Genocidio: l’orrore sempre in agguato
di André Glucksmann – Corriere della Sera
Da Cracovia a Oswiecim, dove si trova il campo di Auschwitz, la strada costeggia la Vistola, a perdita d’occhio la neve monotona imbianca le paludi nascondendole allo sguardo. Il paesaggio è sconfinato. Passiamo davanti alla fabbrica chimica dove lavoravano fino allo sfinimento i deportati ritenuti validi. Il tempo è bello e freddo, un sole splendente illumina la banchisa e rapidamente scompare, lasciando ognuno di noi ai propri pensieri. Penso a Fred, che per me fu come un fratello maggiore. Aveva 17 anni, io 5, quando andò in Austria per organizzare la resistenza antinazista. Non lo rividi mai più. Arrestato all’arrivo del treno nella stazione di Vienna, fu torturato e spedito ad Auschwitz come carne da macello, poi scappò e venne ripreso da ragazzini della sua stessa età ingaggiati nella Hitlerjugend, che lo imprigionarono e lo dimenticarono. Morì su quella terra desolata bevendo la propria urina. Nel 1967, il poeta Paul Celan, durante una passeggiata, tentò di far assaporare al filosofo Heidegger il fascino ammaliante di simili paesaggi paludosi e ghiacciati, sperando di suscitare nel professore tedesco un esame di coscienza. Fu un fallimento. Il pensatore, che aveva regolarmente pagato le proprie quote al partito nazista dal 1933 al 1945, fece notare al poeta che i loro ricordi non erano gli stessi: la star delle università di quei tempi riteneva che «l’agricoltura meccanizzata» e i campi della morte fossero «la stessa cosa», cioè che fossero un effetto del regno mondiale della tecnica, e lui non provava tristezza né rimpianto, né sentiva alcuna responsabilità particolare. Un così supremo distacco oggi è fra i più condivisi, anche se le sottigliezze filosofiche (identificazione delle mietitrebbiatrici con le camere a gas) sono ignorate dai più. È possibile commemorare Auschwitz senza congelare la sua tragica storia, quasi fosse la traccia di un’epoca lontana, sepolta e svanita? È la domanda che si sono posti, dopo le cerimonie annuali, come tanti altri prima di loro, alcuni intellettuali inquieti, per la maggior parte polacchi e cattolici, in compagnia di Jerzy Buzek, presidente del Parlamento europeo. Reiterando la domanda che tormentava Giovanni Paolo II — come rifondare i diritti dell’uomo dopo Auschwitz?— si imbattevano di nuovo nella sfida più radicale che abbia scosso la cultura europea: «Eccoci tornati all’anno Mille» (Sartre nel 1945). Prima, «ogni uomo era al riparo in mezzo alla folla». Dopo la rivelazione di Auschwitz e di Hiroshima, «ogni mattina saremo alla vigilia della fine dei tempi». La capacità intima di sterminare fino al genocidio, la capacità materiale dell’arma assoluta proiettano la specie umana nell’orizzonte invalicabile della sua autodistruzione. Ogni anno sono più di un milione i nostri contemporanei— scuole, famiglie e persone da sole— che fanno il viaggio ad Auschwitz visitando i campi, fotografandoli e fotografando se stessi. Gli uni non sanno e si informano, gli altri verificano, altri ancora pregano. Malgrado l’emozione e la buona volontà, rischiano di ripartire senza risposta, come quando sono arrivati. Non è facile immaginare l’inimmaginabile quando la propria esistenza è lontana anni luce da quella realtà, quando si è ben nutriti, lavati, educati. Le persone più scosse dalla visita di Auschwitz che ho avuto occasione d’incontrare erano due studentesse, una ruandese e tutsi, l’altra cecena, Annick e Milana. Essendo sfuggite di poco alla crudeltà sterminatrice, il crimine nazista echeggiava dentro di loro, risvegliava l’incontro con l’inumano che avevano vissuto. Non evochiamo Auschwitz come se si trattasse di una vicenda chiusa, non visitiamo questo luogo della memoria come fosse un museo degli orrori, il mausoleo di un passato superato. E se bisogna proferire il «mai più!», che sia detto come impegno, allora sì. Non certo come constatazione. Il XX secolo si è concluso col genocidio portato fino in fondo dei tutsi del Ruanda, condotto alla velocità di un lampo, davanti agli occhi del pianeta intero: i giornalisti internazionali lavoravano sul posto, il generale Onu Dallaire informava ora dopo ora, fax dopo fax, Kofi Annan. Supplicava di inviargli rinforzi e di dargli il diritto d’intervenire. Nulla fu fatto. La Francia aveva scelto male i propri amici e la coscienza del mondo non dava segni di vita. Come la Chiesa, che non riuscì a trovar le parole per fermare gli assassini in un Paese del «Cristo Re», dove vittime e carnefici erano cattolici ferventi. Il risultato fu che 10 mila civili al giorno furono giustiziati, per tre mesi, donne e bambini innanzitutto. La logica di Auschwitz, sterminatrice di un popolo nella sua totalità, funzionava nuovamente. E così l’illogica indifferenza che la rende possibile. Sterminio degli ebrei d’Europa, sterminio dei tutsi del Ruanda. Non crediate che siano storie archiviate. Ci fu la Cambogia dei khmer rossi, ci fu Srebrenica. Le pulsioni genocidiarie imperversano nel Caucaso, dove un ceceno su cinque è stato ucciso dall’esercito russo in un silenzio quasi generale; nel Darfur, dove le vittime delle milizie sudanesi sono centinaia di migliaia e gli sfollati milioni. Quanto ai progetti per l’avvenire sbandierati qui e là, essi continuano ad apparire sinistri. Ahmadinejad a Teheran non minaccia forse, con la regolarità di un metronomo, di far scomparire nuclearmente Israele dalle carte geografiche? Non è il solo. I mostri genocidiari non appartengono al passato, ma all’attualità. La sfida del 1945 sussiste. Quando Napoleone e la sua Grande Armata scomparvero, l’Europa illuminata si addormentò sulla sua belle époque dimenticando Clausewitz: «Una volta abbattuti i limiti del possibile, che esistevano per così dire solo nel nostro inconscio, è difficile ristabilirli». Auschwitz è eternamente possibile, l’inaudita pulsione di morte rivelata dal secolo scorso incombe sul nuovo.