Digiuno, virtù dimenticata?

Posté par atempodiblog le 31 mars 2010

Digiuno, virtù dimenticata?
Il j’accuse dell’esperto Massimo Salani: «Tra i cattolici è sparito il senso della rinuncia a tavola. Nel Medioevo ci si asteneva per prepararsi alle solennità. Oggi occorre attenzione al costo dei cibi. Ma il no alle vivande deve essere sempre accompagnato da preghiera e carità»
di Andrea Bernardini – Avvenire

Digiuno, virtù dimenticata? dans Digiuno ug4i

«I nostri antenati? Digiunavano o si astenevano dalle carni fi­no a centocinquanta giorni al­l’anno: in Avvento e in Quaresima, pri­ma della Pentecoste e di ogni festa ma­riana. Oggi è persino raro trovare chi os­serva il digiuno almeno il Mercoledì del­le ceneri ed il Venerdì Santo». Scuote la testa Massimo Salani [...] sposato e padre di una figlia, mantovano di ori­gine e pisano di adozione, docente di patrologia e storia delle religioni all’I­stituto teologico interdiocesano Mon­signor Enrico Bartoletti a Camaiore e in­segnante di religione e vicepreside all’i­stituto alberghiero Matteotti a Pisa. Sa­lani ha studiato e scritto molto del rap­porto tra credenti e cibo. Portano la sua firma A tavola con le religioni (Edb), con il quale ha vinto il premio nazionale di storia e saggistica nel 2001 a Novara; Il maestro di tavola (sempre Edb), molto utilizzato in tutti gli istituti alberghieri e turistici d’Italia, e diverse altre pubbli­cazioni. E numerosi contributi ad altre pubblicazioni a tema: l’ultimo, Invitati al banchetto di Dio( Edizioni Plus), in u­scita nelle prossime settimane.

Professor Salani, quale significato at­tribuiscono i cattolici al digiuno eccle­siastico?
«Il digiuno prepara il nostro corpo al­l’incontro con il Signore. Chi ha inten­zione di ricevere l’Eucarestia è sempre tenuto a un digiuno da cibi e bevande per almeno un’ora».

Il digiuno è una prassi consolidata an­che in altre religioni…
«I musulmani si astengono dal cibo e dalle bevande dal sole al tramonto nel mese lunare di Ramadan; molti indui­sti digiunano nei giorni di festa, al con­trario dei cristiani che santificano la do­menica anche a tavola: è stato lo stesso Gesù a ricordarci di non digiunare quan­do c’era lui (Mt 9,15). Gli ebrei digiuna­no per il giorno del Yom Kippur (è il no­no giorno del mese di Av), anche se quel­li ortodossi osservano il digiuno tutti i lu­nedì ed i giovedì. Tra i cristiani, i più at­tenti alla prassi del digiuno sono gli or­todossi. I cattolici hanno perso, nei se­coli, il senso del digiuno: nel Medioevo lo osservavano per prepararsi a tutte le maggiori festività, oggi faticano a ri­spettarlo due gior­ni l’anno».

Quale rapporto hanno i credenti con la carne?
«Induisti e buddi­sti non mangiano nessun tipo di car­ne: a loro è impe­dito di uccidere o­gni essere ‘sen­ziente’. Infatti so­no vegetariani. Ai cattolici è raccomandata l’astinenza dal­le carni tutti i venerdì dell’anno – ecce­zion fatta per quelli che coincidono con una solennità».

Da quali carni astenersi?
«Le carni degli animali terrestri. È inve­ce possibile consumare del pesce, pur­ché non sia grasso, come nel caso del­l’anguilla o della capitona. Bene invece il pesce azzurro, molto conosciuto in Toscana: come ha ‘certificato’ il pa­leontologo pisano Francesco Mallegni, anche Santa Bona ne faceva uso».

La scelta si fa difficile. C’è un criterio semplice semplice per capire quali sono i cibi che possono essere consuma­ti e quali, invece, no?
«I cuochi, per mettersi d’accordo su quali sono i cibi sì nei giorni in cui è pre­scritta l’astinenza, usano un termine tecnico: ‘bianco mangiare’. Che è cosa ben diversa da ‘mangiare in bianco’; e ci dice che a tavola deve essere servito un piatto più povero. quindi sì al riso (ma senza ricchi condimenti) e al latte: sono bianchi, e il bianco, colore della purezza, è un naturale richiamo alla Quaresima; sì dunque anche al pesce ‘povero’.
Nel Medioevo, a Pisa, il piatto classico della Quaresima e di tutti i giorni in cui era prescritta l’a­stinenza, era la ribollita, molto apprez­zata anche dai signori locali. Ma tutta la penisola conosceva piatti quaresimali: il brodo di pesce (preparato in Liguria), le lagane e ceci (ricetta della Basilicata), o le orecchiette con le cime di rapa (ti­piche della Puglia): ieri come oggi aiu­tano la celebrazione del tempo quare­simale anche a tavola».

È pur vero che alcuni cibi che un tem­po erano considerati poveri, oggi co­stano un occhio della testa.
«È così. La nostra selezione dovrebbe tener conto non solo delle qualità orga­nolettiche di un alimento, ma anche del prezzo indicato in etichetta. Quello del valore del cibo era un problema che si ponevano anche i nostri antenati. Il ca­so forse più eclatante è quello del for­maggio: alimento sì bianco, ma che molti consideravano ‘ricco’. Di lì il pro­verbio: ‘Al contadino non far sapere quanto è buono il formaggio con le pe­re’ ».

Riepilogando.
«La Chiesa ci indica un obiettivo: la pu­rificazione, necessaria a prepararsi alla festa. Ciascuno, in coscienza, sa come raggiungerla. Insomma, secondo la leg­ge dell’amore, e non la legge per la legge, an­che la penitenza è creativa. E sempre de­ve essere accompa­gnata dalla preghiera e da un gesto di carità. Ovvero: rinunciare a qualcosa per donarlo a chi è meno fortunato di noi».

Oggi alcuni cristiani non mangiano carne pregustando l’habitat che po­trebbero trovare in Paradiso. Fanno be­ne?
«La loro scelta è rispettabilissima. In Ge­nesi si legge che Adamo ed Eva segui­vano una dieta vegetariana. E però la stessa Bibbia ci dice che, concluso il di­luvio universale, Dio stipulò una nuova alleanza con l’uomo, concedendogli di bere del vino e di mangiare carne, pur depurata dal sangue. Gesù stesso, da buon ebreo, ha sicuramente mangiato della carne, almeno del cosciotto di a­gnello, nel giorno della Pasqua».

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Litanie all’Ostia Santa di S. Faustina Kowalska

Posté par atempodiblog le 30 mars 2010

Litanie all'Ostia Santa di S. Faustina Kowalska dans Preghiere Ostia-Santa

O Ostia Santa, in cui è contenuto il testamento della Divina Misericordia per noi e specialmente per i poveri peccatori.

O Ostia Santa, in cui è contenuto il Corpo ed il Sangue del Signore Gesù, come dimostrazione dell’infinita Misericordia verso di noi, ma specialmente verso i peccatori.

O Ostia Santa, in cui è contenuta la vita eterna e l’infinita Misericordia elargita in abbondanza a noi, ma specialmente ai poveri peccatori.

O Ostia Santa, in cui è contenuta la Misericordia del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo verso di noi, ma specialmente verso i poveri peccatori.

O Ostia Santa, in cui è contenuto il prezzo infinito della Misericordia, che ripagherà tutti i nostri debiti, ma specialmente quelli dei poveri peccatori.

O Ostia Santa, in cui è contenuta la sorgente di acqua viva, che scaturisce dalla Misericordia infinita per noi, ma specialmente per i poveri peccatori.

O Ostia Santa, in cui è contenuto il fuoco dell’amore più puro, che arde dal seno dell’Eterno Padre, come da un abisso di Misericordia infinita per noi, ma specialmente per i poveri peccatori.

O Ostia Santa, in cui è contenuta la medicina per tutte le nostre debolezze, che sgorga dalla Misericordia infinita come da una sorgente, per noi e specialmente per i poveri peccatori.

O Ostia Santa, in  cui è contenuto il vincolo di unione fra Dio e noi, grazie all’infinita Misericordia per noi e specialmente per i poveri peccatori.

O Ostia Santa, in cui sono contenuti tutti i sentimenti del Cuore dolcissimo di Gesù verso di noi e specialmente per i poveri peccatori.

O Ostia Santa, nostra unica speranza in tutte le sofferenze e contrarietà della vita.

O Ostia Santa, nostra unica speranza fra le tenebre e le tempeste interiori ed esteriori.

O Ostia Santa, nostra unica speranza in vita e nell’ora della morte.

O Ostia Santa, nostra unica speranza fra gli insuccessi e nell’abisso della disperazione.

O Ostia Santa, nostra unica speranza in mezzo alle menzogne ed ai tradimenti.

Ostia Santa, nostra unica speranza fra le tenebre e le empietà che sommergono la terra.

O Ostia Santa, nostra unica speranza in mezzo alla nostalgia e al dolore, per il quale nessuno ci comprende.

O Ostia Santa, nostra unica speranza in mezzo alle fatiche ed al grigiore della vita di ogni giorno.

O Ostia Santa, nostra unica speranza quando le nostre aspirazionie e le nostre fatiche vanno in fumo.

O Ostia Santa, nostra unica speranza fra i colpi dei nemici e gli assalti dell’inferno.

O Ostia Santa, confiderò in Te quando le difficoltà della vita supereranno le mie forze ed i miei sforzi risulteranno inutili.

O Ostia Santa, confiderò in Te quando le tempeste sconvolgeranno il mio cuore ed il mio spirito atterrito comincerà a piegarsi verso il dubbio che corrode.

O Ostia Santa, confiderò in Te quando il mio cuore comincerà a tremare ed un sudore mortale mi bagnerà la fronte.

O Ostia Santa, confiderò in Te quando tutto si rivolgerà contro di me e la nera disperazione s’insinuerà nella mia anima.

O Ostia Santa, confiderò in Te quando il mio sguardo si spegnerà per tutto ciò che è terreno, ed il mio spirito vedrà per la prima volta mondi sconosciuti.

O Ostia Santa, confiderò in Te quando i miei impegni saranno al di sopra delle mie forze e l’insuccesso sarà per me la sorte abituale.

O Ostia Santa, confiderò in Te quando l’osservanza delle virtù mi apparirà difficile e la mia natura si ribellerà.

O Ostia Santa, confiderò in Te quando i colpi dei nemici saranno diretti contro di me.

O Ostia Santa, confiderò in Te quando le mie fatiche ed i miei sforzi non verranno approvati dalla gente. O Ostia Santa, confiderò in Te quando sopra di me risuonerà il Tuo giudizio; in quel momento confiderò nell’oceano della Tua Misericordia.

O Santissima Trinità, confido nella Tua infinita Misericordia. Iddio è mio Padre, quindi io, come Sua figliola, ho ogni diritto sul Suo Cuore divino e quanto più grandi sono le tenebre, tanto più decisa dev’essere la nostra fiducia. Non riesco a comprendere come si possa non aver fiducia in Colui che può tutto. Con Lui tutto, senza di Lui nulla. Egli, il Signore, non permetterà né lascerà che restino confusi coloro che hanno posto in Lui tutta la loro fiducia.

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Il magistero parallelo

Posté par atempodiblog le 30 mars 2010

 Il magistero parallelo dans Fede, morale e teologia monsgiampaolocrepaldi

Il tentativo della stampa di coinvolgere Benedetto XVI nella questione pedofilia è solo il più recente tra i segni di avversione che tanti nutrono per il Papa. Bisogna chiedersi come mai questo Pontefice, nonostante la sua mitezza evangelica e l’onestà, la chiarezza delle sue parole unitamente alla profondità del suo pensiero e dei suoi insegnamenti, susciti da alcune parti sentimenti di astio e forme di anticlericalismo che si pensavano superate. E questo, è bene dirlo, suscita ancora maggiore stupore e addirittura dolore, quando a non seguire il Papa e a denunciarne presunti errori sono uomini di Chiesa, siano essi teologi, sacerdoti o laici.

Le inusitate e palesemente forzate accuse del teologo Hans Küng contro la persona di Jopeph Ratzinger teologo, vescovo, Prefetto della Congregazione della Fede e ora Pontefice per aver causato, a suo dire, la pedofilia di alcuni ecclesiastici mediante la sua teologia e il suo magistero sul celibato ci amareggiano nel profondo. Non era forse mai accaduto che la Chiesa fosse attaccata in questo modo. Alle persecuzioni nei confronti di tanti cristiani, crocefissi in senso letterale in varie parti del mondo, ai molteplici tentativi per sradicare il cristianesimo nelle società un tempo cristiane con una violenza devastatrice sul piano legislativo, educativo e del costume che non può trovare spiegazioni nel normale buon senso si aggiunge ormai da tempo un accanimento contro questo Papa, la cui grandezza provvidenziale è davanti agli occhi di tutti.

A questi attacchi fanno tristemente eco quanti non ascoltano il Papa, anche tra ecclesiastici, professori di teologia nei seminari, sacerdoti e laici. Quanti non accusano apertamente il Pontefice, ma mettono la sordina ai suoi insegnamenti, non leggono i documenti del suo magistero, scrivono e parlano sostenendo esattamente il contrario di quanto egli dice, danno vita ad iniziative pastorali e culturali, per esempio sul terreno delle bioetica oppure del dialogo ecumenico, in aperta divergenza con quanto egli insegna. Il fenomeno è molto grave in quanto anche molto diffuso.

Benedetto XVI ha dato degli insegnamenti sul Vaticano II che moltissimi cattolici apertamente contrastano, promuovendo forme di controformazione e di sistematico magistero parallelo guidati da molti “antipapi”; ha dato degli insegnamenti sui “valori non negoziabili” che moltissimi cattolici minimizzano o reinterpretano e questo avviene anche da parte di teologi e commentatori di fama ospitati sulla stampa cattolica oltre che in quella laica; ha dato degli insegnamenti sul primato della fede apostolica nella lettura sapienziale degli avvenimenti e moltissimi continuano a parlare di primato della situazione, o della prassi o dei dati delle scienze umane; ha dato degli insegnamenti sulla coscienza o sulla dittatura del relativismo ma moltissimi antepongono la democrazia o la Costituzione al Vangelo. Per molti la Dominus Iesus, la Nota sui cattolici in politica del 2002, il discorso di Regensburg del 2006, la Caritas in veritate è come se non fossero mai state scritte.

La situazione è grave, perché questa divaricazione tra i fedeli che ascoltano il Papa e quelli che non lo ascoltano si diffonde ovunque, fino ai settimanali diocesani e agli Istituti di scienze religiose e anima due pastorali molto diverse tra loro, che non si comprendono ormai quasi più, come se fossero espressione di due Chiese diverse e procurando incertezza e smarrimento in molti fedeli.

In questi momenti molto difficili, il nostro Osservatorio si sente di esprimere la nostra filiale vicinanza a Benedetto XVI. Preghiamo per lui e restiamo fedelmente al suo seguito.

di Mons. Giampaolo Crepaldi

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La settimana santa

Posté par atempodiblog le 30 mars 2010

La settimana santa dans Padre Livio Fanzaga padrelivio

La settimana santa è un tempo di immensa grazia. Durante questi giorni siamo chiamati a rivivere con la Chiesa i momenti culminanti della vita di Gesù. E’ in questa settimana che il Figlio di Dio ha salvato il mondo con il sacrificio della sua vita sulla croce e con la gloria della resurrezione.

Gesù è l’Agnello di Dio che ha portato su di sé il peccato del mondo, la cui vastità non possiamo neppure immaginarci. Sulle sue spalle c’è anche l’indifferenza, l’ingratitudine e il disprezzo della nostra generazione.

La sua umiltà, la sua sottomissione, il suo amore, il suo perdono sono quella fiamma in cui tutto il male dell’umanità è stato bruciato e distrutto.

Dal suo Cuore trafitto è sceso lo Spirito che dà la vita, la luce, la forza, la grazia e la speranza. Dal cuore di Gesù nasce l’umanità nuova dei figli di Dio e dei predestinati alla vita eterna.

Noi possiamo rivivere i giorni della nostra salvezza partecipando alle solenni liturgie della settimana santa.  E’ attraverso di esse, in particolare ricevendo i sacramenti della penitenza e dell’eucarestia, che riviviamo in noi il mistero pasquale. E’ un mistero di morte e di resurrezione: morte al peccato e resurrezione a una vita nuova nella prospettiva del Cielo, che è la meta a cui dobbiamo tendere.

Padre Livio Fanzaga

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Settimana Santa, due brani dell’omelia di Papa Benedetto

Posté par atempodiblog le 29 mars 2010

Dall’omelia del Papa per la Domenica delle Palme, estraggo questi due brani.

Settimana Santa, due brani dell’omelia di Papa Benedetto dans Andrea Tornielli papapalme

Ci troviamo, per così dire, in una cordata con Gesù Cristo – insieme con Lui nella salita verso le altezze di Dio. Egli ci tira e ci sostiene. Fa parte della sequela di Cristo che ci lasciamo integrare in tale cordata; che accettiamo di non potercela fare da soli. Fa parte di essa questo atto di umiltà, l’entrare nel «noi» della Chiesa; l’aggrapparsi alla cordata, la responsabilità della comunione – il non strappare la corda con la caparbietà e la saccenteria. L’umile credere con la Chiesa, come essere saldati nella cordata dell’ascesa verso Dio, è una condizione essenziale della sequela. Di questo essere nell’insieme della cordata fa parte anche il non comportarsi da padroni della Parola di Dio, il non correre dietro un’idea sbagliata di emancipazione. L’umiltà dell’«essere-con» è essenziale per l’ascesa. Fa anche parte di essa che nei Sacramenti ci lasciamo sempre di nuovo prendere per mano dal Signore; che da Lui ci lasciamo purificare e corroborare; che accettiamo la disciplina dell’ascesa, anche se siamo stanchi.
(…) La fede in Gesù Cristo non è un’invenzione leggendaria. Essa si fonda su di una storia veramente accaduta. Questa storia noi la possiamo, per così dire, contemplare e toccare. È commovente trovarsi a Nazaret nel luogo dove l’Angelo apparve a Maria e le trasmise il compito di diventare la Madre del Redentore. È commovente essere a Betlemme nel luogo dove il Verbo, fattosi carne, è venuto ad abitare fra noi; mettere il piede sul terreno santo in cui Dio ha voluto farsi uomo e bambino. È commovente salire la scala verso il Calvario fino al luogo in cui Gesù è morto per noi sulla Croce. E stare infine davanti al sepolcro vuoto; pregare là dove la sua santa salma riposò e dove il terzo giorno avvenne la risurrezione. Seguire le vie esteriori di Gesù deve aiutarci a camminare più gioiosamente e con una nuova certezza sulla via interiore che Egli ci ha indicato e che è Lui stesso.

di Andrea Tornielli – blog.ilgiornale.it/tornielli

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L’inferno esiste

Posté par atempodiblog le 29 mars 2010

L'inferno esiste dans Articoli di Giornali e News infernot

L’inferno esiste, ma oggi se ne parla poco
Il Papa: segna il fallimento totale di chi chiude il cuore all’ amore di Dio
di Luigi Accattoli – Corriere Della Sera

L’inferno «esiste ed è eterno» e può essere inteso come la condizione di quanti «chiudono il cuore» a Dio, realizzando così il «fallimento» della propria esistenza: l’ha detto il Papa teologo parlando ieri in una parrocchia di Roma e usando un linguaggio semplificato, si direbbe da parroco. Ma nella semplicità ha riassunto tutti i punti della sua riflessione di teologo in tale scottante materia, variamente esposta negli anni in saggi e in interviste. Ieri Benedetto XVI era in visita a una parrocchia della periferia Nord di Roma, quella di «Santa Felicita e figli martiri». Ha commentato un episodio chiave del Vangelo di Giovanni, quello dell’ adultera che Gesù salva dalla lapidazione dicendo «Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra». Dall’ episodio ha tirato questa «indicazione concreta»: a Gesù non interessa «discutere» con gli scribi e i farisei che gli portano l’ adultera, ma il suo «obiettivo» è «salvare un’anima» per la via della misericordia.

Per questo – ha continuato il Papa – il Signore è venuto sulla terra: «È venuto per dirci che ci vuole tutti in Paradiso e che l’inferno, del quale poco si parla in questo nostro tempo, esiste ed è eterno per quanti chiudono il cuore al suo amore». Conclusione: «Anche in questo episodio comprendiamo che il vero nostro nemico è l’attaccamento al peccato, che può condurci al fallimento della nostra esistenza». Tutte le volte che nelle sue opere il teologo Ratzinger tratta dell’inferno sempre osserva che è un «articolo di fede» che la teologia moderna tende a «eliminare» perché «ostico» alla nostra «coscienza odierna».

E anche ieri l’ha fatto con l’inciso che oggi di inferno «poco» si parla. Altro elemento ratzingeriano tipico è l’ affermazione che l’inferno è destinato a chi «chiude il cuore all’ amore» come ha detto ieri, realizzando così un pieno «fallimento dell’ esistenza». Nel volume Introduzione al cristianesimo (Queriniana 1969), questi concetti erano così proposti, nel capitolo sulla «discesa agli inferi»: «ultima solitudine», «abisso del nostro estremo abbandono», «soltanto la chiusura in se stessi voluta di proposito è ora l’inferno». In quello stesso volume si chiarisce che l’inferno non è un luogo ma una condizione:

«Quello stato spaventoso e sinistro che il teologo chiama inferno». Nel libro intervista Dio e il mondo (San Paolo 2001), il teologo Ratzinger invita a non «risolvere» il «simbolismo biblico» del «mondo superiore e mondo inferiore» in una «visione ingenua» e in un «fisicismo che non aiuta a cogliere l’essenziale». Dunque niente bolgie dantesche e fiamme e ghiacci. Dell’ inferno come «grande mare di fuoco» parla anche il «segreto di Fatima», che a suo tempo il cardinale Ratzinger qualificò come «visione privata» esposta in un «linguaggio immaginifico e simbolico» che va «correttamente» interpretato.

Liberandolo cioè dal «fisicismo». Sempre in quel volume il teologo Ratzinger esprimeva l’auspicio che i dannati all’inferno non siano numerosi: «Speriamo siano pochi gli uomini la cui vita è stata un fallimento totale e insanabile».

L’occasione più recente in cui il cardinale Ratzinger si è occupato dell’ inferno è stata la preparazione del «compendio» del Catechismo della Chiesa cattolica (2005), che ha redatto da cardinale e promulgato da papa. In esso c’ è la domanda «in che cosa consiste l’inferno», seguita da questa risposta: «Consiste nella dannazione eterna di quanti muoiono per libera scelta in peccato mortale. La pena principale dell’inferno sta nella separazione eterna da Dio».

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Altro che «luogo simbolo» per fortuna l’Inferno esiste
di Mons. Alessandro Maggiolini – Il Giornale

Il santo Padre ieri l’altro ha parlato in una parrocchia romana dell’Inferno. E qui si potrebbe aprire tutto un capitolo sulle battute umoristiche che con rassegnata monotonia si vanno ripetendo lungo le stantie barzellette pie e blasfeme. Forse non c’è nulla che susciti più umorismo di ciò che mette veramente paura. Si glissa sull’orrore per immunizzare il terrore. Ed è noto che non c’è nulla di più umoristico – e di tragico – dello sdrammatizzare il dramma. Così un certo terrore di fronte al destino umano diviene ridanciano: ridanciano per coprire il brivido della paura.

Il tema dell’Inferno è tra i più evitati nella predicazione e perfino nella liturgia. Sembra che se ne debba accennare soltanto quando si ha voglia di sganasciarsi dalle risa. Anzi, quando si tocca questo argomento, pare ci si debba preparare a sguaiataggini che suscitano il solletico più che mettere di fronte al proprio destino ultimo.

Macché Inferno. Macché Paradiso. Si tratta di miti, di simboli costruiti per suscitare qualche spavento qualche illusione. E la libertà umana si lascia prendere dalla angoscia che blocca ogni serenità e ogni gioia. Una riga sopra queste favole nere, e uno inizia a divertirsi in una esistenza senza senso. Già, una esistenza senza senso. Il fatto è che se non esistesse l’Inferno, non vi sarebbe nemmeno il Paradiso, e tutta la terra sarebbe come una landa desolata e insignificante. Se non esistesse il Paradiso, l’intero universo sarebbe un gioco da ragazzi un po’ incoscienti, poiché non ci sarebbe un fine da raggiungere e una paura da evitare.

Il bene e il male sarebbero la stessa cosa. Il premio e il castigo sarebbero intercambiabili senza batter ciglio. La vita non avrebbe più significato. La gioia e il pianto si sovrapporrebbero indifferentemente. Qualche teologo affrettato ha sostenuto che non esiste né Inferno né Paradiso come stati di vita e non come luoghi. Ma allora che significato potrebbe avere l’obbedire o trasgredire i comandamenti? Amare od odiare il Signore? E se ci fosse anche un solo beato o un solo dannato, non meriterebbe l’architettura ciclopica del Paradiso e dell’Inferno? E se tutto fosse identico al tutto, che significato avrebbe il premio o il castigo? Castigo. Che poi non è l’ira di Dio che si esprime contro qualcuno, ma la chiusura della libertà che non si lascia raggiungere dall’amore di Dio? E un Inferno e un Paradiso vuoto non potrebbero iniziare a essere occupati da me, da te, per il peccato e per la grazia? Meglio, molto meglio l’Inferno e il Paradiso per raggiungere uno scopo e dare un significato alla vita. Se no, meglio mandare all’aria tutto e dire che nulla ha uno scopo. Ma allora, a che serve un giorno dopo l’altro, senza spararsi un colpo alla tempia.

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L’Anticristo secondo Solovev

Posté par atempodiblog le 29 mars 2010

L'Anticristo secondo Solovev dans Anticristo Soloviev

Dove l’esposizione di Solovev si dimostra particolarmente originale e sorprendente è nell’attribuzione all’Anticristo delle qualifiche di esperto esegeta, pacifista, ecologista, ecumenista, e filantropo.

 

del Card. GIACOMO BIFFI,
arcivescovo emerito di Bologna

Verranno giorni, e anzi sono già venuti…

L’Anticristo era – dice Solovev – “un convinto spiritualista”. Credeva nel bene e perfino in Dio. Era un asceta, uno studioso, un filantropo. Dava « altissime dimostrazioni di moderazione, di disinteresse e di attiva beneficenza”. Nella sua prima giovinezza si era segnalato come dotto e acuto esegeta: una sua voluminosa opera di critica biblica gli aveva propiziato una laurea ad honorem da parte dell’università di Tubinga.

Ma il libro che gli aveva procurato fama e consenso universali porta il titolo: “La via aperta verso la pace e la prosperità universale”, dove “si uniscono il nobile rispetto per le tradizioni e i simboli antichi con un vasto e audace radicalismo di esigenze e direttive sociali e politiche, una sconfinata libertà di pensiero con la più profonda comprensione di tutto ciò che è mistico, l’assoluto individualismo con un’ardente dedizione al bene comune, il più elevato idealismo in fatto di principi direttivi con la precisione completa e la vitalità delle soluzioni pratiche”.

È vero che alcuni uomini di fede si domandavano perché non vi fosse nominato nemmeno una volta il nome di Cristo; ma altri ribattevano: “Dal momento che il contenuto del libro è permeato dal vero spirito cristiano, dall’amore attivo e dalla benevolenza universale, che volete di più?”. D’altronde egli “non aveva per Cristo un’ostilità di principio”. Anzi ne apprezzava la retta intenzione e l’altissimo insegnamento.

Tre cose di Gesù, però, gli riuscivano inaccettabili.

  • Prima di tutto le sue preoccupazioni morali. “Il Cristo – affermava – col suo moralismo ha diviso gli uomini secondo il bene e il male, mentre io li unirò coi benefici che sono ugualmente necessari ai buoni e ai cattivi”.
  • Poi non gli andava “la sua assoluta unicità”. Egli è uno dei tanti; o meglio – diceva – è stato il mio precursore, perché il salvatore perfetto e definitivo sono io, che ho purificato il suo messaggio da ciò che è inaccettabile all’uomo d’oggi.
  • Infine, e soprattutto, non poteva sopportare il fatto che Cristo sia vivo, tanto che istericamente ripeteva: “Lui non è tra i vivi e non lo sarà mai. Non è risorto, non è risorto, non è risorto. È marcito, è marcito nel sepolcro…”.

Ma dove l’esposizione di Solovev si dimostra particolarmente originale e sorprendente – e merita la più approfondita riflessione – è nell’attribuzione all’Anticristo delle qualifiche di pacifista, di ecologista, di ecumenista. (…) In questa descrizione dell’Anticristo Solovev ha avuto presente qualche bersaglio concreto? È innegabile che alluda soprattutto al “nuovo cristianesimo” di cui in quegli anni si faceva efficace banditore Lev Tolstoj. (…) Nel suo “Vangelo” Tolstoj riduce tutto il cristianesimo alle cinque regole di comportamento che egli desume dal Discorso della Montagna:

  1. Non solo non devi uccidere, ma non devi neanche adirarti contro il tuo fratello.
  2. Non devi cedere alla sensualità, al punto che non devi desiderare neanche la tua propria moglie.
  3. Non devi mai vincolarti con giuramento.
  4. Non devi resistere al male, ma devi applicare fino in fondo e in ogni caso il principio della non-violenza.
  5. Ama, aiuta, servi il tuo nemico.

Questi precetti, secondo Tolstoj, vengono bensì da Cristo, ma per essere validi non hanno affatto bisogno dell’esistenza attuale del Figlio del Dio vivente. (…)

Certo Solovev non identifica materialmente il grande romanziere con la figura dell’Anticristo. Ma ha intuito con straordinaria chiaroveggenza che proprio il tolstojsmo sarebbe diventato lungo il secolo XX il veicolo dello svuotamento sostanziale del messaggio evangelico, sotto la formale esaltazione di un’etica e di un amore per l’umanità che si presentano come “valori”cristiani. (…) Verranno giorni, ci dice Solovev – e anzi sono già venuti, diciamo noi – quando nella cristianità si tenderà a dissolvere il fatto salvifico, che non può essere accolto se non nell’atto difficile, coraggioso, concreto e razionale della fede, in una serie di “valori” facilmente smerciabili sui mercati mondani.

Da questo pericolo – ci avvisa il più grande dei filosofi russi – noi dobbiamo guardarci. Anche se un cristianesimo tolstojano ci rendesse infinitamente più accettabili nei salotti, nelle aggregazioni sociali e politiche, nelle trasmissioni televisive, non possiamo e non dobbiamo rinunciare al cristianesimo di Gesù Cristo, il cristianesimo che ha al suo centro lo scandalo della croce e la realtà sconvolgente della risurrezione del Signore.

Gesù Cristo, il Figlio di Dio crocifisso e risorto, unico salvatore dell’uomo, non è traducibile in una serie di buoni progetti e di buone ispirazioni, omologabili con la mentalità mondana dominante. Gesù Cristo è una “pietra”, come egli ha detto di sé. Su questa “pietra” o si costruisce (affidandosi) o ci si va a inzuccare (contrapponendosi): “Chi cadrà su questa pietra sarà sfracellato; e qualora essa cada su qualcuno, lo stritolerà” (Mt 21, 44). (…)

È stato dunque, quello di Solovev, un magistero profetico e al tempo stesso un magistero largamente inascoltato. Noi però vogliamo riproporlo, nella speranza che la cristianità finalmente si senta interpellata e vi presti un po’ di attenzione.
Vladimir Sergeevic Solovev: un profeta inascoltato

Vladimir Sergeevic Solovev è morto cento anni fa, il 31 luglio (13 agosto, secondo il nostro calendario gregoriano) dell’anno 1900.

È morto sul limitare del secolo XX: un secolo del quale egli, con singolare acutezza, aveva preannunciato le vicissitudini e i guai; un secolo che avrebbe però tragicamente contraddetto nei fatti e nelle ideologie dominanti i suoi più rilevanti e più originali insegnamenti. È stato dunque, il suo, un magistero profetico e al tempo stesso un magistero largamente inascoltato.

Un magistero profetico

Al tempo del grande filosofo russo, la mentalità più diffusa – nell’ottimismo spensierato della “belle époque” – prevedeva per l’umanità del secolo che stava per cominciare un avvenire sereno: sotto la guida e l’ispirazione della nuova religione del progresso e della solidarietà senza motivazioni trascendenti, i popoli avrebbero conosciuto un’epoca di prosperità, di pace, di giustizia, di sicurezza. Nel ballo Excelsior – una coreografia che negli ultimi anni del secolo XIX aveva avuto uno straordinario successo (e avrebbe poi dato il nome a una serie innumerevoli di teatri, di alberghi, di cinema) – questa nuova religione aveva trovato quasi una sua liturgia. Victor Hugo aveva profetizzato: “Questo secolo è stato grande, il prossimo secolo sarà felice”.

Solovev invece non si lascia incantare da quel candore laicistico e anzi preannunzia con preveggente lucidità tutti i malanni che poi si sono avverati. Già nel 1882, nel Secondo discorso sopra Dostoevskij, egli parrebbe aver presagito e anticipatamente condannato l’insipienza e l’atrocità del collettivismo tirannico, che qualche decennio dopo avrebbe afflitto la Russia e l’umanità:

“Il mondo – afferma – non deve essere salvato col ricorso alla forza… Ci si può figurare che gli uomini collaborino insieme a qualche grande compito, e che a esso riferiscano e sottomettano tutte le loro attività particolari; ma se questo compito è loro imposto, se esso rappresenta per loro qualcosa di fatale e di incombente,…allora, anche se tale unità abbracciasse tutta l’unanità, non sarà stata raggiunta l’umanità universale, ma si avrà solo un enorme ‘formicaio’” (Edizione ‘La Casa di Matriona’, pp. 65-66); quel ‘formicaio’ che in effetti sarebbe stato poi attuato dall’ideologia ottusa e impietosa di Lenin e di Stalin.

Nell’ultima pubblicazione – I tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo, opera compiuta la domenica di Pasqua del 1900 – è impressionante rilevare la chiarezza con cui Solovev prevede che il secolo XX sarà “l’epoca delle ultime grandi guerre, delle discordie intestine e delle rivoluzioni” (Edizione Marietti p.184). Dopo di che – egli dice – tutto sarà pronto perché perda di significato “la vecchia struttura in nazioni separate e quasi ovunque scompaiano gli ultimi resti delle antiche istituzioni monarchiche” (p. 188). Si arriverà così alla « Unione degli Stati Uniti d’Europa” (p. 195).

Soprattutto è stupefacente la perspicacia con cui descrive la grande crisi che colpirà il cristianesimo negli ultimi decenni del Novecento. Egli la raffigura nella icona dell’Anticristo, personaggio affascinante che riuscirà a influenzare e a condizionare un po’ tutti. In lui, come qui è presentato, non è difficile ravvisare l’emblema, quasi l’ipostatizzazione, della religiosità confusa e ambigua di questi nostri anni: egli – dice Solovev – sarà un “convinto spiritualista”, un ammirevole filantropo, un pacifista impegnato e solerte, un vegetariano osservante, un animalista determinato e attivo.

Sarà, tra l’altro, anche un esperto esegeta: la sua cultura biblica gli propizierà addirittura una laurea “honoris causa” della facoltà di Tubinga. Soprattutto, si dimostrerà un eccellente ecumenista, capace di dialogare “con parole piene di dolcezza, saggezza ed eloquenza” (p. 211).

Nei confronti di Cristo non avrà “un’ostilità di principio” (p. 190); anzi ne apprezzerà l’altissimo insegnamento. Ma non potrà sopportarne – e perciò la censurerà – la sua assoluta “unicità” (p. 190); e dunque non si rassegnerà ad ammettere e a proclamare che egli sia risorto e oggi vivo.

Si delinea qui, come si vede, e viene criticato, un cristianesimo dei “valori”, delle “aperture” e del “dialogo”, dove pare che resti poco posto alla persona del Figlio di Dio crocifisso per noi e risorto, e all’evento salvifico.

Abbiamo di che riflettere. La militanza di fede ridotta ad azione umanitaria e genericamente culturale; il messaggio evangelico identificato nel confronto irenico con tutte le filosofie e con tutte le religioni; la Chiesa di Dio scambiata per un’organizzazione di promozione sociale: siamo sicuri che Solovev non abbia davvero previsto ciò che è effettivamente avvenuto, e che non sia proprio questa oggi l’insidia più pericolosa per la “nazione santa” redenta dal sangue di Cristo? È un interrogativo inquietante e non dovrebbe essere eluso.

Un magistero inascoltato

Solovev ha capito come nessun altro il secolo ventesimo, ma il secolo ventesimo non ha capito lui. Non è che gli siano mancati i riconoscimenti. La qualifica di massimo filosofo russo non gli viene di solito contestata. Von Balthasar ritiene il suo pensiero “la più universale creazione speculativa dell’epoca moderna” (Gloria III, p. 263) e arriva perfino a collocarlo sullo stesso piano di Tommaso d’Aquino.

Ma è innegabile che il secolo ventesimo, nel suo complesso, non gli ha prestato alcuna attenzione e anzi si è puntigliosamente mosso in senso opposto a quello da lui indicato. Sono lontanissimi dalla visione solovievana della realtà gli atteggiamenti mentali oggi prevalenti, anche in molti cristiani ecclesialmente impegnati e acculturati. Tra gli altri, tanto per esemplificare:

    • l’individualismo egoistico, che sta sempre più segnando di sé l’evoluzione del nostro costume e delle nostre leggi;
    • il soggettivismo morale, che induce a ritenere che sia lecito e perfino lodevole assumere in campo legislativo e politico posizioni differenziati dalla norma di comportamento alla quale personalmente ci si attiene;
    • il pacifismo e la non-violenza, di matrice tolstoiana, confusi con gli ideali evangelici di pace e di fraternità, così che poi si finisce coll‘arrendersi alla prepotenza e si lasciano senza difesa i deboli e gli onesti;
    • l’estrinsecismo teologico che, per timore di essere tacciato di integrismo, dimentica l’unità del piano di Dio, rinuncia a irradiare la verità divina in tutti i campi, abdica a ogni impegno di coerenza cristiana.

In special modo il secolo ventesimo – nei suoi percorsi e nei suoi esiti sociali, politici, culturali – ha contraddetto clamorosamente la grande costruzione morale di Solovev. Egli aveva individuato i postulati etici fondamentali in una triplice primordiale esperienza, nativamente presente in ogni uomo: vale a dire nel pudore, nella pietà verso gli altri, nel sentimento religioso.

Ebbene, il Novecento – dopo una rivoluzione sessuale egoistica e senza saggezza – è approdato a traguardi di permissivismo, di ostentata volgarità e di pubblica spudoratezza, che sembra non aver paragoni adeguati nella vicenda umana.

È stato poi il secolo più oppressivo e più insanguinato della storia, privo di rispetto per la vita umana e privo di misericordia. Non possiamo certo dimenticare l’orrore dello sterminio degli ebrei, che non sarà mai esecrato abbastanza. Ma sarà bene ricordare che non è stato il solo: nessuno ricorda il genocidio degli Armeni a cavallo della prima guerra mondiale; nessuno commemora le decine e decine di milioni uccisi sotto il regime sovietico; nessuno si avventura a fare il conto delle vittime sacrificate inutilmente nelle varie parti del mondo all’utopia comunista.

Quanto al sentimento religioso, durante il secolo ventesimo in oriente è stato per la prima volta proposto e imposto su una vasta parte di umanità l’ateismo di stato, mentre nell’occidente secolarizzato si è diffuso un ateismo edonistico e libertario, fino ad arrivare all’idea grottesca della “morte di Dio”.

In conclusione, Solovev è stato indubbiamente un profeta e un maestro; ma un maestro, per così dire, inattuale. Ed è questa, paradossalmente la ragione della sua grandezza e della sua preziosità per il nostro tempo.

Appassionato difensore dell’uomo e allergico a ogni filantropia; apostolo infaticabile della pace e avversario del pacifismo; propugnatore dell’unità tra i cristiani e critico di ogni irenismo; innamorato della natura e lontanissimo dalle odierne infatuazioni ecologiche: in una parola, amico della verità e nemico dell’ideologia. Proprio di guide come lui abbiamo oggi un estremo bisogno.

Fonte: Intervento del Card. GIACOMO BIFFI al convegno “La passione per l’unità: Vladimir Solovev” (4 marzo 2000)

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L’anticristo verde e pacifista di Solov’ëv

Posté par atempodiblog le 29 mars 2010

La riduzione del cristianesimo a “valori” nella profezia di un russo dell’800
Il Foglio 15.03.07

L'anticristo verde e pacifista di Solov’ëv dans Anticristo Soloviev

Alla fine del secolo XIX la mentalità più diffusa prevedeva per il secolo che stava per iniziare un avvenire di progresso, di prosperità, di pace. Già Victor Hugo, sul finire dell’Ottocento, aveva profetizzato: “Questo secolo è stato grande, il prossimo secolo sarà felice”.

1 – Solov’ëv non si lascia contagiare da tanto laicistico candore e, nella sua ultima opera, “I tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo”, datata alla Pasqua del 1900, pochi mesi prima di morire, prevede che il secolo XX sarà contrassegnato da grandi guerre, da grandi rivoluzioni cruente, da grandi lotte civili.
Sul finire del secolo, i popoli europei – persuasi dei gravi danni derivati dalle loro rivalità – daranno origine, egli dice, agli Stati Uniti d’Europa. “Ma… i problemi della vita e della morte, del destino finale del mondo e dell’uomo, resi più complicati e intricati da una valanga di ricerche e di scoperte nuove nel campo fisiologico e psicologico, rimangono come per l’addietro senza soluzione. Viene in luce soltanto un unico risultato importante, ma di carattere negativo: il completo fallimento del materialismo teoretico”. Ciò non comporterà però l’estendersi e l’irrobustirsi della fede. Al contrario, l’incredulità sarà dilagante. Sicché, alla fine si profila per la civiltà europea una situazione che potremmo definire di vuoto. In questo vuoto appunto emerge e si afferma la presenza e l’azione dell’Anticristo.

2 – Più che la vicenda immaginata da Solov’ëv – nella quale l’Anticristo prima viene eletto presidente degli Stati Uniti d’Europa, poi è acclamato imperatore romano, si impadronisce del mondo intero, e alla fine si impone anche alla vita e all’organizzazione delle Chiese – mette conto di richiamare le caratteristiche che sono qui attribuite a questo personaggio.
Era – dice Solov’ëv – “un convinto spiritualista”. Credeva nel bene e perfino in Dio, “ma non amava che se stesso”. Era un asceta, uno studioso, un filantropo. Dava “altissime dimostrazioni di moderazione, di disinteresse e di attiva beneficenza ». Nella sua prima giovinezza si era segnalato come dotto e acuto esegeta: una sua voluminosa opera di critica biblica gli aveva propiziato una laurea ad honorem da parte dell’Università di Tubinga.
Ma il libro che gli ha procurato fama e consenso universali porta il titolo: “La via aperta verso la pace e la prosperità universale”, dove “si uniscono il nobile rispetto per le tradizioni e i simboli antichi con un vasto e audace radicalismo di esigenze e direttive sociali e politiche, una sconfinata libertà di pensiero con la più profonda comprensione di tutto ciò che è mistico, l’assoluto individualismo con un’ardente dedizione al bene comune, il più elevato idealismo in fatto di principi direttivi con la precisione completa e la vitalità delle soluzioni pratiche”.
E’ vero che alcuni uomini di fede si domandavano perché non vi fosse nominato nemmeno una volta il nome di Cristo; ma altri ribattevano: “Dal momento che il contenuto del libro è permeato dal vero spirito cristiano, dall’amore attivo e dalla benevolenza universale, che volete di più?”. D’altronde, egli “non aveva per Cristo un’ostilità di principio”. Anzi ne apprezzava la retta intenzione e l’altissimo insegnamento. Tre cose di Gesù, però, gli riuscivano inaccettabili. Prima di tutto le sue preoccupazioni morali. “Il Cristo – affermava – col suo moralismo ha diviso gli uomini secondo il bene e il male, mentre io li unirò coi benefici che sono ugualmente necessari ai buoni e ai cattivi”. Poi non gli andava “la sua assoluta unicità”. Egli è uno dei tanti; o meglio – diceva tra sé – è stato il mio precursore, perché il salvatore perfetto e definitivo sono io, che ho purificato il suo messaggio da ciò che è inaccettabile all’uomo di oggi. Soprattutto, non poteva sopportare il fatto che Cristo fosse vivo, tanto che istericamente si ripeteva: “Lui non è tra i vivi e non lo sarà mai. Non è risorto, non è risorto, non è risorto! E’ marcito, è marcito nel sepolcro…”.

3 – Ma dove l’esposizione di Solov’ëv si dimostra particolarmente originale e sorprendente – e merita la più approfondita riflessione – è nell’attribuzione all’Anticristo delle qualifiche di pacifista, di ecologista, di ecumenista.

I. Già s’è visto che la pace e la prosperità sono gli argomenti del capolavoro letterario del nostro eroe. Ma sono idee che egli riuscirà anche ad attuare. Nel secondo anno di regno, come imperatore romano e universale, potrà emettere il proclama: “Popoli della terra! Io vi ho promesso la pace e io ve l’ho data”. E proprio a questo proposito matura in lui la coscienza della sua superiorità sul Figlio di Dio: « Il Cristo ha portato la spada, io porterò la pace”.
A ben capire il pensiero di Solov’ëv su questo punto, gioverà citare quanto egli dice nel terzo dialogo per bocca del Signor Z., l’interlocutore che rappresenta l’autore: “Cristo è venuto a portare sulla terra la verità, ed essa, come il bene, innanzitutto divide”. “C’è dunque – dice Solov’ëv – la pace buona, la pace cristiana, basata su quella divisione che Cristo è venuto a portare sulla terra precisamente con la separazione tra il bene e il male, tra la verità e la menzogna; e c’è la pace cattiva, la pace del mondo, fondata sulla mescolanza o unione esteriore di ciò che interiormente è in guerra con se stesso”. Quanto al pensiero sulla guerra nel senso più comune e ovvio del termine, ricordiamo che il primo dei tre dialoghi solovëviani è tutto dedicato alla critica del pacifismo tolstojano e della dottrina della non-violenza. La guerra – vi si afferma – è certamente un male, ma bisogna riconoscere che, sia nella vita dei singoli sia in quella delle nazioni, si danno situazioni in cui alla violenza malvagia non basta rispondere con gli ammonimenti e le buone parole. Possiamo dire che, secondo Solov’ëv, mentre gli ideali di pace e di fraternità sono valori cristiani indiscutibili e vincolanti, tali non possono essere ritenuti il pacifismo e la teoria della non-violenza che finiscono col risolversi troppo spesso in una resa sociale alla prevaricazione e in un abbandono senza difesa dei piccoli e dei deboli alla mercé degli iniqui e dei prepotenti.

II. L’Anticristo sarà poi anche un ecologista o almeno un animalista. Sono termini moderni che ovviamente Solov’ëv non usa; ma la sua descrizione è abbastanza chiara: “Il nuovo padrone della terra – egli precisa – era anzitutto un filantropo, pieno di compassione, non solo amico degli uomini ma anche amico degli animali. Personalmente era vegetariano, proibì la vivisezione e sottopose i mattatoi a una severa sorveglianza; le società protettrici degli animali furono da lui incoraggiate in tutti i modi”.

III. L’Anticristo infine si dimostrerà un eccellente ecumenista, capace di dialogare “con parole piene di dolcezza, saggezza ed eloquenza”. Convocherà i rappresentanti di tutte le confessioni cristiane a “un concilio ecumenico da tenere sotto la sua presidenza”. La sua azione mirerà a cercare il consenso di tutti attraverso la concessione dei favori concretamente più apprezzati. « Se non siete capaci di mettervi d’accordo tra voi – dirà ai convenuti dell’assise ecumenica – spero di mettere d’accordo io tutte le parti, dimostrando a tutti il medesimo amore e la medesima sollecitudine per soddisfare la vera aspirazione di ciascuno”. Attuerà praticamente questo disegno, ridonando ai cattolici il potere temporale del Papa, erigendo per gli ortodossi un istituto per la raccolta e la custodia di tutti i preziosi cimeli liturgici della tradizione orientale, creando a vantaggio dei protestanti un centro di libera ricerca biblica lautamente finanziato.
E’ un ecumenismo esteriore e “quantitativo”, che gli riuscirà quasi perfettamente: le masse dei cristiani entreranno nel suo gioco. Soltanto un gruppetto di cattolici con a capo il Papa Pietro II, un esiguo numero di ortodossi guidati dallo starete Giovanni e alcuni protestanti che si esprimono per bocca del professor Pauli resisteranno al fascino dell’Anticristo. Costoro arriveranno ad attuare l’ecumenismo della verità, radunandosi in un’unica Chiesa e riconoscendo il primato di Pietro. Ma sarà un ecumenismo “escatologico”, realizzato quando ormai la storia è pervenuta alla sua conclusione: « Così – racconta Solov’ëv – si compì l’unione delle Chiese nel cuore di una notte oscura su un’altura solitaria. Ma l’oscurità della notte venne a un tratto squarciata da un vivido splendore e in cielo apparve un grande segno: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul capo una corona di dodici stelle”.

4 – Qual è allora l’“ammonimento profetico” che arriva ai nostri tempi da questa specie di parabola del grande filosofo russo? Verranno giorni, ci dice Solov’ëv, quando nella cristianità si tenderà a risolvere il fatto salvifico, che non può essere accolto se non nell’atto difficile, coraggioso, concreto e razionale della fede, in una serie di “valori” facilmente esitabili sui mercati mondani. Da questo rischio dobbiamo guardarci. Anche se un cristianesimo che parlasse solo di « valori” largamente condivisibili ci renderebbe infinitamente più accettabili nei salotti, nelle aggregazioni sociali e politiche, nelle trasmissioni televisive, non possiamo e non dobbiamo rinunciare al cristianesimo « di Gesù Cristo », il cristianesimo che ha al suo centro lo « scandalo » della croce e la realtà sconvolgente della risurrezione del Signore. Questo pericolo – vorrei aggiungere – nella società dei nostri tempi non è puramente ipotetico. Don Divo Barsotti ha detto una parola tremenda, ma di attualità incontestabile: in molte proposte, in molte iniziative, in molti discorsi delle nostre comunità – egli afferma – Gesù Cristo è una scusa per parlare d’altro.
Il Figlio di Dio crocifisso e risorto, unico Salvatore dell’uomo, non è “traducibile” in una serie di buoni progetti e di buone ispirazioni, omologabili con la mentalità mondana dominante. E’ una “pietra”, come egli ha chiaramente detto di sé – e come noi raramente abbiamo il coraggio di ripetere –: su questa “pietra”, o (affidandosi) si costruisce o (contrapponendosi) ci si va a schiantare: « Chi cadrà su questa pietra sarà sfracellato; e qualora essa cada su qualcuno, lo stritolerà” (Mt 21,44).

5 – Qualche chiarificazione a questo punto si impone. E’ indubitabile che il cristianesimo sia prima di ogni altra cosa “avvenimento »; ma è altrettanto indubitabile che questo avvenimento propone e sostiene dei “valori” irrinunciabili. Certo non si può, per amore di dialogo, sciogliere il fatto cristiano in una serie di valori condivisibili dai più; ma non si può neppure disistimare i valori autentici, quasi fossero qualcosa di trascurabile. Occorre dunque un discernimento.
Ci sono dei valori assoluti – o, come dicono i filosofi, trascendentali –: tali sono, ad esempio, il vero, il bene, il bello. Chi li percepisce e li onora e li ama, percepisce, onora, ama Gesù Cristo, anche se non lo sa e magari si crede anche ateo, perché nell’essere profondo delle cose Cristo è la verità, la giustizia, la bellezza. Ci sono valori relativi (o categoriali), come il culto della solidarietà, l’amore per la pace, il rispetto per la natura, l’atteggiamento di dialogo eccetera. Questi meritano un giudizio più articolato, che preservi la riflessione da ogni ambiguità. Solidarietà, pace, natura, dialogo possono diventare nel non cristiano le occasioni concrete di un approccio iniziale e informale a Cristo e al suo mistero. Ma se nella sua attenzione essi si assolutizzano fino a svellersi del tutto dalla loro oggettiva radice o, peggio, fino a contrapporsi all’annuncio del fatto salvifico, allora diventano istigazioni all’idolatria e ostacoli sulla strada della salvezza. Allo stesso modo, nel cristiano, questi stessi valori – solidarietà, pace, natura, dialogo – possono offrire preziosi impulsi all’inveramento di una totale e appassionata adesione a Gesù, Signore dell’universo e della storia; è, per esempio, il caso di san Francesco d’Assisi.
Ma se il cristiano, per amore di apertura al mondo e di buon vicinato con tutti, quasi senza avvedersene stempera sostanzialmente il fatto salvifico nella esaltazione e nel conseguimento di questi traguardi secondari, allora egli si preclude la connessione personale col Figlio di Dio crocifisso e risorto, consuma a poco a poco il peccato di apostasia, si ritrova alla fine dalla parte dell’Anticristo.

6 – Nella prefazione a “I tre dialoghi” Solov’ëv racconta che, ai suoi tempi, in qualche governatorato della Russia aveva cominciato a diffondersi una nuova religione, che aveva estremamente semplificato la sua attività di culto. I suoi adepti “dopo aver praticato in qualche angolo buio nella parete dell’isba un buco di media grandezza… applicavano ad esso le labbra e ripetevano molte volte con insistenza: isba mia, buco mio, salvatemi!”. In questa incredibile aberrazione – nota Solov’ëv – c’era almeno il pregio di un uso corretto dei termini: “l’isba la chiamavano isba e il buco… lo chiamavano buco”. Nel nostro mondo c’è invece di peggio, continua implacabilmente il filosofo. “L’uomo ha perduto l’antica schiettezza. La sua isba ha ricevuto la denominazione di « regno di Dio in terra”; quanto al buco, si è cominciato a chiamarlo ‘nuovo vangelo’”. (Qui la polemica con Tolstoj è scoperta e addirittura feroce).
Ma il cristianesimo senza Cristo e senza la buona notizia di una reale e personale risurrezione “è poi la stessa cosa di uno spazio vuoto, come un semplice buco, praticato in una isba di contadini”. In conclusione, a me pare che anche e soprattutto oggi siamo alle prese con la cultura della pura e semplice “apertura”, della libertà senza contenuti, del niente esistenziale. Questa è la più grande tragedia del nostro tempo. Ma la tragedia diventa ancora più grande quando a questo “niente”, a queste « aperture”, a questi « buchi” si attribuisce per amore di dialogo qualche ingannevole etichetta cristiana. Fuori di Cristo – persona concreta, realtà viva, avvenimento – c’è solo il « vuoto” dell’uomo e la sua disperazione. In Cristo, che è il plèroma del Padre, l’uomo trova la sua pienezza e la sua sola speranza.

VLADIMIR SERGEEVIC SOLOV’ËV nasce a Mosca il 16 gennaio 1853. Poeta, scrittore, filosofo e critico letterario, è considerato il più grande filosofo russo e l’“Origene dei tempi moderni”. “I tre dialoghi e il breve racconto dell’Anticristo” (di cui si parla in questa pagina) è il suo testamento spirituale dato alle stampe l’anno della morte (1900). Studioso dei Padri della chiesa e delle scienze occulte, delle teologie orientali e dei sistemi di tipo gnostico, Solov’ev per Hans Urs von Balthasar è “autore della più universale creazione speculativa dell’età moderna, il pensatore che può essere considerato, accanto a Tommaso d’Aquino, come il più grande artefice di ordine e di organizzazione nella storia del pensiero”.

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Reincarnarsi? Un bluff intellettuale

Posté par atempodiblog le 28 mars 2010

Reincarnarsi? Un bluff intellettuale dans Stile di vita hadjadj

Cindy crede alla reincarnazione, ha letto cose stupefacenti su una rivista mentre era dal parrucchiere. Ne hanno discusso varie volte insieme nel tempo necessario a perfezionare la permanente. Lui, Fernand, è persuaso di essere stato una «chanteuse» nel periodo tra le due guerre, forse Lucienne Delyle, perché ogni volta che sente la sua voce cantare «Mon amant de Saint-Jean» le forbici si inceppano, l’asciugacapelli gli sfugge di mano, e gli arrivano immagini di cabaret e di uomini con il monocolo che affluiscono da un al di là della memoria. Cindy, da parte sua, immagina di essere stata una principessa russa all’epoca di Pietro il Grande.

Spesso vede se stessa con i suoi valletti attraversare pianure innevate in una troika con i sonagli, e quando sente il nome «San Pietroburgo» il cuore accelera. È un peccato che, in generale, nelle nostre presupposte reincarnazioni, la poesia non si estenda oltre uno o due fantasmi romanzeschi. Nessuno sostiene di essere stato uno scarafaggio in un’altra vita, un pangolino gigante, un pesce abissale del Pacifico, un tuco-tuco, detto anche ratto a pettine della Patagonia, un macaco indiano o una salamandra cieca del Texas. Un tizio infelice in amore mi spiegò che nella vita precedente aveva vissuto come marito monco di una donna-tronco di un circo svedese ma vi sfido a trovare qualcuno che affermi perentoriamente di essere stato il bisnonno del suo portiere o, essendo democratico, di essere la reincarnazione di un realista della Vandea; se ebreo, di aver fatto parte dell’Inquisizione spagnola; o, se un tempo è stato un grande capitalista sfruttatore delle miniere del nord, oggi per punizione è militante di Forza Operaia.

Alcuni, a cui la teoria della metempsicosi appare ancora troppo pesante, si accontentano di confondere la decomposizione e l’estasi. Continueranno a vivere nell’aria, la terra, le piante e gli insetti fecondati dal loro cadavere. Il signor Le Clézio intende la cosa solo in questo modo: «Quando sarò morto, non avrò lasciato niente. Quanto avrò reso il mio respiro al freddo, quando avrò reso la mia carne alla terra, quando avrò restituito la mia anima al mondo, non avrò lasciato niente. Non sarò partito. Non sarò in pace. Avrò smesso di sapere, ma in fondo niente sarà cambiato. Sarò sempre vivo, sparso nel mondo senza orizzonte, sarò sempre, qui o là, nella lotta per la vita. [....] Avrò aperto il sacco della mia autonomia, allora avrà luogo il movimento soave e sereno dell’osmosi. Mi spanderò».

Questa serie di proposizioni contraddittorie affermano al tempo stesso la permanenza e la dissoluzione dell’io. Il pensiero di Le Clézio ha anche lati buffi; sostiene comicamente che la Venere di Milo non sarebbe meno bella se ridotta in blocchi di pietra; che il nonno nel forno crematorio ha acquistato leggerezza e ampiezza; e infine che lo stesso libro di Le Clézio ridotto in ceneri valga altrettanto, o forse più, di quando era leggibile (l’ultimo esempio è particolarmente vero). Tuttavia basta prendere un momento sul serio tale pensiero, nella sua mistica del bio-degradabile, per capire la sua barbara stupidità. Lo spiritualismo disprezza la materia, il materialismo disprezza lo spirito, entrambi trascurano la consistenza della persona umana, corpo e anima, il valore della sua storia unica, il peso dell’acrobazia senza rete della sua responsabilità.

La tesi della reincarnazione vorrebbe sfuggire allo stesso tempo all’angoscia e all’ebbrezza di sapere che si vive e si muore una sola volta. Contiene tuttavia intuizioni corrette: il legame di ciascun individuo con la storia nel suo insieme, la risonanza del suo corpo con l’intero cosmo, la comunione della sua anima non con alcune ma con tutte le anime, ciascuna delle quali deve subire e sostenere le altre. È vero che ho un legame con il marito monco della donna-tronco; è vero che il nuoto subacqueo del pesce abissale o il rosicchiare patagone del tuco-tuco non sono privi di rapporto con la mia vita; è vero che porto qui e ora le conseguenze dell’imperatore Tang Gaozong, di Torquemada, di Jean Jaurès o di Philippe Pétain.

Ma la tesi della reincarnazione si rifiuta di riconoscere in quale misura tutto ciò mi spetta in modo insostituibile, che l’esistenza non è una prima prova, che non c’è una seconda possibilità, non c’è rivincita né ripescaggio dopo il trapasso. Cindy sogna ciò che sarebbe potuta essere anziché darsi da fare per diventare ciò che è. La credenza nella reincarnazione porta a una vera e propria disincarnazione; immagina di essere mediocremente principessa invece di accettare regalmente i propri compiti di segretaria. Ci si inventano più vite e più morti per non vedere più la propria vita e la propria morte, gravide di tutta l’avventura umana.

di Fabrice Hadjadj – Avvenire

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Ben oltre il folle di Facebook

Posté par atempodiblog le 28 mars 2010

«Scoperti» e «cancellati»

Ben oltre il folle di Facebook dans Marina Corradi marinacorradi

Il  ’gioco’ ignobile del tiro al bersaglio sui Down, spuntato su Facebook nei giorni scorsi, è sparito dalla Rete in poche ore: a furor di popolo, nell’onda di una indignazione generale. La forza di questa sollevazione rassicura: siamo ancora in un mondo umano, verrebbe da dire, se a una simile ripugnante caccia al diverso ci ribelliamo. Possiamo magari, e legittimamente, prendercela con la incontrollabilità dei social network, o con la globalizzazione che ha fatto crollare le frontiere e reso impotenti i codici penali. Certi, però, che quel ‘gioco’ su Facebook è opera solo di un pazzo, o di un idiota. Che la sua logica («I Down sono solo un peso… come eliminarli civilmente?») è del tutto estranea alla gente normale. E, certamente, è così.

Tuttavia, nel leggere questa storia, ci torna in mente una ricerca pubblicata dal British Medical Journal tre mesi fa, sull’incidenza della sindrome di Down in Gran Bretagna (ne riferiamo a pagina 7). Dove si spiega come l’aumento dell’età media delle madri negli ultimi dieci anni abbia portato a un incremento molto forte della sindrome; compensato, però, dal progresso degli screening prenatali, sempre più estesi, così che il 70% dei bambini Down viene individuato prima della nascita. Una diagnosi? No, una sentenza capitale: il 92 % delle donne raggiunte dal responso abortisce. D etect è il verbo usato dalla dottoressa Morris, della Queen Mary University di Lontra, per indicare l’individuazione dei bambini Down. I «detected babies» ben raramente vengono al mondo. «Detected» – in italiano individuati, scoperti. E cancellati, 92 su 100. Questo è il British Medical Journal.

Come dice invece quel pazzo su Facebook? («I Down sono solo un peso… come eliminarli civilmente?»). Dove la differenza è nel tempo, in un ‘prima’ e in un ‘dopo’, tra il feto – nella mentalità corrente, un nulla – e il bambino; ma non è nella sostanza delle cose. Quelli lì, non sono desiderati. E se umanamente l’angoscia di una madre di fronte a un figlio handicappato è comprensibile, resta evidente che tutti o quasi, attorno, le dicono o le fanno capire che no, non bisogna avere un figlio così. Così semplice, così indifeso. Così bambino per sempre. La stessa Morris, intervistata da un quotidiano inglese, si è rallegrata dell’affinamento dei test prenatali. Che riconoscono, nel buio del ventre, i figli ‘sbagliati’. Chiamandoli al loro breve destino. Allora il delirio di un vigliacco che, nascosto dietro a un soprannome, ha enunciato sulla Rete il suo ‘gioco’ abietto, non sarà come il materializzarsi di un sottopensiero inconscio, indicibile, che però esiste, almeno quando si tratti di nascituri – di non ancora nati, e dunque secondo alcuni di non­uomini? (In quella frontiera del ‘prima’ e del ‘dopo’ stabilita a ferrea barriera, per difenderci da dubbi e inquietudini).

Non sarà, quel gioco di vergogna, come il lazzo di un ubriaco, che però riecheggia qualcosa che in qualche modo si è ascoltato dai sobri? («Eliminandoli civilmente»). I «detected babies» non nascono. Scovati. Presi. E ‘civilmente’ respinti. Ma il 30 % sfugge ai controlli. La dottoressa Morris lamenta che c’è uno zoccolo duro di donne, che non accetta lo screening. Che non si sottopone a un esame che è già quasi verdetto. Che si tiene quel bambino, comunque: già figlio, e non clandestino. E questo zoccolo duro di madri ribelli, meraviglia. Forse più questo, che il rigurgito su Facebook di un ubriaco: che si lascia andare, nella sua ubriachezza nella impunità della Rete, a un vergognoso, ben occultato pensiero.

di Marina Corradi – Avvenire

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Pedofilia: il Vaticano sembra il solo a fare notizia

Posté par atempodiblog le 28 mars 2010

Pedofilia: il Vaticano sembra il solo a fare notizia
di Vittorio Messori - Corriere della Sera

Pedofilia: il Vaticano sembra il solo a fare notizia dans Articoli di Giornali e News megafono 

Mi si scuserà se prendo spunto dall’esperienza personale. Credo che possa aggiungere un piccolo tassello al mosaico oscuro del sesso degli adulti con i minori. Oscuro per noi, oggi: non pochi di coloro che si atteggiano a inflessibili moralizzatori, furono apostoli attivi della sessantottarda « liberazione sessuale ».

Per coloro che non vissero quei tempi , sarà sorprendente un carotaggio tra tanti, troppi testi degli anni Settanta. Libertà di sesso, per chiunque e con chiunque! Bambini compresi, anzi questi per primi, per educarli da subito a una prospettiva « non repressiva », a un « eros liberato ». Tra questi difensori –ma solo oggi, va ripetuto– del rispetto per i piccoli, molti sono coloro per i quali non vale, non deve valere, il rispetto per i più piccoli ancora. Guai, dunque a chi tocca i bambini già nati. Ma guai anche a chi volesse difendere i bambini non ancora nati; e difenderli non da molestie, ma dalla estirpazione violenta dall’utero. Un certo sdegno liberal non è eguale per tutti: infanzia protetta, certo, ma solo quella scampata all’ecatombe.

Veniamo allora alla piccola, ma forse significativa, esperienza personale.Terminata l’università e in attesa di un varco per infilarmi in qualche giornale o casa editrice, sentii parlare di una possibilità di lavoro temporaneo come assistente –qualcosa a metà tra il sorvegliante e il tutor– in collegi che praticavano ancora l’internato. Feci domanda ad alcuni di essi (tutti laici, va precisato, nessuno religioso) e fui convocato per colloqui e per una prima esperienza. Parlando con coloro che avrebbero potuto divenire colleghi, sentii talvolta discorsi che non capivo: lo stipendio era esiguo, il lavoro impegnativo ma, in cambio, c’erano vantaggi, c’erano benefit riservati che compensavano i sacrifici . Compresi solo quando, in un collegio per i virgulti di ricchi borghesi, un cinquantenne mi disse, strizzando l’occhio: « Vieni, non esitare! Sai, di giorno si lavora molto ma, di notte, le nostre stanze sono accanto a quelle dei ragazzi… ». Abituato, nottetempo, a un altro genere di frequentazioni, cambiai direzione alla mia ricerca di un lavoro, seppur temporaneo. Passarono gli anni e, come inviato di un quotidiano, visitai molti manicomi in procinto di chiusura per la legge Basaglia. In molti istituti non ci si curava neanche di nascondere che le ricoverate – e i ricoverati – minorenni, erano un « bottino » tanto appetito da scatenare lotte accanite tra medici e paramedici. I sindacalisti tacevano: anzi, mi dissero in una di quelle case, si erano riservati un diritto di prelazione sugli imberbi. Ma poiché la vita è lunga e gli incontri tanti, non ho dimenticato quello con un capitano di mare che –ridendo, a tavola, un po’ alticcio– mi raccontava della sorte, secondo lui divertente, che toccava, e tocca, ai quindicenni imbarcati come mozzi nelle infinite navi di ogni bandiera che solcano i mari.

Sono solo piccole postille a quanto detto l’altro giorno dal portavoce vaticano, padre Federico Lombardi: « Certamente quanto compiuto in certi ambienti religiosi è particolarmente riprovevole, data la responsabilità educativa e morale degli uomini di Chiesa. Ma chi è obiettivo e informato sa che la questione è molto più ampia e il concentrare le accuse solo sulla Chiesa falsa la prospettiva ». Padre Lombardi ha citato l’inchiesta svolta in Austria dal governo: « Diciassette casi di molestie o violenze ascrivibili a religiosi cattolici, 510 in altri ambienti. Non sarebbe giusto, innanzitutto per le vittime, che ci si occupasse almeno un poco anche di loro? ». In America, nella nebulosa delle innumerevoli chiese, chiesuole, sette, comunità religiose non ve ne è alcuna che non debba affrontare denunce di fedeli, maschi e femmine, per le attenzioni riprovevoli di ministri del culto. Neanche le istituzioni della vasta e variegata comunità ebraica americana sono esenti dal dilagare del contagio. Preti, pastori, rabbini si ritrovano spesso insieme nelle aule dei tribunali. E altrettanto avviene per tanti che lavorano negli ambienti più laici e più lontani da prospettive religiose, come ho ricordato.

Eppure, solo la Chiesa cattolica sembra fare notizia. Ma a ben pensarci, un simile « privilegio » non dovrebbe dispiacere a un credente. Chi si sdegna per la malefatte di un prete, più che per quelle di chiunque altro, è perché lo lega a un ideale eccelso che è stato tradito. Chi considera più gravi le colpe « romane », rispetto a ogni altra, è perché vengono da una Chiesa da cui ben altro si aspettava. Molte invettive anticlericali sono in realtà proteste deluse. E’ scomodo, per i cattolici, che il bersaglio privilegiato sia sempre e solo « il Vaticano ». Ma chi denuncia indignato le bassezze, è perché misura l’altezza del messaggio che da lì viene annunciato al mondo e che, credenti o no che si sia, non si vorrebbe infangato.

Fonte: Sursum Corda

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L’ex comunista ortodosso diventato fan del Papa

Posté par atempodiblog le 27 mars 2010

L’ex comunista ortodosso diventato fan del Papa

L'ex comunista ortodosso diventato fan del Papa dans Articoli di Giornali e News ferretti

Ma il bello è stato quando ha detto che «sono contento del nostro Papa». I giornalisti sono rimasti muti, intontiti dalla sorpresa: ma come, Giovanni Lindo Ferretti, il fondatore dei Cccp Fedeli alla linea, cantante del disco Affinità – divergenze fra il compagno Togliatti e noi, dice di essere contento di questo Papa? Lui lo chiama testualmente «Benedetto decimosesto», indugiando sul numero romano per sottolineare la tradizione conservatrice che ben si attaglia al Pontefice così maldestramente criticato da tanta stampa e da molta sinistra. E poi scandisce: «Sono d’accordo con quanto ha detto in Africa sui preservativi: quello della Chiesa è un approccio diverso alla corporalità dell’uomo. E il Papa fa il Papa». Silenzio assordante. Lui spiega: «Anni fa lessi sul manifesto tre insulti consecutivi contro Ratzinger. Poi Repubblica e altri giornali di sinistra. Mi sono detto: e chi è questo Ratzinger? Sono andato in libreria, c’erano nove suoi libri e li ho comprati tutti: sono stati una sorpresa incredibile».

Giovanni Lindo Ferretti dice di essere un «vecchio punk di 55 anni». In realtà è un libero pensatore, così libero che si ritrova spesso solo, così libero che ha continuato a crescere e mica si ferma ora che è una sorta di istituzione del rock italiano, campione di vendite con il libro Reduce (Mondadori) ed eremita per forza nella sua casa di Cerreto Alpi, provincia di Reggio Emilia. «Ho una mamma molto ammalata, ha una sorta di Alzheimer». La mamma di Giovanni Lindo Ferretti è una delle chiavi per capire l’evoluzione di questo cantante per necessità, un comunicatore che non sa nulla di musica e che definisce Ultime notizie di cronaca, il suo nuovo e ultimo album con i Pgr (acronimo di Per grazia ricevuta), come un «lavoro di artigianato». Bisogna aggiungere: ottimo artigianato. In ogni caso, la mamma. Quando «non aveva bisogno» di lui, Giovanni Lindo Ferretti è stato il primo grande punk italiano, punk nel senso vero di libero e ribelle e vittima del cattivo gusto. Nell’82 ha creato i Cccp che cantavano «Voglio rifugiarmi sotto al Patto di Varsavia / Voglio un piano quinquennale, la stabilità» e già qui si capisce quanto fosse incondizionato l’applauso che riceveva da tanti. Per intenderci, lui è un montagnino ossuto e spilungone, è pallido come l’intonaco di una cantina, gli occhi sempre spiritati, la voce grezza ma dolce e cavernosa. In realtà non canta, comunica. Era in Lotta continua e in un’intervista di qualche anno fa sullo Stato di Marcello Veneziani, ricordava candidamente di aver conosciuto Alberto Franceschini, fondatore delle Brigate rosse, e di essersi salvato dalla violenza seguendo la passione per l’arte. Quando parla è indubbiamente fascinoso, spesso irresistibile perché, come canta in Cronaca filiale, è «lesto nel pudore e audace in tenerezza». E poi in tutti questi anni è cresciuto en plein air, mettendo in piazza i suoi dubbi e le sue esagerazioni senza scampare le critiche. Dopo aver sciolto i Cccp, ha creato i Csi che stava per Consorzio suonatori indipendenti e giocava con la Comunità degli Stati Indipendenti nata dopo la dissoluzione dell’Urss. Nel 1997 Gianni Boncompagni diceva: «Bocelli da settimane guida le classifiche di vendita inglesi, mentre da noi in testa alla hit parade c’è un gruppo che nessuno, neanche i ragazzi di Macao, conoscono». Indovinate, il gruppo erano i Csi, l’album era lo splendido Tabula rasa elettrificata e i giornali erano stupefatti da un successo così lontano dalle paillettes del pop. «Io vivo fuori dal mondo: ai concerti il pubblico urlava sempre: “Chi non salta Jovanotti è”. Io non sapevo neanche chi fosse, questo Jovanotti. Poi l’ho conosciuto e siamo diventati amici».

Intanto Giovanni Lindo Ferretti continuava a vivere la sua vita parallela, fatta di letture («nella mia casa, a parte mia mamma e due cavalli, ci sono soltanto libri»), cene con gli amici, lento ruminare di pensieri. Adesso fa due concerti al mese e non ne farà di più, come dice, «due concerti con voce e violino, mai in città grandi ma solo in provincia, e non mi sento più di entrare in una dimensione rock’n’roll, salire sul palco a mezzanotte e poi passare ore ad annoiarmi». Però ha sempre il coraggio delle sue azioni, per di più adesso che ha pure battuto un male brutto e guai se gliene parlate, lui glisserà, svicolerà, non risponderà neanche con gli occhi.
Sul blog del Foglio, quotidiano con il quale collabora, ha scritto che «sono stato un giovane estremista sciocco, stupido e di buon cuore. Non rinnego né mi consolo». Nel 2005 a sorpresa si era schierato a favore dell’astensione nel referendum sulla procreazione assistita e Liberazione, neanche tanto a sorpresa, lo aveva massacrato. E via così, sia quando ha partecipato al Meeting di Cl di Rimini nel 2007 e poi, pensate che scandalo, quando l’anno scorso ha aderito alla lista antiabortista di Giuliano Ferrara, uno che «era l’esemplificazione di ciò che dovevo odiare». Doveva, capite? Quella lista, dice oggi lui, «non era plausibile, ma io l’ho seguito lo stesso perché sono un vecchio punkettone. Giuliano dice sempre che mi verrà a trovare in montagna, ma ci credo poco. Voto centrodestra? Sì da tre volte lo voto, il mio problema con Berlusconi è solo estetico». E allora vedete che Giovanni Lindo Ferretti, uno che dice «a mia mamma consigliavano di abortire e invece io sono qui», è rimasto sempre uguale, uno che cresce e guarda in faccia la gente e ha il coraggio pudico e bello di spiegare che «adesso sto vicino a mia mamma, come dice il quarto comandamento» fregandosene se il silenzio è così assordante che lo sentono tutti.

di Paolo Giordano
Fonte: Il Giornale

divisore dans Articoli di Giornali e News

La comunione dei santi resiste anche all’invasione dei media
di Andrea Possieri

[...] a proposito del cardinale Ratzinger hai scritto:  “Un giorno, stanco di leggere sui quotidiani frasi estrapolate, esposte al pubblico disprezzo, del reazionario per eccellenza “Pastore tedesco”, entrai in libreria e chiesi:  “Non ha mai scritto un libro, questo tal Ratzinger?” »

L’immagine che avevo del cardinale Ratzinger, senza aver mai letto un suo libro, era quella del “reazionario per eccellenza”. Le prime volte che, da Papa, si è presentato in pubblico percepivo un indole di riservatezza e timidezza. Mentre Giovanni Paolo II dominava le scene, Benedetto XVI è l’esatto opposto. Un po’ soffro con lui e vorrei far sparire tutte le macchine fotografiche, le videocamere e i telefonini che circondano il Papa! Benedetto XVI incarna l’immagine dello studioso, dell’uomo saggio e sapiente, timorato di Dio. Quando il cardinale Ratzinger è diventato Papa mi sono inginocchiato davanti alla televisione piangendo per la commozione, la gioia. Il Papa è il nostro Santo Padre e può essere malato, sano, giovane o vecchio. Io lo amo per come egli è. Il Papa è forte al di là della propria indole perché, dietro e attorno a sé, c’è qualcosa che si chiama la comunione dei santi che regge anche l’invasione dei media.

Tratto da: L’Osservatore Romano

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L’Annunciazione

Posté par atempodiblog le 25 mars 2010

L'Annunciazione dans Commenti al Vangelo ionec7

L’Annunciazione è una bellissima festa, perché è la festa del SI.
In quel giorno, in verità, furono pronunciati tre SI.
- Tre SI? Io non li vedo.
- C’è anzitutto il SI che Gabriele disse a Dio che lo mandava in un villaggio di Nazareth da una giovane donna di nome Maria. <<Sì, io ci vado>> disse Gabriele.
- Dopo c’è il SI che la Santa Vergine disse all’Angelo che Le chiedeva se accettava di essere la Madre di Dio. <<Sì, io sono la Sua schiava>>, disse Maria.
Infine, c’è il SI che pronunciò il Verbo scendendo sulla terra per obbedire a Suo Padre. <<Sì, Padre mio, Io andrò sulla terra per obbedirti>>, disse Gesù.
- E’ vero, non ci avevo mai pensato…
- E che diresti se aggiungessi un quarto SI?
- Quale?
- Il tuo. SI a un sacrificio che Nostro Signore ti chiede e che tu da molto tempo Gli rifiuti. SI a un piccolo sacrificio che Egli ti chiede oggi.
Vuoi dunque promettergli di dire un bel SI oggi?

PROPOSITO: SI, glielo prometto.

di Henry Perroy 

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I due monelli e la Madonna – Un minuto con Maria

Posté par atempodiblog le 24 mars 2010

I due monelli e la Madonna – Un minuto con Maria  dans Racconti e storielle candele

I genitori di Gianni e Franco abitavano in uno dei quartieri più poveri del porto di Genova, dove il padre lavorava come facchino. Purtroppo, l’uomo spesso passava il tempo nelle osterie dove lasciava il suo salario, ogni settimana. Per mantenere la famiglia, la madre lavorava come lavandaia. I due ragazzi vagavano per le strade della città e, occasionalmente, rubavano della frutta ai fruttivendoli. Malgrado ciò, erano bambini buoni, piccoli monelli.

In cuor loro si rallegravano pensando alla Processione della «Madonna della Guardia» che si avvicinava, che amavano di tutto cuore e in suo onore, come tutta la gente, volevano accendere delle candele e porle alle loro finestre. Ma dove prendere i soldi per fare ciò? Il padre non portava nemmeno una lira a casa e il guadagno della madre era appena sufficiente a sfamarli.

Gianni ebbe un’idea. «Potremmo lavorare», propose a Franco. «Abbiamo ancora un giorno di tempo fino alla processione. Così potremmo guadagnare un po di soldi per comprare le candele». Il mattino seguente i due, con lo stupore della madre, si alzarono prima delle sette e scomparvero in fretta. «Cosa combineranno oggi, quei due», pensò la madre. Stupirono anche il rivenditore di carbone, a cui chiesero del lavoro. Il carbonaio rimase ancora di più stupito quando, per tutta la giornata, li vide lavorare di tutta lena, con un ardore degno del miglior operaio. Li avrebbe assunti volentieri, quando, a sera, vennero a chiedere il loro salario. Il carbonaio diede loro cento lire. Fieri della loro prima paga, ritornarono a casa. Cento lire valgono appena un franco. Non importa ! La gioia di averli guadagnati rese radioso il loro volto.

Con il danaro guadagnato col loro lavoro, Gianni e Franco volevano acquistare tre o quattro candele, cosa che non è per niente male per una famiglia povera come la loro. Passarono senza farci caso, davanti ad un mendicante che stendeva loro la mano…

Malgrado tutto, Franco non riusciva a togliersi dalla mente il povero sfortunato e sentì la necessità di confidarsi con Gianni: «Non sarebbe meglio dare le nostre cento lire a questo infelice che abbiamo appena visto sul marciapiede? Non pensi che la Madonna sarebbe più felice se facessimo l’elemosina con le nostre cento lire? Questo infelice può essere disoccupato e la sua famiglia non avere di che sfamarsi». Gianni avrebbe preferito vedere delle candele alla finestra, ma Franco insistette tanto che alla fine si convinse: La Madonna ne sarebbe stata più felice…

Voltarono sui loro passi correndo, sino al luogo dove si trovava il mendicante, gli consegnarono le cento lire e filarono a tutta velocità fischiettando verso casa. Ma quando vi giunsero restarono a bocca aperta. Franco con le lacrime agli occhi, Gianni sfregò gli occhi e si pizzicò l’orecchio. «Incredibile ! Sto sognando?», sussurrò. Delle grandi candele ornavano le loro finestre e l’interno era fortemente illuminato. Non riuscirono a capacitarsene… si precipitarono in casa e, colmi di gioia, saltarono al collo dei loro genitori. Cosa era successo?

Poco prima di mezzogiorno, il padre aveva dovuto recarsi in città per fare una commissione e, passando, aveva scoperto i propri figli caricando il carbone. Immediatamente indovinò il motivo che li aveva spinti a lavorare con tanto ardore… Si vergognò della sua condotta… Nel pomeriggio chiese al suo capo un acconto e andò a comprare venti candele… Indi promise a sua moglie che non avrebbe bevuto mai più e, poi, quando raccontò alla madre la buona condotta dei loro due monelli, questa si mise a pulire e adornare la casa per la festa dell’indomani. Da allora, si sono potuti vedere spesso Gianni e Franco nella piccola cappella del porto, assistere alla messa mattutina.

Tratto da Fluvion Grimaldi Le più belle storie di Maria (Die schönsten Mariengeschichten)
Ripresa nella Raccolta mariani, n°10, del frate Albert Pfleger, marista.
Fonte: lucisullest.it

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L’umiltà vera

Posté par atempodiblog le 21 mars 2010

L'umiltà vera dans Fede, morale e teologia avilar

Santa Teresa D’Avila (1515-1582), la grande riformatrice del Carmelo, pone l’umiltà, cioè la comprensione di ciò che noi siamo in realtà davanti a Dio alla base del suo <<castello mistico>>, che è la nostra anima nella cui intimità incontriamo Dio con la preghiera: finché non abbiamo un’umiltà vera, nostro Signore, proprio per il nostro bene, non ci eleverà molto in alto, per non esporci a crolli disastrosi.
Ma l’umiltà è anche il vertice di questo <<castello>>: infatti, allo sbocco di tutto il cammino di preghiera vi è un’umiltà che Dio infonde direttamente nell’anima, e che supera infinitamente quella acquistata mediante i nostri sforzi aiutati dalla grazia.
Vi è anche una falsa umiltà, che angoscia, che mantiene nell’aridità, nell’oscurità, nella ripugnanza per la preghiera, che genera inquietudine ed agitazione: in realtà è odio e risentimento verso se stessi, unito a sfiducia nella misericordia divina. L’umiltà vera non inquieta e non agita, ed è invece accompagnata da gioia e da pace.

di Padre Livio Fanzaga – I vizi capitali e le contrapposte virtù

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