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Perché Medjugorje suscita tanto interesse?

Posté par atempodiblog le 30 novembre 2009

Perché Medjugorje suscita tanto interesse?
Intervista al Card. Tonini

Perché Medjugorje suscita tanto interesse? dans Apparizioni mariane e santuari cardinaltonini

La Madonna appare come un capolavoro nelle mani di Dio. «Vergine madre figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura». Dante sotto questo profilo la esalta in maniera splendida.
Maria rappresenta la Madre, il senso della maternità; è una donna semplice, la più semplice, non una principessa, chiamata a divenire madre del figlio di Dio: è lei che consente di trasmettere la vita al Figlio di Dio.
Dio, facendosi Uomo ha scelto questa creatura per prendere da lei la carne, il temperamento, le inclinazioni umane. E il culto mariano altro non è se non un aspetto del culto di Gesù Cristo, che ha portato il mondo intero a scoprire la dignità dell’essere umano, a scoprire che i più deboli hanno più diritti dei forti.
Questa è la grande novità del messaggio cristiano, non è la potenza che decide il destino del mondo ma l’amore, la carità, la fraternità, il senso di appartenenza, della pietà, della misericordia, dell’aiuto al più debole da parte del più forte. E la Madonna, una donna semplice, è colei che ha avuto la fortuna di essere scelta quando Dio ha voluto presentare al mondo un uomo come suo figlio.
A Medjugorje non ci sono stato. Però ho conosciuto vescovi della zona che garantiscono che questi ragazzi delle visioni non hanno inventato nulla; per loro la testimonianza di questi ragazzi è autentica e gli eventi, i miracoli che lì accadono, anche. Ma soprattutto, il vero miracolo è la serenità che migliaia di persone riacquistano con quegli incontri.
Alla fin fine queste cose Dio le permette, Dio le vuole perché l’uomo trovi qualche consolazione.
È vero, la Chiesa è cauta, va lenta. Io ho assistito a un incontro. Ero a pranzo con Papa Wojtyla, e lì c’erano due vescovi della Jugoslavia: uno a favore, l’altro un po’ meno. Giovanni Paolo II non ha voluto pronunciarsi, però si capivano molto bene le sue indicazioni: diamogli la libertà di muoversi. Difficile poter dare giudizi assoluti, condanne assolute. Bisogna attendere, riflettere su che cosa sta accadendo. A Medjugorje vediamo che la gente che va, torna non soltanto sazia dei miracoli o dei prodigi cui crede di aver assistito, ma si accorge, sente, che laggiù c’è un clima diverso: di rispetto, di benevolenza, un clima di stupore, di senso cristiano, di carità e di aiuto vicendevole. E questo significa davvero che qualche cosa c’è.

Fonte: Settimanale Oggi

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L’Avvento è il tempo della presenza e dell’attesa dell’eterno

Posté par atempodiblog le 29 novembre 2009

L'Avvento è il tempo della presenza e dell’attesa dell’eterno dans Avvento avvento1l

“Se Gesù è presente, non esiste più alcun tempo privo di senso e vuoto. Se Lui è presente, possiamo continuare a sperare anche quando gli altri non possono più assicurarci alcun sostegno, anche quando il presente diventa faticoso”: è quanto ha detto il Papa nell’omelia dei Primi Vespri della Prima Domenica di Avvento, da lui presieduti nella Basilica Vaticana. “Cari amici – ha proseguito – l’Avvento è il tempo della presenza e dell’attesa dell’eterno. Proprio per questa ragione è, in modo particolare, il tempo della gioia, di una gioia interiorizzata, che nessuna sofferenza può cancellare. La gioia per il fatto che Dio si è fatto bambino. Questa gioia, invisibilmente presente in noi, ci incoraggia a camminare fiduciosi”. Il Papa ha quindi parlato della frenesia della vita quotidiana: “A volte le cose ci ‘travolgono’. L’Avvento, questo tempo liturgico forte che stiamo iniziando, ci invita a sostare in silenzio per capire una presenza. E’ un invito a comprendere che i singoli eventi della giornata sono cenni che Dio ci rivolge, segni dell’attenzione che ha per ognuno di noi. Quanto spesso Dio ci fa percepire qualcosa del suo amore! Tenere, per così dire, un ‘diario interiore’ di questo amore sarebbe un compito bello e salutare per la nostra vita! L’Avvento ci invita e ci stimola a contemplare il Signore presente. La certezza della sua presenza non dovrebbe aiutarci a vedere il mondo con occhi diversi? Non dovrebbe aiutarci a considerare tutta la nostra esistenza come ‘visita’, come un modo in cui Egli può venire a noi e diventarci vicino, in ogni situazione?”.
Ecco il testo integrale dell’omelia del Papa:

bendettoxvi dans Fede, morale e teologia

Cari fratelli e sorelle, con questa celebrazione vespertina entriamo nel tempo liturgico dell’Avvento. Nella lettura biblica che abbiamo appena ascoltato, tratta dalla Prima Lettera ai Tessalonicesi, l’apostolo Paolo ci invita a preparare la “venuta del Signore nostro Gesù Cristo” (5,23) conservandoci irreprensibili, con la grazia di Dio. Paolo usa proprio la parola “venuta”, in latino adventus, da cui il termine Avvento.Riflettiamo brevemente sul significato di questa parola, che può tradursi con “presenza”, “arrivo”, “venuta”. Nel linguaggio del mondo antico era un termine tecnico utilizzato per indicare l’arrivo di un funzionario, la visita del re o dell’imperatore in una provincia. Ma poteva indicare anche la venuta della divinità, che esce dal suo nascondimento per manifestarsi con potenza, o che viene celebrata presente nel culto. I cristiani adottarono la parola “avvento” per esprimere la loro relazione con Gesù Cristo: Gesù è il Re, entrato in questa povera “provincia” denominata terra per rendere visita a tutti; alla festa del suo avvento fa partecipare quanti credono in Lui, quanti credono nella sua presenza nell’assemblea liturgica. Con la parola adventus si intendeva sostanzialmente dire: Dio è qui, non si è ritirato dal mondo, non ci ha lasciati soli. Anche se non lo possiamo vedere e toccare come avviene con le realtà sensibili, Egli è qui e viene a visitarci in molteplici modi.

Il significato dell’espressione “avvento” comprende quindi anche quello di visitatio, che vuol dire semplicemente e propriamente “visita”; in questo caso si tratta di una visita di Dio: Egli entra nella mia vita e vuole rivolgersi a me. Tutti facciamo esperienza, nell’esistenza quotidiana, di avere poco tempo per il Signore e poco tempo pure per noi. Si finisce per essere assorbiti dal “fare”. Non è forse vero che spesso è proprio l’attività a possederci, la società con i suoi molteplici interessi a monopolizzare la nostra attenzione? Non è forse vero che si dedica molto tempo al divertimento e a svaghi di vario genere? A volte le cose ci “travolgono”. L’Avvento, questo tempo liturgico forte che stiamo iniziando, ci invita a sostare in silenzio per capire una presenza. E’ un invito a comprendere che i singoli eventi della giornata sono cenni che Dio ci rivolge, segni dell’attenzione che ha per ognuno di noi. Quanto spesso Dio ci fa percepire qualcosa del suo amore! Tenere, per così dire, un “diario interiore” di questo amore sarebbe un compito bello e salutare per la nostra vita! L’Avvento ci invita e ci stimola a contemplare il Signore presente. La certezza della sua presenza non dovrebbe aiutarci a vedere il mondo con occhi diversi? Non dovrebbe aiutarci a considerare tutta la nostra esistenza come “visita”, come un modo in cui Egli può venire a noi e diventarci vicino, in ogni situazione?

Altro elemento fondamentale dell’Avvento è l’attesa, attesa che è nello stesso tempo speranza. L’Avvento ci spinge a capire il senso del tempo e della storia come “kairós”, come occasione favorevole per la nostra salvezza. Gesù ha illustrato questa realtà misteriosa in molte parabole: nel racconto dei servi invitati ad attendere il ritorno del padrone; nella parabola delle vergini che aspettano lo sposo; o in quelle della semina e della mietitura. L’uomo, nella sua vita, è in costante attesa: quando è bambino vuole crescere, da adulto tende alla realizzazione e al successo, avanzando nell’età, aspira al meritato riposo. Ma arriva il tempo in cui egli scopre di aver sperato troppo poco se, al di là della professione o della posizione sociale, non gli rimane nient’altro da sperare. La speranza segna il cammino dell’umanità, ma per i cristiani essa è animata da una certezza: il Signore è presente nello scorrere della nostra vita, ci accompagna e un giorno asciugherà anche le nostre lacrime. Un giorno, non lontano, tutto troverà il suo compimento nel Regno di Dio, Regno di giustizia e di pace.

Ma ci sono modi molto diversi di attendere. Se il tempo non è riempito da un presente dotato di senso, l’attesa rischia di diventare insopportabile; se si aspetta qualcosa, ma in questo momento non c’è nulla, se il presente cioè rimane vuoto, ogni attimo che passa appare esageratamente lungo, e l’attesa si trasforma in un peso troppo grave, perché il futuro rimane del tutto incerto. Quando invece il tempo è dotato di senso, e in ogni istante percepiamo qualcosa di specifico e di valido, allora la gioia dell’attesa rende il presente più prezioso. Cari fratelli e sorelle, viviamo intensamente il presente dove già ci raggiungono i doni del Signore, viviamolo proiettati verso il futuro, un futuro carico di speranza. L’Avvento cristiano diviene in questo modo occasione per ridestare in noi il senso vero dell’attesa, ritornando al cuore della nostra fede che è il mistero di Cristo, il Messia atteso per lunghi secoli e nato nella povertà di Betlemme. Venendo tra noi, ci ha recato e continua ad offrirci il dono del suo amore e della sua salvezza. Presente tra noi, ci parla in molteplici modi: nella Sacra Scrittura, nell’anno liturgico, nei santi, negli eventi della vita quotidiana, in tutta la creazione, che cambia aspetto a seconda che dietro di essa ci sia Lui o che sia offuscata dalla nebbia di un’incerta origine e di un incerto futuro. A nostra volta, noi possiamo rivolgergli la parola, presentargli le sofferenze che ci affliggono, l’impazienza, le domande che ci sgorgano dal cuore. Siamo certi che ci ascolta sempre! E se Gesù è presente, non esiste più alcun tempo privo di senso e vuoto. Se Lui è presente, possiamo continuare a sperare anche quando gli altri non possono più assicurarci alcun sostegno, anche quando il presente diventa faticoso.

Cari amici, l’Avvento è il tempo della presenza e dell’attesa dell’eterno. Proprio per questa ragione è, in modo particolare, il tempo della gioia, di una gioia interiorizzata, che nessuna sofferenza può cancellare. La gioia per il fatto che Dio si è fatto bambino. Questa gioia, invisibilmente presente in noi, ci incoraggia a camminare fiduciosi. Modello e sostegno di tale intimo gaudio è la Vergine Maria, per mezzo della quale ci è stato donato il Bambino Gesù. Ci ottenga Lei, fedele discepola del suo Figlio, la grazia di vivere questo tempo liturgico vigilanti e operosi nell’attesa. Amen!

Fonte: Radio Vaticana

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Quando facciamo l’interesse della morte…

Posté par atempodiblog le 29 novembre 2009

Quando facciamo l'interesse della morte... dans Citazioni, frasi e pensieri papaj

« Se noi viviamo contro l’amore e contro la verità – contro Dio –, allora ci distruggiamo a vicenda e distruggiamo il mondo ».

Benedetto XVI

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Amore che perdona

Posté par atempodiblog le 27 novembre 2009

Amore che perdona dans Fede, morale e teologia 2n8wtvr

“L’eros di Dio per l’uomo – ci indica l’enciclica “Deus caritas est” – è insieme totalmente agape. Non soltanto perché viene donato del tutto gratuitamente, senza alcun merito precedente, ma anche perché è amore che perdona”.

Anche questa qualità rifulge nel massimo grado nel mistero della croce. “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”, aveva detto Gesú nel cenacolo (Gv 15,13). Verrebbe da esclamare: Sì che esiste, o Cristo, un amore più grande che dare la vita per i propri amici. Il tuo! Tu non hai dato la vita per i tuoi amici, ma per i tuoi nemici! Paolo dice che a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto, però si trova. “Ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito” (Rom 5, 6-8).

Ma non si tarda a scoprire che il contrasto è solo apparente. La parola “amici” in senso attivo indica coloro che ti amano, ma in senso passivo indica coloro che sono amati da te. Gesù chiama Giuda “amico” (Mt 26, 50) non perché Giuda lo amasse, ma perché lui lo amava! Non c’è amore più grande che dare la propria vita per i nemici, considerandoli amici: ecco il senso della frase di Gesù. Gli uomini possono essere, o atteggiarsi, a nemici di Dio, Dio non potrà mai essere nemico dell’uomo. È il terribile vantaggio dei figli sui padri (e sulle madri).

Dobbiamo riflettere in che modo, concretamente, l’amore di Cristo sulla croce può aiutare l’uomo d’oggi a trovare, come dice l’enciclica, “la strada del suo vivere e del suo amare”. Esso è un amore di misericordia, che scusa e perdona, che non vuole distruggere il nemico, ma semmai l’inimicizia (cfr. Ef 2, 16). Geremia, il più vicino tra gli uomini al Cristo della Passione, prega Dio dicendo: “Possa io vedere la tua vendetta su di loro” (Ger 11, 20); Gesú muore dicendo: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34).

È proprio di questa misericordia e capacità di perdono che abbiamo bisogno oggi, per non scivolare sempre più nel baratro di una violenza globalizzata. L’Apostolo scriveva ai Colossesi: “Rivestitevi, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti (alla lettera: di viscere!) di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza, sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi” (Col 3, 12-13).

Avere misericordia significa impietosirsi (misereor) nel cuore (cordis) a riguardo del proprio nemico, capire di che pasta siamo fatti tutti quanti e quindi perdonare. Quanta verità nel verso del nostro Pascoli: “Uomini, pace! Nella prona terra troppo è il mistero” (‘I due fanciulli’). Un comune destino di morte incombe su tutti. L’umanità è avvolta da tanta oscurità e piegata (“prona”) sotto tanta sofferenza che dovremmo pure avere un po’ di compassione e di solidarietà gli uni per gli altri!

di Padre Raniero Cantalamessa

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I mercatini di Natale in Campania

Posté par atempodiblog le 27 novembre 2009

I mercatini di Natale in Campania dans Santo Natale presepenapoli

Una passeggiata per i Mercatini campani non è soltanto l’occasione per lo shopping natalizio, per un tuffo fra tradizione e novità alla scoperta di un regalo originale, ma anche la possibilità di immergersi nelle tradizioni e usanze del natale in Campania, tra i dolci natalizi e i piatti tipici di una gastronomia che rimanda a sapori antichi.
Ed ancora, gli eventi dedicati ai più piccoli e gli spettacoli a tema, gli appuntamenti nelle strade, nelle piazze, nei musei che si animano come per incanto al suono di una musica dolcissima o che si trasformano in luoghi senza tempo dove si può ritornare bambini.

Il Natale a Napoli – Il legame tra la tradizione del presepe e Napoli e cosi esclusivo che il termine « presepe napoletano » indica ormai una realtà a sé.
Il presepe napoletano vanta tra le sue statuine non soltanto i personaggi classici, Santa Famiglia, magi, pastori e figuranti dei mestieri, ma la rappresentazione, spesso caricaturale, di personaggi famosi del passato e del presente.
Entrare a far parte dei personaggi del presepe napoletano e una meta ambitissima per personaggi dello spettacolo, della politica e dello sport.
La via del presepe a Napoli e Via San Gregorio Armeno a Spaccanapoli. Qui si susseguono botteghe specializzate nel presepe, all’interno delle quali e possibile trovare di tutto: dalle statuine classiche agli accessori per creare il presepe animato, dalle caricature dei personaggi famosi, Totò e Maradona in testa, al moschella, statua di pastore dalle dimensioni minuscole.
Il Mercato Natalizio di Napoli ha quindi una caratteristica unica: e aperto tutto l’anno, dato che non si tratta di un mercato temporaneo, formato di banchi e stand, ma di una vera e propria zona della città dedicata al Natale.
La città di Napoli e ricca di bellezze artistiche e paesaggistiche e quella del mercatino natalizio può essere un’ottima scusa per visitare la città nel suo insieme.
In questo periodo dell’anno vengono organizzati dei presepi viventi, in particolare in Piazza S. Gaetano.
Una visita d’obbligo e quella alla Chiesa di S. Lorenzo Maggiore, dove sono custoditi gusci di noce al cui interno sono ricostruiti minuscoli presepi.

Natale a San Potito Sannitico
– Nei fine settimana di dicembre, il borgo di San Potito Sannitico, in provincia di Caserta, con le sue antiche mura e le tipiche scalinate in pietra, ospita un magnifico mercatino di Natale: bancarelle addobbate a festa riempiranno le strade di luci e colori, coinvolgendo i visitatori in una particolare e festosa atmosfera.
La novità di quest’anno è che i vicoli del centro storico si trasformano per l’occasione nel « Borgo delle tradizioni », dove sarà possibile ammirare quelle che un tempo erano le attività tradizionali del territorio matesino: non mancheranno dimostrazioni pratiche e laboratori di enogastronomia e di artigianato locale.
Ed ancora, nei mercatini si potranno trovare addobbi, prodotti artigianali (presepi, decoupages, intaglio su legno, ricamo) e gustosi assaggi enogastronomici.
Le vie del centro saranno, poi, allietate da artisti di strada, gruppi folkloristici, spettacoli e concerti serali di musica popolare.
La manifestazione, organizzata dalla Pro Loco e patrocinata dall’ Ente Parco Regionale del Matese, invita tutti ad immergersi nella magia della festa più bella e rappresenta l’occasione per un viaggio alla scoperta di ricordi, sensazioni ed emozioni che riscaldano il cuore.

Mercatino di Natale nel borgo medievale di Ceppaloni – L’Associazione di Volontariato “Porta – Novella » organizza nel Borgo medioevale di Ceppaloni la 2° edizione del Mercatino di Natale. La manifestazione si articolerà nei giorni che vanno dal 5 all’8 dicembre con inizio alle ore 16.00.
Con cornice di spettacoli musicali, artisti di strada e zampogne si potranno visitare le botteghe ricche di prodotti enogastronomici ed artigianali.
Per i più piccoli è prevista la distribuzione di dolciumi e la presenza di apposita animazione. Ed ancora: caldarroste, vino novello, cioccolata per i più golosi e tante altre sorprese.

Tratto da: ilsussidiario.net

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La scienza che s’inchina alla vita

Posté par atempodiblog le 25 novembre 2009

In stato vegetativo per 23 anni Rom racconta la sua rinascita. Era dato per spacciato. Finché un neurologo lo ha sottoposto ripetutamente ad alcuni test. E ha scoperto che la vita pulsava.

La scienza che s’inchina alla vita dans Articoli di Giornali e News romj

Vivere, ed essere considerato morto. Piangere, gridare, e non avere nessuno, là fuori, che sente, o lo crede possibile. Questo orrore è toccato a Rom Houben, l’uomo che da ieri racconta la sua storia a tutto il mondo con la punta di un dito, attaccata alla tastiera del computer. Una tomba per corpo, una madre instancabile a portarlo dai medici di ogni dove, su Rom nessuno aveva scommesso. La scienza aveva archiviato il caso: « stato vegetativo permanente ». E quella cartella clinica, quella dicitura, erano bastate. Per ventitré anni.

Finché di mano in mano, di ospedale in ospedale, il verdetto è finito sotto gli occhi di un ricercatore tutto particolare, il neurologo belga Steven Laureys, uno di quelli che lo zoccolo duro del mondo accademico internazionale considera un po’ folle, forse anche troppo giovane (appena quarantenne com’è) per essere del tutto credibile.

Nella sua clinica di Liegi – all’avanguardia nello studio degli stati di compromissione di coscienza – Rom è stato sottoposto agli esami di routine: niente di troppo complicato, come ha spiegato lo stesso Laureys. «Semplici risposte a stimoli visivi, o motori». Per intenderci: segui la matita con lo sguardo, muovi la gamba destra, apri e chiudi gli occhi. Test fatti col paziente sul letto, senza macchinari. Gli stessi che a Rom erano già stati fatti in molte altre cliniche. Una sola differenza: a Liegi sono stati ripetuti. «È la variabile tra la Glasgow coma scale e la Coma recovery scale, due scale di metodo impiegate per effettuare diagnosi sui pazienti affetti da lesioni cerebrali – spiega lo stesso Laureys –. La prima, che è ancora la più diffusa e applicata nella fase acuta delle lesioni cerebrali, prevede che i test vengano effettuati una volta soltanto. La seconda, che ho personalmente integrato con delle modifiche, impone invece la ripetibilità dei test».

Così, se il primo giorno il paziente chiude gli occhi su richiesta, può essere una coincidenza, la cosa può essere sottovalutata o del tutto ignorata. Ma quattro o cinque giorni di seguito, no. E questa è stata la differenza tra la vita e la morte per Rom. O la « rinascita », come lui l’ha chiamata, perché «quando mi hanno sentito, si sono accorti di me, mi è sembrato come un parto, un venire alla luce di nuovo». Alla vita, per ricominciare, è bastato un medico che ripetesse un banalissimo test, un metodo scientifico che non si fermasse al « dogma » della prima risposta, la più facile.

Poi, certo, è arrivata la tecnologia. Rom è stato immediatamente sottoposto a Pet e risonanze magnetiche funzionali, che a Liegi come a Cambridge e in altre cliniche americane (ma non ancora in Italia) oggi vengono impiegate nello studio dei pazienti in stato vegetativo o di minima coscienza. E le risposte sono state ancora più chiare: altro che assenza di coscienza, l’uomo da ventitré anni si dibatteva in una beffarda declinazione della sindrome di « locked-in », che nel suo caso presentava caratteristiche a dir poco uniche: «Generalmente – spiega il fisico che affianca Laureys a Liegi, l’italiano Andrea Soddu, esperto proprio in risonanza magnetica funzionale – i pazienti in questo stato non presentano danni cerebrali, ma un infarto nel tronco encefalico che li rende del tutto incapaci di movimenti. Nel caso di Rom, invece, avevamo riscontrato danni cerebrali. Eppure lui c’era, era perfettamente cosciente, capiva e sentiva tutto quello che gli veniva detto».

L’emozione a Liegi – nel cuore del Belgio che ha detto sì all’eutanasia nel 2002 e in cui una media di 25 persone al giorno sceglie di morire nel caso di « coma irreversibile » – la conoscono bene: «Abbiamo avuto molti altri casi simili, e tutte le volte proviamo lo stesso senso di euforia – continua Soddu –. Scoprire segni di vita, e di coscienza, là dove gli occhi non li sanno leggere e persino la scienza li ha ignorati, toglie il fiato.

E cambia radicalmente la vita delle famiglie e dei pazienti che visitiamo: sapere di essere sentiti, per i pazienti trovare anche la minima via di comunicazione, basta».
Proprio come ha spiegato Rom, quando i medici gli hanno chiesto cosa pensava della qualità della sua vita (è destinato a rimanere sulla carrozzella e, probabilmente, a non riprendere mai più le sue funzionalità motorie): «La mia vita è bellissima. Adesso che gli altri sanno che sono vivo voglio leggere, parlare con gli amici, voglio approfittare della mia vita». Perché Rom la morte l’ha sperimentata ogni giorno, negli ultimi vent’anni, quando urlava e chiamava se le infermiere gli prendevano il polso, lo lasciavano andare e bisbigliavano «non c’è nessuna speranza», quando la madre lo accarezzava e lo imboccava col cucchiaio.

Come il suo, secondo Laureys ci sono dai 3mila ai 5mila casi ogni anno: «Persone che rimangono intrappolate in uno stadio intermedio, che vivono senza mai tornare indietro – spiega –. Persone su cui la scienza, in base a uno studio che abbiamo pubblicato qualche mese fa, sbaglia diagnosi nel 41% dei casi. E su cui è rischioso prendere decisioni se mancano informazioni il più possibile obiettive e corrette». A Laureys piace fare l’esempio di Galileo, che non avrebbe potuto scoprire tante cose sull’universo senza guardarlo attraverso la lente del suo cannocchiale: «Abbiamo bisogno di lenti, noi scienziati.

Di strumenti e tecniche sempre più affinate, di domande e spirito di ricerca mai sopiti. Questa è la vera sfida della scienza: non fermarsi, non dare mai nulla per scontato, non avere mai certezze indiscutibili».
Così la scienza « con le lenti » si è accorta della vita di Rom.

di Viviana Daloiso – Avvenire

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Cristo Re, al centro della storia e della civiltà

Posté par atempodiblog le 22 novembre 2009

Cristo Re, al centro della storia e della civiltà dans Citazioni, frasi e pensieri cristore

“Cristo è il punto focale dei desideri della storia e della civiltà, il centro del genere umano, la gioia d’ogni cuore”.

Benedetto XVI

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Affidamento alla Madonna

Posté par atempodiblog le 20 novembre 2009

Affidamento alla Madonna  dans Citazioni, frasi e pensieri santavergine

“L’affidamento alla Madonna è una via privilegiata, sperimentata da tanti santi, per una più fedele sequela del Signore. A Lei, dunque, affidiamoci”.  

Benedetto XVI

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Memoria della Beata Vergine della Medaglia miracolosa

Posté par atempodiblog le 20 novembre 2009

Memoria della Beata Vergine della Medaglia miracolosa dans Apparizioni mariane e santuari Madonna-Medaglia-miracolosa

Il 27 novembre si celebra la memoria della Beata Vergine della Medaglia miracolosa. E’ un’occasione per riflettere sulla bellezza del messaggio trasmesso attraverso S. Caterina Labouré, che così descrive l’apparizione:

«La sua statura era media e la sua bellezza tale che mi è impossibile descriverla. Stava in piedi, la sua veste era di seta color bianco-aurora… Dal capo le scendeva un velo bianco sino ai piedi. Aveva i capelli spartiti… Il viso era abbastanza scoperto… I piedi poggiavano sopra un globo, o meglio, sopra un mezzo globo… Sotto i piedi della Vergine un serpente verdastro chiazzato di giallo…».

«Le sue mani, elevate all’altezza della cintura, mantenevano in modo naturale un altro globo, più piccolo, che rappresentava l’universo. Ella aveva gli occhi rivolti al cielo e il suo voltò diventò risplendente, mentre presentava il globo a nostro Signore. Tutto ad un tratto le sue dita  si ricoprirono di anelli, ornati di pietre preziose, le une più belle delle altre, le une più grosse, le altre più piccole, le quali gettavano dei raggi gli uni più belli degli altri…».

«Mentre io ero intenta a contemplarla, la santissima Vergine abbassò gli occhi verso di me e intesi una voce che mi disse queste parole… “Sono il simbolo delle grazie che io spargo sulle persone che me le domandano”, facendomi così comprendere quanto è dolce pregare la Santissima Vergine e quanto Ella è generosa con le persone che La pregano; quante grazie Ella accorda alle persone che gliene cercano e quale gioia Ella prova nel concederle. [...]».

«Allora si fece sentire una voce che mi disse: “Fai coniare una medaglia su questo modello; tutte le persone che la porteranno, riceveranno grandi grazie, specialmente portandola al collo; le grazie saranno abbondanti per le persone che la porteranno con fiducia….”».

Descrivendo i pericoli futuri, la Santa Vergine ha esortato alla fiducia con queste parole: “Il momento verrà, il pericolo sarà grande, si crederà tutto perduto. Allora io sarò con voi”.

di Padre Livio Fanzaga

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San Giuseppe Moscati nella terra dei suoi avi

Posté par atempodiblog le 15 novembre 2009

San Giuseppe Moscati nella terra dei suoi avi dans Articoli di Giornali e News Blessed-Moscati

Un aspetto poco conosciuto della vita di Giuseppe Moscati è il legame con la sua terra “natale”. Argomento a noi caro perché nostra nonna paterna, Luisa Moscati, lo conosceva bene essendo sua cugina e coetanea.
Parlando di terra “natale” non ci riferiamo a Benevento, città in cui Giuseppe Moscati nasce nel 1880, e neppure a Napoli, città in cui si trasferisce con i genitori nel 1884 e in cui vive fino alla prematura morte nel 1927, bensì alla culla della famiglia Moscati, che è l’antichissimo paese di Santa Lucia di Serino, a sette chilometri dal capoluogo Avellino. Il borgo è situato sulla riva destra del fiume Sabato il quale dà il nome all’omonima ridente valle. Alle spalle dell’abitato troviamo, invece, i suggestivi monti di Serino con i loro ricchi boschi.

Famiglia gentilizia e cattolica
La famiglia Moscati, d’origine gentilizia, è presente in Santa Lucia di Serino sin dal sec. XVI e numerosi documenti la indicano già in tale epoca come ricca ed influente. Capostipite del casato è Palmiero Moscati (1480-1560), guarda caso medico come il suo virtuoso discendente!
Sarà suo pronipote Domenico (1608-1675), laureato in legge, ad abbellire ed ingrandire la sua dimora cinquecentesca che è poi quella in cui nasce nel 1836 il magistrato Francesco Moscati, padre di san Giuseppe. Nel 1867 l’apprezzato uomo di legge, nonché di profonda fede, è costretto, per motivi di lavoro, a lasciare l’amato paese natio, ma ogni anno vi torna in villeggiatura, con tutta la famiglia, per riassaporare piacevolmente le proprie radici.
Nel 1868, infatti, sposa donna Rosa De Luca dei marchesi di Roseto la quale gli dona nove figli. Uno di questi, l’ingegnere Eugenio, testimone al processo di canonizzazione del fratello Peppino, così li rammenta: «I nostri genitori furono ferventissimi cristiani e come prova vada la loro scrupolosità nell’educarci in grembo alla religione cattolica colla frequenza esatta dei doveri cristiani e con la recita quotidiana del santo rosario alla Madonna». Quale migliore esempio di santità, quindi, per il giovane Giuseppe, se non quello di mamma e papà?

Palazzo Moscati
Palazzo Moscati, a Santa Lucia di Serino, è una costruzione quadrata con un grande cortile interno. Uno scalone austero conduce al piano superiore ove il primo ambiente che s’incontra, dopo il pianerottolo sovrastato dallo stemma nobiliare, è un salone di attesa.
Qui troviamo una grande tela della Madonna del Carmine, protettrice della casata, e tre ritratti ad olio di antenati (l’amore di Giuseppe Moscati per la Vergine Maria sarà tale da fargli emettere il voto di castità proprio dinanzi a quella immagine della Madonna posta nella chiesa delle Sacramentiste, a Napoli, dove ogni giorno c’era l’esposizione del Santissimo Sacramento).
Durante i soggiorni a Santa Lucia di Serino il Santo occupa sempre la camera da letto più piccola, che è quella che dà sul primo balcone della facciata. A pian terreno della dimora troviamo una cappella gentilizia con ingresso dall’interno e dall’esterno del palazzo, in essa sono stati battezzati per secoli diversi esponenti della famiglia Moscati. Giuseppe, sin dall’infanzia, ama molto pregare nella cappella, custodire i suoi arredi sacri, ornarla di fiori e servire la Messa, la quale è sempre celebrata dal sacerdote Carmelo Moscati, da lui molto amato, nonché cugino di suo padre.
Nei giorni festivi, invece, il magistrato Moscati e famiglia partecipano al Sacro Rito celebrato nella stupenda chiesa settecentesca del Monastero delle Clarisse, ubicata a pochi metri dal palazzo. Ecco cosa dichiara suor Maria Chiarina Rossi: «Il signor presidente Francesco Moscati alcune volte serviva la Messa e godeva tanto di portar l’ombrello al Santissimo, quando si esponeva durante il mese di ottobre. Egli ed i ragazzi se ne stavano tutti inginocchiati a lungo come statue». In tale monastero si sono monacate molte antenate del Santo e ancor oggi si conservano i banchi dove in chiesa i Moscati si accomodavano.
Il luogo che il giovane Peppino più ama della dimora avita, dopo la chiesina, è indubbiamente il giardino sopraelevato che si trova dietro il palazzo. Da esso, infatti, può osservare con meraviglia la verdissima cerchia dei monti di Serino dominata dal monte Terminio (m.1786). E nel silenzio del suo giardino, a cui a 17 anni dedica una bella poesia dialettale, studia, prega e si diletta a coltivare piante e fiori.
Con il padre e i fratelli ogni giorno fa allegre passeggiate o lungo il fiume Sabato, o sui monti serinesi, o andando a far visita a parenti oppure raggiungendo la chiesa del Convento dei Padri francescani che dista da casa una mezz’ora.
Anche dopo la morte dell’amato genitore, il Medico Santo continua periodicamente a tornare nella terra dei suoi avi, terra che ha sempre nel cuore, pure quando si trova molto, molto lontano da essa. Per esempio il 20 luglio 1923, durante il suo viaggio di andata a Edimburgo attraverso la Francia, così annota sul suo diario: «…Attraversiamo delle valli chiuse da monti ricoperti di castagni (Borgone). Qua e là il nastro argenteo dei fiumi: come è simile questo paesaggio a quello indimenticabile di Serino, l’unico posto al mondo, l’Irpinia, ove volentieri trascorrerei i miei giorni, perché rinserra le più care, le più dolci memorie della mia infanzia e le ossa dei miei cari».

“Medico dei poveri”… povero per i poveri
Giuseppe Moscati non sceglie di diventare medico perché suggestionato dai lauti guadagni, bensì perché vuole aiutare i malati in quanto in essi scorge il Cristo sofferente. Il grande clinico Moscati, quindi, è povero, povero perché ciò che guadagna lo dà ai malati poveri, trattiene per sé giusto quel poco che gli basta per vivere! Tutti coloro che lo conoscono, con grande ammirazione, sono consapevoli di ciò. Agli infermi, inoltre, con amore e delicatezza, rammenta pure le “medicine” per “curarsi” l’anima… e quante anime aiuta, il dott. Moscati, in extremis, a salvarsi!
Quando Giuseppe Moscati, in età adulta, va “in campagna”, con questa espressione, infatti, chiama la terra dei suoi avi, lo accompagna di solito la sorella Nina, instancabile catechista e sempre pronta ad assecondare le sue opere caritative.
I due fratelli invero, sono molto uniti e a Napoli vivono insieme. Legatissimi a loro e anch’essi sinceramente credenti erano i cugini, tra cui nostra nonna paterna, Luisa Moscati; costei, una donna minuta e vispa, aveva avuto, per l’epoca, un’ottima formazione scolastica presso l’educandato del Monastero delle Clarisse.
Fino al 1910, anno in cui si sposa con nostro nonno (il farmacista Rocco Perrottelli di San Michele di Serino), vive con i suoi in un secondo palazzo Moscati, a Santa Lucia di Serino, ubicato a pochi metri da una graziosa seicentesca chiesetta dedicata a San Rocco. Nel 1902 i familiari del Santo elargiscono una generosa offerta per il suo restauro.

Scene di vita familiare
L’anno dopo Peppino si laurea, ma rinuncia a feste e a doni da parte dei suoi a condizione che la somma corrispondente venga versata per terminare i lavori di restauro di tale chiesetta. E così avviene! Peppino, quando si trova in paese, spesso va a pregare nella “sua” chiesetta di San Rocco, la quale, di solito, è chiusa, ma lui, avendo avuto la chiave dal rev. don Mariano De Luca, ha libero accesso.
Terminate le orazioni, va a far visita ai suoi cugini che abitano poco distante e sovente è raggiunto dalla sorella Nina. Vengono pertanto accolti con gioia dai nostri bisnonni, entrambi Moscati, da nostra nonna Luisa, la primogenita, e dai suoi sette fratelli. Tutti si radunano nel grande salotto di casa il quale, all’occorrenza, viene illuminato da artistici lumi a petrolio. In questo caso le pareti, rivestite di velluto rosso con piccoli ricami floreali in oro, assumono una calda tonalità che ben accompagna il clima d’affetto e di cordialità in cui si svolge l’incontro tra parenti.
Una volta accomodati su divani e poltrone, la conversazione inizia con il reciproco aggiornarsi sulle novità della città (Napoli) e quelle della campagna (il serinese). I più piccoli di casa intanto servono dolcetti fatti con antiche ricette di famiglia.
Dopo un po’Peppino si alza perché la “tentazione” è troppo forte… in fondo al salone infatti troneggia il pianoforte e lui, amando e conoscendo la musica, non resiste dall’andare a suonare allietando i presenti. Spesso, inoltre, su un grosso volume trascrive musica, trattasi di noti pezzi classici.
A volte poi, in età giovanile, si diverte a fare anche dei bei disegni umoristici che i cugini contenti conservano. Immancabile, infine, e bel tempo permettendo, la passeggiata nel grande giardino dei parenti dove il Santo, forse, si trova ancora più a suo agio in quanto è risaputo il suo amore per la natura.

Verso il Paradiso
Il 12 aprile 1927, martedì della Settimana Santa, improvvisamente, lasciando tutti costernati, “sorella morte” abbraccia il Medico Santo. Il cardinale di Napoli, Alessio Ascalesi, tra i primi a giungere alla camera ardente, si rivolge ai presenti con queste significative parole: «Il professore non apparteneva a voi, ma alla Chiesa. Non quelli di cui ha sanato i corpi, ma quelli che ha salvato nell’Anima gli sono andati incontro quando è salito lassù».
Il giorno del funerale una folla immensa e commossa si stringe attorno alla bara, il Municipio di Santa Lucia di Serino, culla del suo casato, invia una delegazione con l’antico gonfalone comunale.
Le spoglie del medico dei poveri, come sovente veniva chiamato già in vita Giuseppe Moscati, riposano a Napoli, nella chiesa del Gesù Nuovo. Tra i suoi scritti, in famiglia, abbiamo sempre pensato che uno più di tutti potesse riassumere lo stato d’animo che per una vita intera lo ha animato.
Eccolo (datato 17 ottobre 1922): «Ama la verità, mostrati qual sei, e senza infingimenti e senza paure e senza riguardi. E se la verità ti costa la persecuzione, e tu accettala; e se tormento, e tu sopportalo. E se per la verità dovessi sacrificare te stesso e la tua vita, e tu sii forte nel sacrificio».

Tratto da: Radici Cristiane

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San Giuseppe Moscati

Posté par atempodiblog le 15 novembre 2009

San Giuseppe Moscati dans Fede, morale e teologia San-Moscati-Giuseppe

Giuseppe Moscati nacque il 25 luglio 1880 a Benevento, settimo tra i nove figli del magistrato Francesco Moscati e di Rosa De Luca, dei marchesi di Roseto. Fu battezzato il 31 luglio 1880.
Nel 1881 la famiglia Moscati si trasferí ad Ancona e poi a Napoli, ove Giuseppe fece la sua prima comunione nella festa dell’Immacolata del 1888. Dal 1889 al 1894 Giuseppe compì i suoi studi ginnasiali e poi quelli liceali al  » Vittorio Emanuele « , conseguendovi con voti brillanti la licenza liceale nel 1897, all’etá di appena 17 anni. Pochi mesi dopo, cominciò gli studi universitari presso la facoltà di medicina dell’Ateneo partenopeo.

E’ possibile che la decisione di scegliere la professione medica sia stata in parte influenzata dal fatto che negli anni dell’adolescenza Giuseppe si era confrontato, in modo diretto e personale, con il dramma della sofferenza umana. Nel 1893, infatti, suo fratello Alberto, tenente di artiglieria, fu portato a casa dopo aver subito un trauma inguaribile in seguito ad una caduta da cavallo. Per anni Giuseppe prodigò le sue cure premurose al fratello tanto amato, e allora dovette sperimentare la relativa impotenza dei rimedi umani e l’efficacia dei conforti religiosi, che soli possono darci la vera pace e serenità. È comunque un fatto che, fin dalla più giovane età, Giuseppe Moscati dimostra una sensibilità acuta per le sofferenze fisiche altrui; ma il suo sguardo non si ferma ad esse: penetra fino agli ultimi recessi del cuore umano. Vuole guarire o lenire le piaghe del corpo, ma è, al tempo stesso, profondamente convinto che anima e corpo sono tutt’uno e desidera ardentemente di preparare i suoi fratelli sofferenti all’opera salvifica del Medico Divino.

Il 4 agosto 1903, Giuseppe Moscati conseguì la laurea in medicina con pieni voti e diritto alla stampa, coronando così in modo degno il  » curriculum  » dei suoi studi universitari. A distanza di cinque mesi dalla laurea, il dottor Moscati prende parte al concorso pubblico indetto per l’ufficio di assistente ordinario negli Ospedali Riuniti di Napoli; quasi contemporaneamente sostiene un altro concorso per coadiutore straordinario negli stessi ospedali, a base di prove e titoli. Nel primo dei concorsi, su ventun classificati, riesce secondo; nell’altro riesce primo assoluto, e ciò in modo così trionfale che – come si legge in un giudizio qualificato –  » fece sbalordire esaminatori e compagni ».

Dal 1904 il Moscati presta servizio di coadiutore all’ospedale degl’Incurabili, a Napoli, e fra l’altro organizza l’ospedalizzazione dei colpiti di rabbia e, mediante un intervento personale molto coraggioso, salva i ricoverati nell’ospedale di Torre del Greco, durante l’eruzione del Vesuvio nel 1906.

Negli anni successivi Giuseppe Moscati consegue l’idoneità, in un concorso per esami, al servizio di laboratorio presso l’ospedale di malattie infettive  » Domenico Cotugno « . Nel 1911 prende parte al concorso pubblico per sei posti di aiuto ordinario negli Ospedali Riuniti e lo vince in modo clamoroso. Si succedono le nomine a coadiutore ordinario, negli ospedali e poi, in seguito al concorso per medico ordinario, la nomina a direttore di sala, cioè a primario. Durante la prima guerra mondiale è direttore dei reparti militari negli Ospedali Riuniti. A questo  » curriculum  » ospedaliero si affiancano le diverse tappe di quello universitario e scientifico: dagli anni universitari fino al 1908, il Moscati è assistente volontario nel laboratorio di fisiologia; dal 1908 in poi è assistente ordinario nell’Istituto di Chimica fisiologica. Consegue per concorso un posto di studio nella stazione zoologica. In seguito a concorso viene nominato preparatore volontario della III Clinica Medica, e preposto al reparto chimico fino al 1911. Contemporaneamente, percorre i diversi gradi dell’insegnamento.

Nel 1911 ottiene, per titoli, la Libera Docenza in Chimica fisiologica; ha l’incarico di guidare le ricerche scientifiche e sperimentali nell’Istituto di Chimica biologica. Dal 1911 insegna, senza interruzioni,  » Indagini di laboratorio applicate alla clinica  » e  » Chimica applicata alla medicina « , con esercitazioni e dimostrazioni pratiche. A titolo privato, durante alcuni anni scolastici, insegna a numerosi laureati e studenti semeiologia e casuistica ospedaliera, clinica e anatomo-patologica. Per vari anni accademici espleta la supplenza nei corsi ufficiali di Chimica fisiologica e Fisiologia. Nel 1922, consegue la Libera Docenza in Clinica Medica generale, con dispensa dalla lezione o dalla prova pratica ad unanimità di voti della commissione.

Celebre e ricercatissimo nell’ambiente partenopeo quando è ancora giovanissimo, il professor Moscati conquista ben presto una fama di portata nazionale ed internazionale per le sue ricerche originali, i risultati delle quali vengono da lui pubblicati in varie riviste scientifiche italiane ed estere. Queste ricerche di pioniere, che si concentrano specialmente sul glicogeno ed argomenti collegati, assicurano al Moscati un posto d’onore fra i medici ricercatori della prima metà del nostro secolo.

Non sono tuttavia unicamente e neppure principalmente le doti geniali ed i successi clamorosi del Moscati – la sua sicura metodologia innovatrice nel campo della ricerca scientifica, il suo colpo d’occhio diagnostico fuori del comune – che suscitano la meraviglia di chi lo avvicina. Più di ogni altra cosa è la sua stessa personalità che lascia un’impressione profonda in coloro che lo incontrano, la sua vita limpida e coerente, tutta impregnata di fede e di carità verso Dio e verso gli uomini. Il Moscati è uno scienziato di prim’ordine; ma per lui non esistono contrasti tra la fede e la scienza: come ricercatore è al servizio della verità e la verità non è mai in contraddizione con se stessa né, tanto meno, con ciò che la Verità eterna ci ha rivelato. L’accettazione della Parola di Dio non è, d’altronde, per il Moscati un semplice atto intellettuale, astratto e teorico: per lui la fede è, invece, la sorgente di tutta la sua vita, l’accettazione incondizionata, calda ed entusiasta della realtà del Dio personale e dei nostri rapporti con lui. Il Moscati vede nei suoi pazienti il Cristo sofferente, lo ama e lo serve in essi. È questo slancio di amore generoso che lo spinge a prodigarsi senza sosta per chi soffre, a non attendere che i malati vadano a lui, ma a cercarli nei quartieri più poveri ed abbandonati della città, a curarli gratuitamente, anzi, a soccorrerli con i suoi propri guadagni. E tutti, ma in modo speciale coloro che vivono nella miseria, intuiscono ammirati la forza divina che anima il loro benefattore. Così il Moscati diventa l’apostolo di Gesù: senza mai predicare, annuncia, con la sua carità e con il modo in cui vive la sua professione di medico, il Divino Pastore e conduce a lui gli uomini oppressi e assetati di verità e di bontà. Mentre gli anni progrediscono, il fuoco dell’amore sembra divorare Giuseppe Moscati. L’attività esterna cresce costantemente, ma si prolungano pure le sue ore di preghiera e si interiorizzano progressivamente i suoi incontri con Gesù sacramentato.

Quando, il 12 aprile 1927, il Moscati muore improvvisamente, stroncato in piena attività, a soli 46 anni, la notizia del suo decesso viene annunciata e propagata di bocca in bocca con le parole:  » È morto il medico santo « . Queste parole, che riassumono tutta la vita del Moscati, ricevono oggi il suggello ufficiale della Chiesa.

Il Prof. Giuseppe Moscati è stato beatificato da S. S. Paolo VI nel corso dell’Anno Santo, il 16 novembre 1975.

Fonte: vatican.va

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San Procolo

Posté par atempodiblog le 15 novembre 2009

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Le notizie più antiche sul martirio di San Gennaro, risalgono alla cosiddetta passio bolognese, perché conservata nel codice 1473 della Biblioteca Universitaria di Bologna del 1180.
Secondo questa narrazione, Procolo, diacono della comunità cristiana puteolana sarebbe stato martirizzato nell’anno 305 nel corso della persecuzione voluta dall’imperatore Diocleziano.
Da questi scritti si apprende che il vescovo di Benevento Gennaro si era recato a Pozzuoli per visitare il diacono Sosso di Miseno, incarcerato per aver difeso il proprio vescovo.
Anche Gennaro fu incarcerato perché confessò di essere cristiano e vescovo, stessa sorte subirono il diacono Festo e il lettore Desiderio anch’essi di Benevento. I quattro furono condannati alla decapitazione. Il diacono puteolano Procolo e i laici Eutiche e Acuzio anch’essi di Pozzuoli vennero incarcerati e condannati perché avevano preso le difese dei compagni di fede.
I sette cristiani subirono la decapitazione nei pressi della Solfatara in un luogo dove verso la fine del VI secolo venne eretta una chiesa in onore di san Gennaro.
Secondo la tradizione popolare i sette martiri furono prima rinchiusi nelle celle dell’anfiteatro Flavio in quanto erano stati condannati ad essere divorati dalle belve nel corso di uno dei tanti spettacoli che si svolgevano nell’arena puteolana. Qui, però, avvenne il miracolo, per cui gli animali si inginocchiarono al cospetto dei sette condannati. Perciò furono trasferiti nel Foro dove il Magistrato giudicante li condannò alla decapitazione. Il corpo del martire Procolo fu sepolto, stando alle fonti, nel pretorio di Falcidio che dovrebbe trovarsi nei pressi della necropoli di via Celle.
Il nome Proculus è molto ricorrente nella lingua latina, ed è riferito al figlio nato mentre il padre era lontano.
La festività di san Procolo veniva celebrata il 18 ottobre ma, fu poi spostata, con decreto della Sacra Congregazione dei Riti del 10 dicembre 1718, al 16 novembre in quanto ad ottobre, molti puteolani erano impegnati nei lavori dei campi.
Le reliquie del Santo, insieme ad altre di san Gennaro e di sant’Eutiche, secondo alcune fonti storiche, sarebbero state trafugate nell’anno 871 e portate nell’isola di Reichenau sul lago di Costanza, dove furono conservate in una delle basiliche di questa città.
Una parte delle reliquie del martire puteolano furono riconosciute e recuperate grazie alle ricerche di Monsignore Antonio Gutler, confessore della regina di Napoli Maria Carolina. Le reliquie di san Procolo furono riportate a Pozzuoli il 13 maggio 1781. Da allora la città di Pozzuoli e la Diocesi, con solenni festeggiamenti rievocano il ritorno dei resti mortali di san Procolo nella città natale. Nella seconda domenica di maggio, le reliquie e il busto argenteo del Santo martire vengono portate in solenne processione per le vie della città, insieme al busto marmoreo di san Gennaro e a quello ligneo di san Celso, antico vescovo di Pozzuoli.
La comunità cristiana di Puteoli venerò quasi da subito, il martire Procolo, come principale patrono della città e della diocesi. Tra la fine del V e gli inizi del VI secolo, al Santo fu dedicato, come chiesa, lo splendido edificio marmoreo che il ricco mercante Lucio Calpurnio aveva fatto erigere in onore dell’imperatore Ottaviano Augusto. Soprattutto per merito del vescovo Martin de Leon y Cardenas (1631-1650), questa costruzione divenne una Cattedrale degna delle antiche tradizioni apostoliche di Pozzuoli. Purtroppo questo tempio venne completamente distrutto da un incendio, nella notte tra il 16 e il 17 maggio 1964, e da allora, la chiesa del Carmine svolge le funzioni di Cattedrale della città di Pozzuoli, e dal 1995 la moderna chiesa di San Paolo apostolo, nel nuovo quartiere di Monterusciello è stata elevata a concattedrale.

Antonio Parrino – Nuova guida de’ Forastiero. Napoli, 1750.
Fonte: comune.pozzuoli.na.it

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La pace verrà

Posté par atempodiblog le 15 novembre 2009

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LA PACE VERRA’

Se tu credi che un sorriso è più forte di un’arma,

Se tu credi alla forza di una mano tesa,

Se tu credi che ciò che riunisce gli uomini è più importante di ciò che li divide,

Se tu credi che essere diversi è una ricchezza e non un pericolo,

Se tu sai scegliere tra la speranza o il timore,

Se tu pensi che sei tu che devi fare il primo passo piuttosto che l’altro, allora…

LA PACE VERRA’

Se lo sguardo di un bambino disarma ancora il tuo cuore,

Se tu sai gioire della gioia del tuo vicino,

Se l’ingiustizia che colpisce gli altri ti rivolta come quella che subisci tu,

Se per te lo straniero che incontri è un fratello,

Se tu sai donare gratuitamente un po’ del tuo tempo per amore,

Se tu sai accettare che un altro, ti renda un servizio,

Se tu dividi il tuo pane e sai aggiungere ad esso un pezzo del tuo cuore, allora…

LA PACE VERRA’

Se tu credi che il perdono ha più valore della vendetta,

Se tu sai cantare la gioia degli altri e dividere la loro allegria,

Se tu sai accogliere il misero che ti fa perdere tempo e guardarlo con dolcezza,

Se tu sai accogliere e accettare un fare diverso dal tuo,

Se tu credi che la pace è possibile, allora…

LA PACE VERRA’

Beato Charles de Foucauld

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La fede è una forza spirituale

Posté par atempodiblog le 14 novembre 2009

La fede è una forza spirituale dans Citazioni, frasi e pensieri benxvi

“La fede è una forza spirituale che purifica la ragione nella ricerca di un ordine giusto, liberandola dal rischio sempre presente di venire ‘abbagliata’ dall’egoismo, dall’interesse e dal potere”.

Benedetto XVI

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La chiesa di Francia perde peso in Vaticano e seminaristi nelle diocesi

Posté par atempodiblog le 14 novembre 2009

La chiesa di Francia perde peso in Vaticano e seminaristi nelle diocesi
di Paolo Rodari – paolorodari.com

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Roma. E’ di tre giorni fa un pezzo del Monde in cui si sosteneva come la chiesa di Francia, quella delle gerarchie, abbia perso gran parte della propria influenza sul governo della curia romana. Questione di numeri anzitutto: in pensione i cardinali Roger Etchegaray e Paul Poupard, l’unico capo dicastero francese rimasto è Jean-Louis Tauran, presidente del pontificio consiglio per il Dialogo interreligioso. Poi, è vero, ci sono Dominique Mamberti e Jean-Louis Bruguès ma entrambi – corso il primo, della Francia pirenaica il secondo – sono posti sì prestigiosi ma di seconda fascia che ricoprono in curia: segretario per i rapporti con gli stati Mamberti e segretario dell’Educazione cattolica Bruguès. Se il Monde abbia ragione è difficile dirlo. Di certo c’è che, valutazione del peso sulla curia romana a parte, è tutta la chiesa d’oltralpe che non sta passando uno dei suoi momenti migliori, almeno a leggere i numeri. Pesanti i dati 2008 (quelli 2009 usciranno tra qualche settimana). I sacerdoti diocesani sono solo 15 mila e l’età media supera i 75 anni. Ogni anno ne vengono ordinati circa 100 mentre 900 muoiono o abbandonano. In alcune diocesi le parrocchie vengono raggruppate in “aggregazioni” dove capita che un unico prete serva dieci, venti o anche quaranta chiese. Ci sono diocesi che tra una decina di anni avranno non più di dieci preti in attività.

Il dato più preoccupante riguarda i seminaristi: erano 4.536 nel 1966, sono poco più di 500 oggi: diocesi come Pamiers, Belfort, Agen, Perpignan non hanno avuto alcuna vocazione. Le ordinazioni restano pochissime: dopo il Concilio Vaticano II, il numero è lievitato spaventosamente verso il basso: erano 825 i preti ordinati nel 1956, sono stati circa 90 nel 2008.

Assieme a tutte le diocesi, piange anche Parigi. Era considerata un’eccezione nel panorama francese: una chiesa prospera, un seminario fiorente, le finanze in attivo. Erano gli anni 80-90, gli ultimi da grandeur: l’asse Wojtyla-Lustiger (ex arcivescovo di Parigi) produsse nella capitale un fiorire di vocazioni. Parigi aveva un clero giovane e numeroso. Oggi – ancora dati 2008 – si contano circa 50 seminaristi, dieci le ordinazioni ogni anno (se ne prevedono sette nel 2010 e quattro nel 2011).

Dal punto di vista dei fedeli la situazione non è migliore. Il calo della pratica religiosa, considerevole negli anni 70, continua in modo inesorabile. I praticanti sono molto scarsi (quattro per cento se essere “praticanti” è andare in chiesa una volta al mese) e di età relativamente matura. Resistono – ed è questo un dato che fa pensare – i movimenti (Emmanuel, Frères de Saint-Jean, Communauté Saint-Martin) e soprattutto i gruppi tradizionalisti. Già oggi circa un terzo del totale dei seminaristi francesi proviene da queste comunità: con 388 luoghi di culto domenicali, più di quattro per diocesi, la sensibilità tridentina fa sentire il proprio peso. A molto ha giovato, paradossalmente, un certo modo “lassista” d’interpretare il Concilio. A fronte d’una chiesa troppo aperta verso le sirene del mondo, se ne è creata di fatto un’altra che questa mondanizzazione non ha mai voluto accettare. E oggi è proprio quest’altra – appunto la cosiddetta chiesa tradizionalista – a rappresentare una speranza. Non è la chiesa lefebvriana. E’ una chiesa che con lo scisma di Econe non c’entra nulla. Dentro era e dentro resta la chiesa cattolica, seppure con una propria specifica sensibilità. Nel 2008 i seminaristi di queste comunità sono stati 160: più o meno un terzo del numero totale dei seminaristi diocesani. E i numeri sono in aumento.

Sono dati che fanno riflettere, a tratti anche impaurire. Sentimenti diversi, presenti all’interno dell’episcopato francese adunato a Lourdes per l’assemblea generale: lui, l’episcopato francese (gran parte di esso), è stato tra i più strenui oppositori del Motu proprio “Summorum Pontificum”. Loro, le comunità tradizionaliste, quelle che l’hanno maggiormente benedetto, perché con più forza le ha confermate in ciò che sono: parte della chiesa cattolica. E l’episcopato, numeri alla mano, prima o poi dovrà rendergliene atto.

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