concetti, che gli è propria – è l’attesa di un bene futuro, arduo, ma possibile a conseguirsi”: essa non è la semplice dilatazione del desiderio, ma l’orientamento del cuore e della vita a una meta alta, che valga veramente la pena di essere raggiunta, e che tuttavia appare raggiungibile solo a prezzo di uno sforzo serio, perseverante, onesto, capace di sostenere la fatica di un lungo cammino. Nello stesso senso, Kierkegaard definisce la speranza “la passione per ciò che è possibile”, mettendo in particolare l’accento sull’elemento del “pathos”, di quell’amore doloroso e gioioso che lega il cuore umano a ciò di cui ha profonda nostalgia e attesa. In un’epoca di passioni ideologiche, Roger Garaudy aveva definito la speranza “l’anticipazione militante dell’avvenire”, con una sottolineatura – tipica di quella stagione – dello sforzo prometeico del soggetto personale e collettivo nella realizzazione del futuro atteso. Infine, il teologo della speranza, Jürgen Moltmann, l’aveva definita agli inizi degli anni Sessanta come “l’aurora dell’atteso, nuovo giorno che colora ogni cosa della sua luce”, evidenziando come vivere la speranza significhi “tirare l’avvenire di Dio nel presente del mondo”. L’incrocio di questi diversi approcci alla speranza mostra di quante attese essa può farsi carico: ecco perché occorre distinguere i due possibili volti del futuro sperato.

Il futuro “relativo” è quello che oggi possiamo progettare e domani realizzare: è il futuro come progetto e come impegno, dilatazione del nostro presente agli orizzonti del domani che esso è in grado di prevedere e di portare a compimento. Di questo futuro si nutrono le tante speranze, piccole e grandi, di cui sono intessute le opere e i giorni degli uomini. Esse, però, da sole non coprono l’intero orizzonte: consapevoli o meno, tutti abbiamo bisogno di una speranza più grande, di una speranza ultima. Ad essa corrisponde il futuro “assoluto”: è il futuro del tutto indeducibile e nuovo, che ci viene incontro al di là di ogni calcolo e di ogni misura. È il futuro di cui è ultima sentinella la morte, compagna dichiarata o segreta di ogni meditazione profonda sul destino dell’uomo e del mondo. Ernst Bloch – il filosofo del “principio speranza” – vede in questo futuro lo spazio dell’utopia, che rende la vita bella e degna di essere vissuta, perché in essa si offre l’ “homo absconditus”, l’uomo non ancora pienamente manifestato a se stesso. La fede cristiana vi riconosce il futuro di Dio, dischiuso all’uomo come patto e promessa nella storia biblica della salvezza ed in particolare nella resurrezione di Cristo dai morti. La differenza fra l’utopia e la speranza della fede è quella stessa che c’è fra l’uomo solo davanti al suo domani, e l’uomo che ha creduto nell’avvento di Dio e aspetta il Suo ritorno, andandogli incontro con inequivocabili segni di preparazione e d’attesa.

Davanti agli scenari del tempo, seguiti agli eventi dell’11 Settembre, e davanti agli scenari del cuore, segnati in tanti dalla paura e dall’insicurezza, la speranza utopica rischia di essere evasione consolatoria, fuga dalle responsabilità del presente. La speranza della fede – pur non sottraendosi a questo rischio – calcola con l’ “impossibile possibilità” di Dio, e proprio per questo con quella maggiore audacia dell’amore che rende possibili gli altrimenti impossibili gesti della carità vissuta fino in fondo. Se c’è perciò un dono da chiedere a Dio per tutti noi [...] è la speranza teologale: una speranza più forte di ogni calcolo, eppure umile e fiduciosa nella promessa dell’Altro che è venuto a visitarci. Questa speranza non è qualcosa che si possa possedere, ma Qualcuno che ti viene incontro e ti possiede, Colui per cui vale la pena di vivere e amare e soffrire, radicati e fondati sulle parole della Sua promessa: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Matteo 28,20). È questa la speranza che coniuga la giustizia e il perdono. Una speranza di cui questo nuovo, vecchio mondo dell’inizio del terzo millennio ha più che mai bisogno per vivere e per risorgere…

di Mons. Bruno Forte

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I vescovi italiani invitano a un giorno di preghiera per il Papa nel 5° anniversario della sua elezione

Posté par atempodiblog le 18 avril 2010

I vescovi italiani invitano a un giorno di preghiera per il Papa nel 5° anniversario della sua elezione dans Articoli di Giornali e News benedettoxvi

Lunedì 19 aprile ricorre il quinto anniversario dell’elezione di Benedetto XVI al Pontificato. La presidenza della Conferenza episcopale italiana – riferisce un comunicato della Cei – “invita tutte le comunità ecclesiali a stringersi in quel giorno nella preghiera intorno a lui, centro di unità e segno visibile di comunione. In tale occasione, si individueranno a livello locale le forme più adatte (quali, per esempio, l’Eucaristia, la liturgia della Parola, veglie di preghiera, l’adorazione eucaristica e la recita del rosario) per rendere grazie a Dio per il magistero illuminato e la cristallina testimonianza del Papa. Nello stesso tempo, in quest’ora di prova – prosegue il comunicato – la Chiesa in Italia non viene meno al dovere della purificazione, pregando in particolare per le vittime di abusi sessuali e per quanti, in ogni parte del mondo, si sono macchiati di tali odiosi crimini. Confidando nella Sua parola, implora dal Signore energie nuove, perché ne rafforzi la passione educativa, sorretta dalla dedizione e dal generoso impegno di tanti sacerdoti che, insieme ai religiosi, alle religiose e ai laici, ogni giorno si spendono soprattutto nelle situazioni più difficili”.

Fonte: Radio Vaticana

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La trappola di Dio

Posté par atempodiblog le 17 avril 2010

La trappola di Dio dans Angeli La-trappola-di-Dio

“Una voce cristiana nella tua casa” è il fortunato slogan col quale Radio Maria si è fatta conoscere fin dalle origini. Tuttavia, ora che il territorio italiano è stato coperto dai celesti ripetitori, quello slogan andrebbe quanto meno integrato. Infatti oltre un quarto del nostro pubblico ascolta Radio Maria in macchina. Lo affermano le ricerche specializzate, ma se ne accorgono anche gli ascoltatori quando nei programmi più svariati, anche in quelli di teologia e di spiritualità, irrompono i camionisti. Questo exploit è anche dovuto al fatto che sulle autostrade italiane il segnale di Radio Maria è capillarmente diffuso e, in alcuni tratti, le “Ave Maria” dominano incontrastate.

Chi potrebbe conoscere gli innumerevoli miracoli che avvengono nell’abitacolo di una quattroruote? Lì l’uomo è solo e, sul sedile accanto, tutt’al più siede discreto l’angelo custode. Radio Maria spesso entra per caso, dapprima come una mosca noiosa, ma poi il ronzio diventa voce… una voce che via via si fa sempre più suadente e amica. “Ma chi glielo fa fare a questi?”, si chiede in prima battuta il fan potenziale. Infatti, se non fosse per la Madonna, chi ce lo farebbe fare? Ma poi le parole entrano nel cuore e rispondono a domande che lì nel profondo aspettano da anni… Dio ha teso la sua rete e si scopre che è tanto dolce essere presi da lui. Benedetta sia la quattroruote, trappola di Dio!

di Padre Livio Fanzaga

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Auguri “dolce Cristo in Terra”

Posté par atempodiblog le 16 avril 2010

Auguri “dolce Cristo in Terra” dans Amicizia popebirthday

Benedici, o Signore, il nostro Santo Padre, il Papa. Assistilo nel suo ufficio di pastore universale; sii la sua luce, la sua forza e la sua consolazione. E a noi concedi di ascoltare, con docilità di cuore, la sua voce come ascoltiamo la Tua.

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Festa di S. Bernadette Soubirous

Posté par atempodiblog le 16 avril 2010

Novena a Santa Bernadette dans Libri Bernardette

Il 16 aprile è la festa di S. Bernadette Soubirous. E’ il giorno in cui nel lontano 1879 è nata al cielo, dopo una lunga sofferenza. Era distesa su una poltrona rossa,  posta davanti a un caminetto, dove crepitava un bel fuoco.

E’ spirata alla tre del pomeriggio, un mercoledì della settimana dopo Pasqua. Le sue ultime parole sono state: “Santa Maria, Madre di Dio, pregate per me, povera peccatrice”. Poi disse: “ho sete”. Entrando nella gioia del paradiso ha placato la sua sete di Dio.

La vita di S. Bernadette è un capolavoro di fedeltà e di umiltà. Ci dimostra che cosa sa fare la Madonna delle nostre vite, quando ci affidiamo a Lei. La nostra esistenza nelle mani di Maria diviene una benedizione per il mondo intero.

Apparentemente non ha fatto nulla di straordinario. Ha solo risposto giorno dopo giorno alla chiamata. E’ quello che possiamo fare anche noi, lasciandoci prendere per mano dalla Madonna e permettendole di condurci con fermezza e dolcezza.

di Padre Livio Fanzaga

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Darwin non aveva ragione. Lo dicono anche gli atei

Posté par atempodiblog le 13 avril 2010

Il saggio di Jerry Fodor e Massimo Piattelli Palmarini dimostra che la teoria evoluzionista fa acqua. Persino per i positivisti. Nei viventi ci sono strane costanti che si ripetono, forme perfette ed armoniche

Darwin non aveva ragione. Lo dicono anche gli atei dans Libri scimpanze

Esiste una particolare specie di vespa (Ampulex compressa) che usa un cocktail di veleni per manipolare il comportamento della sua preda, uno scarafaggio. La vespa femmina paralizza lo scarafaggio senza ucciderlo, poi lo trasporta nel suo nido e deposita le sue uova nel ventre della preda, in modo che i neonati possano nutrirsi del corpo vivente dello scarafaggio. Mediante due punture consecutive, separate da un intervallo temporale molto preciso e in due parti diverse del sistema nervoso dello scarafaggio, la vespa riesce letteralmente a «guidare» nel suo nido già predisposto la preda trasformata in uno «zombie». La prima puntura nel torace provoca una paralisi momentanea delle zampe anteriori, che dura qualche minuto, bloccando alcuni comportamenti ma non altri. La seconda puntura, parecchi minuti più tardi, è direttamente sul capo. La vespa dunque non deve trascinare fisicamente lo scarafaggio nel suo rifugio, perché può manipolare le antenne della preda, o letteralmente cavalcarla, dirigendola come se fosse un cane al guinzaglio o un cavallo alla briglia. Il risultato è che la vespa può afferrare una delle antenne dello scarafaggio e farlo andare fino al luogo adatto all’ovodeposizione. Lo scarafaggio segue la vespa docilmente come un cane al guinzaglio. Pochi giorni più tardi, lo scarafaggio, immobilizzato, funge da fonte di cibo fresco per la prole della vespa.

Questa macabra ma illuminante storia entomologica è presentata dai cognitivisti Jerry Fodor e Massimo Piattelli Palmarini nel libro, appena stampato da Feltrinelli, Gli errori di Darwin, come uno degli argomenti più efficaci per confutare l’evoluzionismo darwiniano secondo cui gli organismi viventi traggono la loro origine da una «casuale» selezione naturale.

Nel simile comportamento delle vespe, infatti, molte cose avrebbero potuto andare in altro modo. «La natura biochimica del cocktail di veleni – osservano gli autori – avrebbe potuto essere molto diversa, risultando o del tutto inefficace o, per eccesso, letale per la preda. La scelta del momento e dei punti in cui pungere avrebbe potuto essere sbagliata in molti modi, per esempio consentendo allo scarafaggio di riprendersi e di uccidere la vespa, di lui molto più piccola. La vespa avrebbe potuto non “capire” che la preda può essere guidata al guinzaglio, dopo le due magistrali punture, e avrebbe potuto tentare di trascinare faticosamente il corpo piuttosto voluminoso nel suo nido. E via di questo passo. I modi in cui questa sequenza comportamentale avrebbe potuto uscire di strada sono in effetti innumerevoli. Neanche il più convinto fra gli adattamentisti neo-darwinisti suppone che gli antenati della vespa abbiano tentato alla cieca tutti i tipi di alternative e che siano state progressivamente selezionate soluzioni sempre più valide, fino a che non è stata trovata la soluzione ottimale, che è stata conservata e codificata nei geni» (p. 108). Per quanto lungo possa essere il tempo in cui le vespe sono in circolazione, non è possibile immaginare l’emergere «a casaccio» di un comportamento così complesso, sequenziale, rigidamente pre-programmato. «E allora? Nessuno lo sa, al momento. Simili casi di programmi comportamentali innati complessi (raffinate ragnatele, procacciamento del cibo nelle api come abbiamo visto prima, e molti altri) non possono essere spiegati direttamente mediante fattori ottimizzanti fisico-chimici o geometrici. Ma non possono essere spiegati nemmeno dall’adattamento gradualistico. È corretto ammettere che, anche se siamo disposti a scommettere che un giorno si troverà una spiegazione naturalistica, per il momento non ne abbiamo nessuna. E se insistiamo che la selezione naturale è l’unica via da esplorare, non ne avremo mai una» (p. 109).

Per i darwinisti tutto ciò che esiste è «imperfetto», perché in continua evoluzione. La selezione naturale non «ottimizza» mai, ma si limita a trovare soluzioni localmente soddisfacenti. Fodor e Piattelli Palmarini, invece, dimostrano l’esistenza di casi di soluzioni ottimali che smentiscono la tesi darwiniana. «Quando morfologie specifiche simili si osservano nelle nebulose a spirale, nella disposizione geometrica di goccioline magnetizzate sulla superficie di un liquido, nelle conchiglie marine, nell’alternarsi delle foglie sui fusti delle piante e nella disposizione dei semi in un girasole – scrivono i nostri due autori – è molto improbabile che ne sia responsabile la selezione naturale» (pp. 88-89).

Fodor e Piattelli Palmarini non vogliono avere niente a che fare con il «disegno intelligente», ma il loro libro va letto accanto a quello di Michael J. Behe, La scatola nera di Darwin. La sfida biochimica all’evoluzione (Alfa & Omega, 2007). Professore di biologia alla Lehigh University in Pennsylvania, Behe ha dimostrato come l’evoluzionismo non è in grado di spiegare strutture e processi «irriducibilmente complessi» come quelli esemplificati dalla biochimica degli organismi viventi. La complessità biochimica di un microbo non è inferiore a quella di una pianta o di un animale.

L’evoluzionismo suppone che le specie viventi siano state precedute da strutture imperfette e incompiute, progressivamente trasformatesi nelle attuali. Tanto i reperti paleontologi quanto le specie viventi provano invece l’esistenza di specie tra loro distinte con strutture in sé compiute. Nella scala dei viventi e nella gerarchia delle specie esistono evidentemente gradi di perfezione diversi. Ogni specie tuttavia può definirsi perfetta nella sua struttura e nessun organismo in natura mostra di essere in evoluzione verso una complessità maggiore. Tutti gli animali a noi noti, a cominciare dall’uomo, sono «produzioni high tech», ha osservato il biologo Pierre Rabischong (in Evoluzionismo: il tramonto di una ipotesi, Cantagalli, 2009, pp. 177-194, a mia cura).

Dove si deve cercare la soluzione? Esistono «regole», «norme», «vincoli alla stabilità» che Peter Timothy Saunders ha chiamato «leggi della forma» (An Introduction to Catastrophe Theory, Cambridge, 1980), riecheggiando quanto già Sir D’Arcy Wentworth Thompson sosteneva nel 1917 nel suo Growth and Form. Fodor e Palmarini ricordano anche la successione del matematico pisano Fibonacci, secondo cui ogni termine è uguale alla somma dei due precedenti. È la nota «sezione aurea» o «proporzione divina», che si riscontra nelle leggi armoniche della fisica, della chimica, della biologia, della mineralogia e che disturba non poco i teorici dell’evoluzionismo.
Tutto ciò che è vivente ha una sua struttura biologica e si presenta come espressione di una «forma» che va oltre le sue componenti materiali. La forma è la perfezione prima di quanto esiste, ciò che determina la differenza di un essere dall’altro, determinandone la sua originalità. La forma rinvia alla specie, che prima di essere l’unità di base della classificazione tassonomica degli esseri viventi, è una categoria logica che ha un fondamento nelle cose. Nella filosofia tradizionale la specie di ogni cosa deriva da quella forma che la rende una cosa concreta, con un’essenza specifica. Nella riflessione filosofica, infatti, è il principio che determina l’essenza e la struttura dell’essere come tale (Aristotele, Fisica, III, 2, 194 b 26; Metafisica, V, 2, 1013 b 23).

L’evoluzionismo, come già osservava Etienne Gilson, è un ibrido connubio fra una teoria filosofica e una teoria scientifica, che è impossibile dissociare. La posizione di Fodor e Piattelli Palmarini capovolge quella dei cosiddetti «teo-evoluzionisti». Questi ultimi rifiutano la concezione filosofica di Darwin, ma ne salvano la teoria scientifica, cercando di conciliarla con il «creazionismo». Fodor e Piattelli Palmarini mettono in discussione l’ipotesi scientifica della selezione naturale, ma riaffermano la loro fede filosofica nell’ateismo evoluzionista. Per criticare Darwin, l’Accademia esige infatti una professione pubblica di «anticreazionismo». Gli autori del saggio che abbiamo presentato ribadiscono di voler essere iscritti all’albo degli «umanisti ufficialmente laici». «In effetti – scrivono – entrambi ci proclamiamo atei, completamente, ufficialmente, fino all’osso e irriducibilmente atei» (p. 11). È questo il prezzo pagato per ammettere candidamente che «non sappiamo molto bene come funzioni l’evoluzione» (p. 12).C’è bisogno di proclamarsi «cattolici, completamente, ufficialmente, fino all’osso e irrimediabilmente cattolici», per spiegare che la macroevoluzione non funziona semplicemente perché è una teoria, filosofica e scientifica, falsa e infondata?

di Roberto de Mattei – Il Giornale

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Elogio del confessionale

Posté par atempodiblog le 12 avril 2010

Elogio del confessionale. Mezzo di disciplina spirituale e morale, altro che la morbosità delle Iene

Il Cardinale Piacenza: Il confessionale è come la grotta di Betlemme dans Cardinale Mauro Piacenza Confessionale

Strano posto il confessionale. Per i credenti è un luogo sacro dove si dicono i propri peccati e se ne chiede la remissione. Per chi non crede può essere un posto ambiguo, anche spaventevole. Perché lì si dice tutto di sé, più o meno come dallo psicoanalista. Perché lì, a volte, c’è chi va oltre il consentito. Il New York Times lo scorso 25 marzo ha parlato degli abusi su minori commessi dal reverendo Lawrence Murphy proprio nel confessionale. Padre Marcial Maciel Degollado, il fondatore dei Legionari di Cristo, pare usasse il confessionale per assolvere i discepoli coi quali aveva avuto rapporti. Le Iene tre giorni fa hanno fatto vedere su Italia1 un video girato con una telecamera nascosta: un presunto “prete molestatore” cerca di abusare di un ragazzo. Immagini che impressionano, tanto che ieri il direttore di Avvenire Marco Tarquinio ha scritto alle Iene per chiedere loro di dire la verità: se il “prete molestatore” esiste davvero “sputate fuori il nome e farete un servizio alla verità”, altrimenti il gioco è sporco. Monsignor Gianfranco Girotti, numero due della Penitenzieria apostolica (è l’organo vaticano che da secoli assegna grazie, attribuisce dispense, sanzioni e condoni) dice che il confessionale è un luogo “dove si esercita un sacramento con regole certe”. “Il prete e il penitente sono collocati in compartimenti separati e parlano tramite una grata traforata. La norma è ancora quella. E anche se non c’è relazione tra la prassi introdotta dopo il Concilio Vaticano II, con molte confessioni in confessionali senza grata, e i casi di abusi commessi in queste circostanze da dei preti, occorre ricordare che nessuno ha mai abolito la grata”. Perché allora c’è chi confessa senza grata? “Dopo il Vaticano II, per motivi pastorali, è invalsa la prassi che permette al confessore e al penitente di guardarsi in faccia, ma è una prassi, non la norma”. Cosa dice la norma? “Dice una parola chiara: si esige. Si esige la grata. Tra l’altro, secondo il codice di diritto canonico, il sacramento deve celebrarsi non solo in un luogo provvisto di grata ma pure in un posto ben visibile all’interno delle chiese”. Il confessionale fu opera di Carlo Borromeo. Fu lui, il cardinal nipote di Pio IV che aveva sovrinteso alla conclusione del Concilio di Trento e intendeva trasformare Milano nel laboratorio creativo delle indicazioni pastorali scaturite dallo stesso Concilio, a inventare quella specie di scatola di legno con due grate ai lati. Il penitente s’inginocchia fuori una di queste. Il prete può riconoscerlo a stento, o non riconoscerlo del tutto, e lui può non riconoscere il prete. Troppi erano i rischi di contatto tra le penitenti e il confessore nelle abitazioni private di quest’ultimo. E poi c’era da contrastare la Riforma che voleva far passare l’idea della possibilità della confessione senza prete: un contatto diretto tra la coscienza e Dio. Trento ribad l’importanza della “confessione privata”, appunto il duetto penitenteconfessore. Perché la confessione è cosa oggettiva, il momento dove si recitano i peccati a un prete il quale “non è uno psicologo dell’anima – ha detto Benedetto XVI nella lettera con la quale ha aperto l’anno sacerdotale – in quanto la psicologia è portata a giustificare e cercare attenuanti, mentre il senso di colpa resta”.
Dice il vaticanista Sandro Magister: “Non è secondario che Benedetto XVI, quando si è fatto vedere in pubblico mentre si confessava, il venerdì santo, l’abbia fatto in San Pietro nel confessionale tradizionale. Inoltre, non è senza senso un’altra indicazione. Ratzinger ha voluto l’anno sacerdotale. E in quest’anno ha voluto indicare come modello il Curato d’Ars, un prete che passava ore e ore in confessionale. E’ un modello controcorrente, un sacerdote che non ritiene la confessione un momento di confronto confidenziale ma un sacramento in cui, protetti dalla grata, si dicono i peccati commessi”.
Come Ratzinger anche Wojtyla viveva la confessione nel segno tridentino. Le cronache vaticane raccontano che il venerdì santo amava scendere in San Pietro quando ancora la basilica era chiusa. Entrava in un confessionale e aspettava che la basilica aprisse. Chi si confessava non sapeva che il confessore fosse Giovanni Paolo II. La grata non permetteva d’identificarlo.
Dopo il Vaticano II la battaglia liturgica fu aspra. Dentro questa ci fu la battaglia sugli spazi e gli arredi sacri: l’altare verso il popolo, il tabernacolo spostato in una cappella laterale e anche il confessionale. Tuonò nel 1992, e la stampa lo riprese con grande enfasi, Giambattista Torello, sacerdote psichiatra allievo di Viktor Frankl, fondatore della logoterapia. Sulla rivista Studi Cattolici, vicina all’Opus Dei, scrisse: “E’ stato il Vaticano II a dare inizio al periodo della decadenza del confessionale tradizionale, incoraggiando un nuovo modo di pentirsi davanti al sacerdote”. I confessionali divennero “come dei piccoli ambulatori insonorizzati dove al prete si va a raccontare i propri problemi, come si fosse dallo psicologo”. Il confessionale con la grata, invece, “impone la raccomandabile brevità del colloquio e la limitazione all’essenziale” ed evita che il dialogo diretto “con una donna e un giovane che descrivono mancanze contro la castità assumano un fascino morboso”. Insieme, rende più facile per il prete mantenere il ‘sigillum confessionis’, il segreto, perché la grata permette al confessore di non decifrare l’identità del penitente.
Nel XIII secolo fu il chierico inglese Tommaso di Chobham a scrivere in un Manuale di confessione il perché della necessità di mantenere il segreto: “Il sigillo della confessione deve essere segreto perché lì il confessore siede come Dio e non come uomo”.

di Paolo Rodari – © Copyright Il Foglio

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Domenica in Albis: Festa della Divina Misericordia

Posté par atempodiblog le 10 avril 2010

Domenica in Albis: Festa della Divina Misericordia dans Fede, morale e teologia misericordia

Disponiamoci interiormente a celebrare la Domenica della Divina Misericordia, durante la quale possiamo anche ottenere l’indulgenza plenaria alle solite condizioni (Confessione, Comunione, Preghiera per le intenzioni del Sommo Pontefice) e partecipando in una chiesa a una funzione in onore della Divina Misericordia, oppure pregando davanti al Santissimo Sacramento almeno il Padre nostro e il Credo, con l’aggiunta di una pia invocazione a Gesù Misericordioso.

Perchè l’indulgenza abbia effetto è necessario avere il cuore totalmente distaccato dall’affetto verso qualunque peccato, anche veniale.

Guardiamo a Gesù Misericordioso, ai suoi occhi pieni di amore, al suo cuore trafitto, al suo braccio alzato nel gesto sacerdotale del perdono dei peccati. Lasciamoci toccare dal suo amore incondizionato, che lo ha portato a sacrificare la sua vita per donarci la grazia della salvezza, la dignità dei figli di Dio e la gioia del paradiso.

Apriamo il cuore alla gratitudine e alla fiducia. Nessuno ci ama come Gesù. Il suo amore non tradisce, non abbandona, non respinge. Egli attende solo che ci gettiamo fra le sue braccia. Non guarda ai nostri peccati, ma alle lacrime del pentimento e al desiderio di risorgere.

Diamo a Gesù tutto il male che affligge la nostra vita perchè lo bruci nelle fiamme del suo amore. La fiducia nella sua Misericordia è garanzia di pace interiore e di salvezza eterna.

In questi giorni ripetiamo col cuore: « Gesù confido in Te ». « Maria fiducia mia ».

di Padre Livio Fanzaga

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Presenza di Maria nella vita cristiana

Posté par atempodiblog le 7 avril 2010

Presenza di Maria nella vita cristiana
Jean Galot S.J.
Tratto da: LA CIVILTÀ CATTOLICA del 7 ottobre 1972, anno 123, n. 2935, alle pp. 22-33
Fonte: Radio Maria

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La crisi della devozione mariana
La devozione a Maria è manifestamente in crisi. Non ci si deve meravigliare che la crisi più generale, che accompagna nella Chiesa il rinnovamento della dottrina e del culto, si ripercuota anche nel campo mariano. Tuttavia, la crisi della devozione alla Madonna appare più profonda per particolari ragioni.
Più precisamente, essa è una crisi di “devozione”. A molti cattolici è stato rimproverato un atteggiamento sentimentale che porta a lodare eccessivamente Maria,. o a pratiche di pietà che non si fondano su una reale visione della funzione della madre di Gesù nell’opera della salvezza. Un altro rimprovero, più fondamentale, è connesso col primo: il culto mariano è criticato perché ha attribuito a Maria un posto che spetta a Cristo o, ancora, perché ha usurpato ciò che appartiene allo Spirito Santo.
Sotto questi rimproveri si manifesta un’ottica differente. La “devozione” mariana si poneva la domanda: “Come onorare Maria? ”. In un periodo in cui si opera una revisione critica delle posizioni cultuali e dottrinali, e dove il cristocentrismo è messo maggiormente in risalto, il problema diventa: “Che posto si deve riconoscere a Maria nella Chiesa e, di conseguenza, nella vita cristiana”?
La reazione alle esagerazioni del passato a volte è radicale: capita, così, che, in occasione della trasformazione di chiese o di cappelle, il luogo sacro, rinnovato e felicemente adattato al gusto contemporaneo, non abbia più né statua né immagine della Madonna. Ad una esuberanza di immagini sacre che hanno fatto il loro tempo subentra un vuoto improvviso. Questo vuoto non è necessariamente l’espressione di un rifiuto; può esprimere la perplessità circa il posto da attribuire a
Maria nel culto; riflette un’epoca di transizione in cui taluni cristiani, disorientati, non sanno più come collocare Maria nella loro fede, nel loro pensiero, nella loro preghiera.
Cristo ha il suo posto ben definito: egli è al centro. È lui che spiritualmente sostiene e riempie l’edificio con la sua presenza. Egli è il nuovo tempio. Verso di lui devono convergere la preghiera e il culto, per salire con lui e per mezzo di lui, fino al Padre.
Ma, secondo il piano divino, egli non è solo. L’Incarnazione l’ha legato a Maria Vergine, in una unione indissolubile che è continuata nell’opera redentrice e continua nella Chiesa.
Ora, proprio questa unione indissolubile esige di essere riconosciuta nel culto come nell’insieme della vita cristiana. Ma, allora, che posto si deve dare a Maria? In passato, alcuni avevano concepito la sua funzione sotto il profilo della “mediazione”: Maria era la mediatrice, posta tra Cristo e i cristiani. Per mezzo suo si aveva accesso a Gesù. Questo modo di vedere aveva l’inconveniente di far pensare che Cristo non era immediatamente raggiungibile dai suoi. Invece, il posto attribuito a Maria non deve mai velare Cristo o allontanarlo da noi. Come ha affermato il Concilio, il ruolo di Maria è di aiutarci “ad aderire più intimamente al Mediatore e Salvatore”.
È dunque in funzione di Cristo, ed in vista d’un migliore accesso a lui, che Maria deve essere situata nel culto e nella dottrina. Bisognerebbe evitare che il culto mariano dia l’impressione di costituire un mondo a parte, che si sviluppa ai margini dell’insieme del culto cristiano.
La reazione contro gli eccessi di una devozione troppo sentimentale finisce a sua volta in un altro eccesso quando tende a confinare nell’ombra o a sopprimere il posto di Maria. Quello che è necessario è una “purificazione” della devozione alla Madonna, mediante una visione più chiara e più oggettiva della funzione affidata da Dio a Maria nell’opera della salvezza.
L’attenzione deve rivolgersi su Maria nella misura voluta dal Padre quando l’ha associata a suo Figlio nella grande opera di salvezza dell’umanità. Il culto mariano non si basa sul sentimento, ma sulla rivelazione della salvezza.
Aggiungiamo che, attualmente, si sente l’urgenza di procedere al rinnovamento del culto mariano. La nostra è un’epoca in cui la donna rivendica i suoi diritti nella società e nella Chiesa. Il posto attribuito a Maria nella Chiesa, nella vita di fede e nella preghiera, è proprio quello che, nel piano divino, è stato accordato alla donna. Lasciare vuoto questo posto significherebbe ignorare la donna, ammettere o sottolineare la sua assenza. La rappresentazione di Maria nei santuari cristiani dimostra la parte attiva e importante assunta dalla donna nel cristianesimo.

Quale immagine della donna?
Non soltanto si costata una disaffezione nei confronti di Maria da parte di un certo numero di cristiani, ma anche una ripugnanza a riconoscere in lei una immagine ideale della donna.

Reazioni contro l’immagine troppo “domestica” di Maria
- Prima di tutto c’è la ripugnanza che proviene da una immagine della donna ristretta alle virtù domestiche. Taluni partigiani del movimento d’emancipazione della donna hanno reagito contro l’immagine di Maria confinata nella sua casa, rinchiusa nei suoi sentimenti materni: l’esaltazione di una donna, che ha avuto come compito principale una responsabilità materna nei confronti di Gesù, sembra loro derivare da una mentalità che cerca di chiudere la donna nell’orizzonte familiare e domestico e di interdirle una funzione più larga nella società.
In realtà, si sarebbe, sotto il profilo teologico, gravemente miopi se si vedessero in Maria soltanto virtù domestiche, e non si facesse attenzione alla sua cooperazione all’opera redentrice. Poiché la maternità che fu offerta a Maria è una maternità messianica tutta orientata verso il compimento delle promesse divine della venuta di un Salvatore, a questo titolo Maria ha deliberatamente accettato il suo ruolo di madre. La sua attività a Nazareth non è consistita semplicemente nel prestare cure materne al bambino Gesù e nel tenere la casa; essa è dominata dalla preoccupazione di preparare la realizzazione del messaggio dell’Annunciazione. Una cooperazione ancora più diretta alla missione di Cristo si manifesta a Cana, dove il suo intervento ha suscitato la prima rivelazione pubblica del Cristo, e nella partecipazione al sacrificio del Calvario. Chiamando sua madre “donna” in queste due circostanze, Gesù ha chiaramente mostrato che egli poneva la collaborazione di Maria al disopra delle relazioni private tra madre e figlio e vi discerneva un contributo caratteristico della donna, coi suoi valori femminili, all’opera di liberazione dell’umanità.
Bisogna quindi che Maria sia presentata in questa prospettiva più ampia e che non ci si limiti a contemplare in lei la nobiltà dell’affetto materno e l’umiltà dell’esistenza domestica. Se la si considera come la nuova Eva, la donna che collabora con Cristo all’edificazione di una nuova umanità, Maria diventa a buon diritto l’immagine dell’autentica emancipazione femminile. In lei la donna emerge dall’orizzonte domestico per partecipare, secondo la volontà divina, nell’opera più vasta che ci sia: quella della redenzione e della divinizzazione del mondo. Ciò non significa che ella perda qualcosa della ricchezza dei suoi sentimenti materni, ma implica che la sua maternità è essenzialmente inquadrata nel piano superiore dell’opera della salvezza.
Non si può dimenticare che proprio questa prospettiva più alta è stata quella in cui Gesù stesso ha voluto che fosse considerata sua madre. Oltre alla parola “donna” che le ha rivolto nel corso della sua vita pubblica, è significativa la sua replica all’esclamazione della donna che “levò la voce dalla folla”. Questa donna pensa alla felicità della madre di Gesù: “Beato il seno che ti ha portato e le mammelle che hai succhiate!”(Lc 11, 27). Si potrebbe dire che molte rappresentazioni di Maria nell’arte cristiana sono rimaste allo stadio di questa esclamazione. Esse hanno certamente voluto far risaltare la bellezza di questa maternità, ma rimanendo al livello ordinario dell’affetto materno.
Cristo desidera che lo sguardo sia portato più in alto: “Beati piuttosto quelli che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica!”. L’eccellenza di Maria supera di molto il piano fisico della maternità: essa risiede nell’accoglienza della parola divina e nella disponibilità a compiere un’opera divina.

Reazione contro l’immagine troppo “privilegiata” di Maria.
- La ripugnanza o la disaffezione nei riguardi di Maria come immagine ideale della donna viene anche da un altro motivo. La preoccupazione di sottolineare la grandezza di Maria ha portato ad insistere sui privilegi che le sono propri e che la rendono diversa dal resto dell’umanità. C’è stata una tendenza a celebrare le “glorie” di Maria ed a fare di lei un essere a parte, troppo lontano dalle condizioni dei cristiani ordinari. La presentazione di Maria ha preso un orientamento opposto al mistero dell’Incarnazione; mentre la sua maternità è destinata a manifestare fino a qual punto questo mistero affonda nell’umano, essa è stata aureolata di un nimbo glorioso che tende a renderla estranea all’umanità terrena.
Oggi si avverte una forte reazione a questa immagine troppo “celeste” di Maria. Per questo l’immacolata concezione e la santità senza macchia della madre di Gesù esercitano sulla mentalità dei giovani minore attrattiva del fatto che Maria abbia condiviso le tentazioni e le intime lotte dell’esistenza umana. Anche la sua verginità spesso lascia freddi, perché sembra mettere Maria al disopra della condizione sessuale della donna, in un’epoca in cui il valore della sessualità è stato maggiormente sottolineato.
Evidentemente non si tratta di rinunciare all’affermazione dei privilegi di Maria; tuttavia, è importante presentarli non come privilegi che mettono da parte o allontanano dal resto degli uomini, ma come una partecipazione più profonda al destino dell’umanità nel quadro della missione di salvezza. La santità immacolata è stata concessa a Maria per una più completa solidarietà con il mondo peccatore: essa le ha permesso di unirsi, in una offérta più pura, al sacrificio redentore di Cristo. La verginità non è una negazione della sessualità, ma una maniera di viverla ad un livello più elevato, mediante il perfezionamento della personalità femminile nell’intimità col Signore e in una più universale apertura del cuore agli altri.
Osserviamo che la parola di Cristo, citata precedentemente, tendeva ad avvicinare la situazione di Maria a quella degli altri uomini. Ad una donna che pensava al privilegio della madre di colui del quale ammirava l’insegnamento o i miracoli, e che riteneva necessariamente questo privilegio come esclusivo, Gesù risponde che la felicità più grande di Maria è accessibile anche a lei. Non nega ciò che è unico in sua madre, ma sottolinea che il più autentico valore Maria l’ha in comune con tutti coloro che ascoltano la parola di Dio. Di conseguenza si può dire che Cristo è stato il primo a rettificare un modo di lodare Maria, che si fermasse unicamente a privilegi personali. Egli ha insistito sulla comunità di destino e di “felicità” di Maria con tutti gli altri esseri umani. In una parola, ha dichiarato che la condizione religiosa di Maria era quella della Chiesa.
A questo proposito non è inutile ricordare come l’ultimo Concilio sia stato condotto a seguire questa strada tracciata dal Vangelo nell’esame delle relazioni tra Maria e la Chiesa. Si sa che la tendenza a isolare Maria, per meglio preservare e sottolineare i suoi privilegi, si è particolarmente manifestata durante il dibattito sull’integrazione della dottrina mariana nel documento sulla Chiesa.
I mariologi più zelanti si sono opposti a questa integrazione: essi volevano la redazione di un documento a parte. Questa presa di posizione si comprende, del resto, dalle circostanze nelle quali due correnti si sono affrontate: una voleva considerare Maria riconoscendo in lei soprattutto un membro della Chiesa; l’altra ne sottolineava la posizione eccezionale, specialmente per la sua cooperazione, unica, al mistero dell’Incarnazione redentrice. Le due correnti avevano quasi lo stesso numero di sostenitori; al momento del voto, la prima vinceva con una debole maggioranza (l114 contro 1074). Oggi, a distanza di tempo, si è più portati a riconoscere che la decisione è stata felice, e che era veramente desiderabile, per lo stesso sviluppo della dottrina mariana, di integrare nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa un capitolo su Maria. Infatti, era proprio il posto di Maria nella Chiesa che bisognava determinare con precisione.
Il senso di questo voto non esprimeva un’indicazione dello Spirito Santo, quella di non isolare Maria dal popolo di Dio? Il timore di vedere Maria ridotta alla condizione degli altri membri della Chiesa non può determinare un atteggiamento che tenderebbe ad accentuare il più possibile una distanza separatrice. Ciò che molti temevano non si è del resto verificato nella elaborazione del capitolo VIII della Lumen gentium. Il ruolo unico di Maria è stato messo in luce. Il capitolo lo ha caratterizzato secondo due linee essenziali: quella dell’esemplarità, per cui Maria è il modello della Chiesa e dei cristiani; e quella della maternità, che esprime la missione eccezionale che le è stata attribuita nella formazione e nella vita della Chiesa, ma che l’avvicina al massimo all’insieme dell’umanità.

Maria, immagine della Chiesa
La comunità di destino di Maria con noi si manifesta in una vita di adesione a Cristo simile alla nostra. Considerando Maria come immagine della Chiesa, ci soffermeremo su tre atteggiamenti essenziali, che rivestono una importanza primordiale per il rinnovamento del culto mariano.
La Chiesa – ha dichiarato il Concilio – “diventa sempre più simile al suo grande modello, progredendo continuamente nella fede, speranza e carità”. Per ogni cristiano come per l’insieme della comunità, il progresso nella fede, speranza e carità si effettua avendo lo sguardo fisso su colei che ne ha dato un grande esempio alla nascita stessa della Chiesa.

Maria, pioniera nella fede
Il Vangelo di Luca pone in rilievo il valore della fede di Maria. II contrasto con Zaccaria contribuisce a mettere in luce l’adesione di fede con la quale Maria ha ricevuto il messaggio dell’angelo. L’elogio di Elisabetta verte specialmente su questo punto: “Beata colei che ha creduto perché si compirà ciò che le è stato detto da parte del Signore” (1,45).
Ora, nonostante questa presentazione del Vangelo, non si può dire che Maria sia stata sufficientemente ritenuta dal popolo cristiano come pioniera nella fede. Ammirando la grandezza della Madre di Dio, molti hanno trascurato di fare attenzione all’atto di fede che è stato all’origine della sua maternità. Si sono spesso considerate soltanto l’immensità e la gratuità del dono divino, lasciando nell’ombra il merito e la cooperazione di colei che ha creduto. Vera cooperazione, come suggerisce l’esclamazione di Elisabetta: la beatitudine della fede deriva dal fatto che essa contribuisce a ottenere il compimento del piano divino.
Soprattutto non è stato sufficientemente considerato lo sforzo di una fede sviluppatasi nell’oscurità. Il Concilio parla di un pellegrinaggio nella fede che durante la vita pubblica di Gesù ha condotto Maria fino al Calvario. Un pellegrinaggio è una marcia penosa, che comporta un aspetto di avventura. Contrariamente a certe immagini troppo insipide della personalità di Maria, la sua non era una fede già fatta, né una fede facile. Ella conobbe i rischi e gli ostacoli abituali alla fede cristiana.
Non si deve invocare il fatto che Maria abbia visto Gesù, come se ne derivasse che la sua fede dovesse nascere spontaneamente e senza sforzo. lnnanzitutto Maria ha dovuto credere in Cristo prima di averlo visto, perché al momento dell’Annunciazione le fu chiesto un atto di fede decisivo.
Successivamente, quando ebbe Gesù, vide solo un bambino che lentamente cresceva e diventava uomo: per guardarlo come salvatore dovette infrangere la banalità di una infanzia e di una giovinezza esteriormente uguali a tante altre. Non meno caratteristico è l’antecedente della sua fede in rapporto al primo miracolo: Maria precede e suscita, con la sua fede, il miracolo di Cana, mentre la fede dei discepoli ne è la conseguenza.
Le prove della fede non sono state risparmiate a Maria. Già a Cana la risposta di Gesù avrebbe potuto scoraggiare l’audace domanda di miracolo. Al Calvario, ove si può indovinare la sofferenza della madre accanto al figlio, la fermezza vittoriosa della sua fede è sottintesa nell’affermazione del Vangelo: ella “era in piedi” (Io 19, 25).
Il pellegrinaggio della fede di Maria ha accompagnato lo svolgimento dell’opera di salvezza. Si è lontani da una fede pigra, che si limiterebbe a ricevere un certo numero di verità e ad esprimerle in una formula. Maria ha avuto una fede attiva, tesa alla ricerca e intenta a scoprire sempre più chi era Gesù. La sua fede dovette affrontare l’incredulità di coloro che, attorno a lei, erano indifferenti od ostili; ella fu scossa dal dramma redentore.
Per tutti questi aspetti, è una fede che ha aperto il cammino alla nostra e che continua a farci comprendere in che cosa consista la fede autentica. È normale che la nostra fede debba penosamente camminare nell’oscurità, che si sviluppi attraverso le lotte, con uno sforzo incessante di approfondimento, che incontri prove che minacciano di sconvolgere tutte le nostre convinzioni. Come quella di Maria, la nostra fede deve progredire con la nostra vita, ed esplorare sempre più il mistero di Cristo. Essa non può mai riposarsi nella passività, nel “tutto fatto”.

Maria nel movimento della speranza.
- Come non si è sufficientemente riconosciuto in Maria colei che ha creduto, così non si è sufficientemente riconosciuto in lei colei che ha sperato. L’attenzione è stata più volentieri rivolta alla Vergine gloriosa che, nel mistero dell’assunzione, ha ricevuto il coronamento della speranza.
Ora, se il trionfo celeste della madre di Cristo è un incoraggiamento per la speranza cristiana mostrandole la realizzazione del suo ultimo compimento, esso non invita a scoprire lo sviluppo progressivo della speranza nell’anima di Maria.
Il messaggio dell’Annunciazione ha comportato in realtà un appello alla speranza: non solo nella fede, ma anche nella speranza Maria ha consentito alla sua maternità. Anche solo da questo punto di vista, il suo atteggiamento dovrebbe essere ritenuto molto suggestivo per la soluzione di un problema contemporaneo. Spesso si costata un timore di fronte alla maternità e alla paternità: ora, nella misura in cui la maternità diventa cosciente, frutto di una deliberata opzione, deve essere animata dalla speranza. Solo la speranza può superare qualsiasi timore suscitato dalla responsabilità materna.
Al momento in cui Maria accolse in se stessa il bimbo che le era stato offerto, la speranza ebraica è diventata speranza cristiana, vale a dire una speranza che non è più semplicemente fondata su una promessa, ma che implica già il possesso di ciò che attende. Maria era certa della salvezza dell’umanità, non soltanto per la promessa contenuta nel messaggio dell’angelo, ma anche per la realtà della presenza del Salvatore in lei.
Tuttavia, questa speranza che è cresciuta con lo sviluppo della vita privata e pubblica di Gesù, ha dovuto lottare sempre più per mantenersi viva nonostante lo spiegamento di forze ostili al messaggio evangelico. Sul Calvario Maria ha anche conosciuto la terribile impressione di una speranza che sente sfuggirle tutto ciò che le sembrava sicuro e che perde tutti i suoi sostegni umani, visibili. Questa speranza ha dovuto elevarsi al disopra della morte per attendere un trionfo di altro genere, invisibile, quello della risurrezione.
Con questa prova della sua speranza, Maria è particolarmente vicina a molte situazioni umane. Ella ha conosciuto la tentazione della disperazione e quindi è nella condizione migliore per essere invocata da coloro che si trovano nella stessa situazione.
Il romanziere Giorgio Bernanos, che conosceva spesso ore buie, cercava di superarle invocando la “Vergine del Sabato santo”, colei che, al momento in cui tutto sembrava finito e perduto, aveva conservato la speranza nella vittoria di Cristo.
Un’epoca di cambiamenti come la nostra, che minaccia la speranza a causa degli sconvolgimenti che la caratterizzano, ha particolarmente bisogno di rivedere il suo atteggiamento di fronte alla trasformazione essenziale dell’umanità che è il passaggio dalla morte alla risurrezione: passaggio che è stato pienamente vissuto nella speranza di Maria.

Aspetti suggestivi della carità di Maria.
- Diversi aspetti della carità di Maria meriterebbero di essere sottolineati, perché corrispondono a taluni orientamenti attuali della carità cristiana.
Il legame tra l’adesione a Cristo e l’amore per gli altri appare nella successione degli episodi dell’Annunciazione e della Visitazione. Facendo seguire questi due racconti, Luca mostra che il privilegio accordato a Maria nella sua maternità non può rinchiuderla in se stessa ma, al contrario, richiede che sia condiviso con gli altri. L’intimità con Cristo non può significare una separazione, un isolamento, ma deve comunicare ad altri la sua felicità. In Maria il possesso del Figlio di Dio tende a diffondersi. L’autenticità della presenza divina incarnata si manifesta nella forza della carità.
A Cana si rivela un altro aspetto della carità di Maria: l’attenzione verso i poveri, che provvede ai loro bisogni materiali. Questo amore per gli indigenti assume un rilievo maggiore perché non procura soltanto il necessario, ma assicura il prolungamento della gioia di una festa di nozze. È significativo che Maria abbia richiesto la prima rivelazione del Salvatore sotto la forma di questo soccorso ai poveri.
Un episodio della vita pubblica fa supporre in Maria un notevole spirito di larghezza. Quando i “fratelli di Gesù”, all’inizio della vita pubblica, gli chiedono di rinunciare alla predicazione, che essi giudicano una follia, Maria li accompagna (Mc 3, 21.31; Mt 12, 46; Lc 8, 19). Ella è animata da sentimenti diversi, perché crede in suo figlio, per cui potrebbe rompere con coloro che non condividono la sua fede. Trovandosi in loro compagnia, con la sua tolleranza dà prova del rispetto che ha per la coscienza altrui. Da questo punto di vista Maria ha preceduto la posizione presa dal Vaticano II in questo campo: lei, che è stata la prima nella fede, è stata anche la prima a rispettare coloro che si opponevano a questa fede ed a conservare buone relazioni con essi. La sua preoccupazione di conservare buoni rapporti con gli altri fa di lei una precorritrice dell’ecumenismo.
Infine, l’ultima indicazione che Luca ci dà di Maria merita di essere meditata: la madre di Gesù si trova nella riunione che attende la Pentecoste (Act l, 14). Invece di appartarsi, Maria si confonde con la comunità nascente; non è nominata per prima in questa assemblea, poiché Luca cita prima i nomi degli apostoli; ella si comporta semplicemente come un membro della comunità. In Maria si intuisce una carità che evita la rivendicazione di qualsiasi precedenza, felice di scomparire in mezzo agli altri. Per darle un titolo moderno potremmo dire che la sua carità è sinceramente democratica.

Maria, madre della Chiesa
Forti resistenze si erano manifestate al Vaticano II all’accettazione del titolo di Maria “Madre della Chiesa”. Esse provenivano soprattutto dal timore di attribuire alla madre di Gesù un posto privilegiato che la situerebbe al di fuori e al di sopra della Chiesa ed una funzione che usurperebbe quella di Cristo, unico fondatore della Chiesa. In effetti l’espressione non è esente da ambiguità.
Tuttavia, si può dire altrettanto dell’espressione “Madre di Dio”, che potrebbe anch’essa intendersi nel senso inaccettabile di una maternità a riguardo della divinità, ma che è stata impiegata per affermare la maternità nei riguardi del Figlio di Dio nella sua incarnazione.
In realtà il titolo di “Madre di Dio” è necessario per esprimere la vera portata della maternità di Maria; quello di “Madre della Chiesa” è ugualmente necessario per enunciare l’ampiezza della funzione di Maria nella formazione e nello sviluppo della Chiesa.
Il Concilio tuttavia non ha usato il titolo nella Costituzione Lumen gentium. Questa astensione è stata volontaria, ma è stata compensata, in certa misura, dall’introduzione nel testo di una frase di Benedetto XIV: “La Chiesa cattolica, edotta dallo Spirito Santo, con affetto di pietà filiale, venera Maria come madre amatissima”. Le ultime parole erano state cancellate dalla citazione nella penultima redazione, ma poi sono state rimesse in seguito: ciò fa supporre una serrata lotta di opinioni su questo punto. Per i Padri del Concilio che volevano escludere l’adozione di un nuovo titolo mariano, il testo aveva il vantaggio di non contenere l’espressione “Madre della Chiesa”.
Nondimeno comportava l’idea equivalente ed è veramente a conclusione del pensiero conciliare che Paolo VI poté andare aldilà della formulazione adottata, proclamando Maria “Madre della Chiesa”, “vale a dire di tutto il popolo di Dio, sia dei fedeli sia dei pastori”. Sotto l’ispirazione dello Spirito Santo è stato così dato un orientamento più fermo per l’uso cristiano del titolo.
Che cosa significa, più precisamente, questa maternità di Maria nei riguardi della Chiesa? Essa indica in primo luogo, nel passato, una cooperazione materna alla nascita della Chiesa: cooperazione consistita nel concorso di Maria all’Incarnazione, alla missione salvifica di Gesù e, più particolarmente, al sacrificio redentore. Per tutta la durata della Chiesa essa significa una presenza materna con un concorso speciale nella diffusione della grazia. Maria, dice il Concilio, è stata per noi una “madre nell’ordine della grazia”, e “questa maternità di Maria nell’economia della grazia, perdura senza soste… fino alla perpetua consumazione di tutti gli eletti”.
Questo modo di presentare l’influsso di Maria sulla vita della grazia è più .felice di quella che si esprimeva nel titolo di “mediatrice di tutte le grazie”. La nozione di mediazione è più vaga e di apparenza più speculativa; la qualità di madre è più concreta e indica il genere di mediazione.
Inoltre, l’idea di maternità è più legata a quella di una trasmissione della vita, più adatta a suggerire che la grazia non è semplicemente una serie di benefici divini ottenuti da una intercessione, ma una vita che si sviluppa con il concorso di un influsso materno. Attualmente, quella che si potrebbe chiamare “la crisi della maternità” potrebbe rimettere in questione la presentazione di Maria, Madre della Chiesa? In questa crisi vediamo la mentalità di “rivolta contro la madre” che anima le reazioni di un certo numero di giovani. Abbiamo parlato della disaffezione nei riguardi della verginità di Maria; si osserva anche una disaffezione nei riguardi della sua maternità. Perché questa reazione sfavorevole? Hanno potuto contribuire a suscitarla alcuni eccessi di maternalismo, come pure l’idea della donna troppo confinata nella sua maternità, alla quale abbiamo già fatto allusione. Ma la reazione sembra scaturire da un bisogno più profondo e più grande, quello di una affermazione di sé di fronte all’influsso della madre, influsso che si ritiene scomodo o soffocante per la personalità.
Comunque sia, l’idea della maternità di Maria nei confronti della Chiesa non potrebbe essere abbandonata; essa esprime, anzi, tutta la sintesi della funzione ecclesiale di Maria, perché la qualità d’immagine o di modello si collega alla sua posizione materna. L’attività di fede, speranza, carità, che ci ha dato come esempio, ha fatto parte della cooperazione materna di Maria all’opera della salvezza. Ma pur mantenendolo, questo volto materno deve essere mostrato nel suo vero significato.
Non è un volto maternalista. Maria non ha intralciato lo sviluppo e l’attività del Salvatore: la sua maternità non è stata una presa accaparrante, ma un servizio ed una collaborazione. Riconoscere ciò nei riguardi della Chiesa non è rassegnarsi umilmente davanti a lei in un atteggiamento infantile.
L’infantilismo non è affatto legato alle relazioni del cristiano con colei che egli considera come una madre nell’ordine della grazia.
Con l’evoluzione della mentalità contemporanea sta per costituirsi un’altra immagine dei genitori: quella del padre e della madre che diventano gli amici dei loro figli al momento in cui . questi raggiungono l’età dell’adolescenza. Questa immagine è ben diversa dall’autoritarismo patriarcale di un tempo.
Una trasformazione analoga sarebbe auspicabile nel modo di concepire la maternità di Maria. È una maternità che, presso persone adulte, si esercita come un’amicizia, amicizia piena di sollecitudine in vista della crescita della vita di grazia. Le rappresentazioni della madre di Gesù non hanno certo favorito simile idea perché consistevano spesso nella rappresentazione di una madre col suo bimbo.
Ora, la tenera infanzia di Gesù non è stata che un momento della vita materna di Maria. Per molto tempo, a Nazareth, Maria ha vissuto accanto a Gesù adolescente e poi adulto, e le sue relazioni con lui sono state diverse in questo periodo. Fermarsi quasi esclusivamente al primo tempo della maternità significa correre il rischio di ammettere che le relazioni del cristiano con Maria implichino un atteggiamento più o meno simile a quello del bambino. Vi sono molteplici immagini della maternità di Maria, specialmente quella di una madre amica del figlio diventato grande.
Ciò che è insostituibile nella qualità di Madre della Chiesa è il valore comunitario della maternità. Maria non ha soltanto una posizione di madre nei confronti di ciascun cristiano. È madre della comunità e, dunque, madre dell’unità. Nella tradizione precedente, la maternità spirituale di Maria era stata considerata come una maternità individuale. Il vantaggio del titolo di Madre della Chiesa è di sottolineare che questa maternità individuale si inquadra in un influsso materno più vasto, e che Maria è anche incaricata di una missione particolare per sviluppare i legami di unità che fortificano la Chiesa.
Madre dell’unità: in un’epoca in cui la ricerca dell’unità tra i cristiani e tra gli uomini si afferma con maggior vigore, questa funzione di Maria appare in tutta la sua importanza. Chi non conosce l’influsso che una madre può esercitare in una famiglia per mantenere le buone relazioni e favorire l’armonia? Proprio questo delicato influsso è, secondo il piano divino, indispensabile al progresso dell’unità cristiana.

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Felice Pasqua di resurrezione!

Posté par atempodiblog le 4 avril 2010

“Cristo è risorto! Alleluja!”
Tanti auguri di pace e di gioia per una Santa Pasqua!

Felice Pasqua di resurrezione! dans Padre Livio Fanzaga pasqua

Vi segnalo un breve scritto di Padre Livio Fanzaga su cui meditare:

« Cristo è risorto! » è il grido con il quale i cristiani hanno salutato la Pasqua nel corso dei secoli. Con questo annuncio di gioia anche noi ci scambiamo gli auguri pasquali.
Cristo è risorto per non morire mai più. Il male e la morte non esercitano più il loro potere assoluto sull’esistenza umana. I peccati ci sono perdonati, l’amicizia con Dio ci è ridonata e la vita ha davanti a sé la prospettiva dell’eternità.
Vedendo Gesù avvolto dalla gloria divina, dopo l’ignominia della croce e la tenebra del sepolcro, il cuore degli apostoli ha traboccato di gioia. Non era mai successo prima. Tutti gli uomini, nessuno escluso hanno pagato il pedaggio alla dittatura della morte. D’ora in poi chi crede in Gesù non morrà in eterno.
Portiamo nel cuore questa speranza e questa gioia e comunichiamole ai molti che sono ancora immersi nelle tenebre e nell’ombra di morte.
La vita dell’uomo non finisce con un paio di badilate di terra… La speranza dell’immortalità illumini il nostro faticoso cammino quotidiano. Il cielo è la meta a cui dobbiamo tendere. Cristo risorto è la vera novità della storia umana.
Chissà se qualche giornale lo metterà in prima pagina…
Felice Pasqua di resurrezione!

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Gesù risorto appare alla Madre

Posté par atempodiblog le 3 avril 2010

Gesù risorto appare alla Madre.
Tratto da: L’Evangelo come mi è stato rivelato
Opera di Maria Valtorta.

Gesù risorto appare alla Madre dans Maria Valtorta Tiziano-Vecellio-Il-Risorto-appare-alla-Madre-Medole-Mantova-Chiesa
Tiziano Vecellio, “Il Risorto appare alla Madre” – Medole [Mantova] Chiesa

[21 febbraio 1944]
Maria ora è prostrata col volto a terra. Pare una povera cosa abbattuta. Pare quel fiore morto di sete di cui Ella ha parlato. La finestra chiusa si apre con un impetuoso sbattimento delle pesanti imposte e, col raggio del primo sole, entra Gesù. Maria, che sè scossa al rumore e che alza il capo per vedere che vento abbia aperto le imposte, vede il suo raggiante Figlio: bello, infinitamente più bello di quando ancora non aveva patito, sorridente, vivo, luminoso più del sole, vestito di un bianco che par luce tessuta, e che si avanza verso di Lei. Ella si raddrizza sui ginocchi e, congiungendo le mani sul petto, in croce, dice con un singhiozzo che è riso e pianto: «Signore, mio Dio». E resta così rapita nel contemplarlo, col viso tutto lavato di lacrime ma fatto sereno, pacificato dal sorriso e dall’estasi. Ma Egli non la vuole vedere, la sua Mamma, in ginocchio come una serva. E la chiama, tendendole le Mani dalle cui ferita escono raggi che fanno ancor più luminosa la sua Carne gloriosa: «Mamma!». Ma non è la parola accorata dei colloqui e degli addii avanti la Passione, né il lamento straziato dell’incontro sul Calvario e dell’agonia. É un grido di trionfo, di gioia, di liberazione, di festa, di amore, di gratitudine. E si curva sulla sua Mamma, che non osa toccarlo, e le mette le sue Mani sotto i gomiti piegati, e la alza in piedi e la stringe al Cuore e la bacia. Oh! allora Maria comprende che non è una visione, che è il Figlio realmente risorto, che è il suo Gesù, il Figlio che l’ama da Figlio ancora. E con un grido gli si getta al collo e lo abbraccia e lo bacia, ridendo nel pianto. Lo bacia sulla Fronte dove non sono più ferite, sulla Testa non più spettinata e sanguinosa, sugli Occhi fulgidi, sulle Guance risanate, sulla Bocca non più enfiata. E poi gli prende le Mani e ne bacia il dorso e la palma, sulle raggianti ferite, e d’un subito si curva ai suoi Piedi e li scopre da sotto la veste splendente e li bacia. Poi si alza, lo guarda, non osa. Ma Egli sorride e capisce. Socchiude la veste sul petto e dice: «E questa, Mamma, non la baci questa che t’ha fatto tanto male e che tu sola sei degna di baciare? Baciami sul Cuore, Mamma. Il tuo bacio mi leverà l’ultimo ricordo di tutto quanto è dolore, e mi darà quella gioia che ancora manca alla mia Gioia di Risorto». E prende fra le sue Mani il volto della Madre e ne appoggia le labbra sulle labbra della ferita del Costato, da cui escono fiotti di luce vivissima. Il viso di Maria è aureolato da quella luce, tuffato come è nel suo raggio. Ella bacia, bacia, mentre Gesù la carezza. Non si stanca di baciare. Pare un assetato che abbia attaccato la bocca alla fonte e ne beva la vita che gli sfuggiva. Ora Gesù parla. «Tutto è finito, Mamma. Ora non hai più da piangere per il tuo Figlio. La prova è compiuta. La Redenzione è avvenuta. Mamma, grazie di avermi concepito, allevato, aiutato in vita e in morte. Ho sentito venire a Me le tue preghiere. Esse sono state la mia forza nel dolore, le mie compagne nel mio viaggio sulla Terra ed oltre la Terra. Esse sono venute meco sulla Croce e nel Limbo. Erano l’incenso che precedeva il Pontefice, che andava a chiamare i suoi servi per portarli nel Tempio che non muore: nel mio Cielo. Esse sono venute meco in Paradiso, precedendo come voce angelica il corteo dei redenti guidati dal Redentore, perché gli angeli fossero pronti a salutare il Vincitore che tornava al suo Regno. Esse sono state udite e viste dal Padre e dallo Spirito, che ne hanno sorriso come del fiore più bello e del canto più dolce nati in Paradiso. Esse sono state conosciute dai Patriarchi e dai nuovi Santi, dai nuovi, primi cittadini della mia Gerusalemme, ed Io ti porto il loro grazie, Mamma, insieme al bacio dei parenti e alla loro benedizione e a quella del tuo sposo d’anima, Giuseppe. Tutto il Cielo canta il suo osanna a te, Madre mia, Mamma santa! Un osanna che non muore, che non è bugiardo come quello dato a Me pochi giorni or sono. Ora Io vado al Padre con la mia veste umana. Il Paradiso deve vedere il Vincitore nella sua veste d’Uomo con cui ha vinto il Peccato dell’Uomo. Ma poi verrò ancora. Devo confermare nella Fede chi non crede ancora ed ha bisogno di credere per portare altri a credere, devo fortificare i pusilli che avranno bisogno di tanta fortezza per resistere al mondo. Poi salirò al Cielo. Ma non ti lascerò sola. Mamma, lo vedi quel velo? Ho, nel mio annichilimento, sprigionato ancora potenza di miracolo per te, per darti quel conforto. Ma per te compio un altro miracolo. Tu mi avrai, nel Sacramento, reale come ero quando mi portavi. Non sarai mai sola. In questi giorni lo sei stata. Ma alla mia Redenzione occorreva anche questo tuo dolore. Molto va continuamente aggiunto alla Redenzione, perché molto sarà continuamente creato di Peccato. Chiamerò tutti i miei servi a questa compartecipazione redentrice. Tu sei quella che da sola farai più di tutti i santi insieme. Perciò civoleva anche questo lungo abbandono. Ora non più. Io non sono più diviso dal Padre. Tu non sarai più divisa dal Figlio. E, avendo il Figlio, hai la Trinità nostra. Cielo vivente, tu porterai sulla Terra la Trinità fra gli uomini e santificherai la Chiesa, tu, Regina del Sacerdozio e Madre dei Cristiani. Poi Io verrò a prenderti. E non sarò più Io in te, ma tu in Me, nel mio Regno, a far più bello il Paradiso. Ora vado, Mamma. Vado a fare felice l’altra Maria. Poi salgo al Padre. Indi verrò a chi non crede. Mamma. Il tuo bacio per benedizione. E la mia Pace a te per compagna. Addio». E Gesù scompare nel sole che scende a fiotti dal cielo mattutino e sereno.

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Nella prigione sotterranea

Posté par atempodiblog le 1 avril 2010

Nella prigione sotterranea  dans Fede, morale e teologia Prigione

Ho passato tutta la notte nella prigione sotterranea con Gesù. Era una notte di adorazione. Le suore pregavano in cappella. Io mi sono unita a loro in ispìrito, perché la mancanza di salute non mi ha permesso di andare in cappella. Per tutta la notte però non sono riuscita ad addormentarmi, perciò l’ho passata nella prigione sotterranea con Gesù. Gesù mi ha fatto conoscere le sofferenze che vi ha patito. Il mondo le conoscerà il giorno del giudizio.

«Figlia Mia, di’ alle anime che do loro come difesa la Mia Misericordia. Combatto per loro Io solo e sopporto la giusta collera del Padre Mio».

«Figlia Mia, di’ che la festa della Mia Misericordia è uscita dalle Mie viscere a conforto del mondo intero».

Santa Faustina Kowalska

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