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Mino Favini

Posté par atempodiblog le 16 avril 2009

Per molti calciatori è lui il vero “special one”. Quarant’anni passati a sfornare campioni che sono innanzitutto uomini. Vita e pensiero di un mister che i talenti non li scopre, li educa
di Enzo Manes – Tempi

Il responsabile delle giovanili dell’Atalanta che ha riempito l’Italia dei suoi allievi. Prandelli, Borgonovo e Zambrotta, per esempio

Mino Favini dans Sport favini

«Ho iniziato al settore giovanile del Como nel ’68. Proprio nell’anno che si voleva rovesciare il mondo, che si voleva buttare via l’autorità, i genitori, tutto. Invece io mi sono messo a tirare su ragazzi scommettendo sull’importanza dell’educazione nel calcio. Ma allora mica lo sapevo che ci avrei speso la vita in quel lavoro lì». Mino Favini, classe 1935, è uno “special one” che non viene da Setúbal. L’ha chiamato apposta così Cesare Prandelli, che ora fa il mister a Firenze ma si è forgiato sulla panchina delle giovanili bergamasche. Brianzolo di Meda, solido e vivo come il legno che viene piallato dalle sue parti per diventare mobile invidiato, Favini, dopo vent’anni trascorsi in riva al Lario, ne ha passati ormai altrettanti a seminare con la stessa soddisfazione all’Atalanta. Nella sua testa un chiodo fisso dove sta appeso un quadro che raffigura una grande passione legata alla disciplina sportiva: «La riuscita calcistica e della persona devono andare di pari passo. Bisogna tenerci ai ragazzi, preoccuparsi della loro maturazione in un rapporto serio e di fiducia. Perché si sa che non tutti ce la fanno a diventare calciatori professionisti, ma tutti devono farcela a diventare uomini. Se non succede così, per me è una sconfitta».
L’ufficio di Favini è nel cuore del Centro Bortolotti, quartier generale dell’Atalanta bergamasca calcio in quel di Verdellino, territorio tipico della Bassa orobica. Sulla scrivania l’immancabile quotidiano sportivo e fogli a go-go zeppi di geroglifici che solo lui riesce a interpretare. Alle spalle e sulle pareti tracce di memoria tra trofei e fotografie incorniciate come meritano. «Le coppe sono importanti, certo, però quando alzo gli occhi e vedo davanti a me le foto delle mie squadre, bè, è un piacere straordinario», dice a Tempi un signore che fa ancora i suoi bei chilometri («perché continuo a vivere nella mia Meda con mia moglie che ho conosciuto quando giocavo a Brescia. Sua sorella ha sposato Eugenio Bersellini, grande allenatore») e che lavora sette giorni su sette («il sabato e la domenica sempre, magari mi prendo una pausa solo il lunedì pomeriggio. Sa, qui ci sono tante cose da fare, tanti ragazzi da seguire con affetto»). Il settore giovanile dell’Atalanta viene innervato ogni anno di 2 milioni e 800 mila euro. Comprende undici squadre, dalla scuola calcio per i pulcini fino alla Primavera, cioè all’anticamera della squadra dei vari Doni, Cigarini, Ferreira Pinto e Floccari. In tutto fanno 230 ragazzi, un plotone di calciatori che desidera arrivare lontano, molto lontano. Tutti i santi giorni 12 pulmini della società vanno a prenderli e li riportano nei loro paesi. «Per quelli che vengono da altre regioni, ovvero una ventina di ragazzi, abbiamo creato “La casa del giovane”, quello che io chiamo un paese all’interno della città di Bergamo. In sintonia con le famiglie li seguiamo passo per passo e prima di tutto nel loro cammino scolastico. Di là ho le pagelle del primo quadrimestre insieme alle schede aggiornate con tutti i voti».
Non mancano gli 8 in campionato e i 4 in matematica, «ma ci sono pure medie eccellenti sia in campo e sia sui banchi», spiega il supermister. «Quelli che vanno male a scuola provano a dirci che “con lo studio ho chiuso”. Noi che non intendiamo lasciarli da soli di fronte alle prime difficoltà che incontrano li sosteniamo e spesso questa attenzione veramente personale li fa ricredere. Poi è chiaro che ci sono ragazzi che non riescono proprio nello studio. In quel caso, se sono giocatori interessanti, non è che li mandiamo via, però diciamo loro con chiarezza che il pezzo di carta è sempre il pezzo di carta».
Anche Mino Favini è stato un ragazzo, un piccolo calciatore che sarebbe diventato poi un professionista in serie B e anche per tre anni in A con i colori nerazzurri dell’Atalanta. Ed è stato uno studente che al quarto anno di ragioneria è uscito bocciato a giugno. «Sono andato dai miei genitori e ho spiegato loro che non volevo più andare a scuola ma trovarmi un lavoro e giocare a pallone. Al momento non mi hanno risposto. Il mattino successivo ho trovato davanti alle scale la borsa del calcio con mia mamma che mi diceva: “Oggi vengo anch’io per dire al tuo allenatore che smetti col calcio perché non vuoi più studiare”. Naturalmente ho continuato a giocare e l’anno successivo ho preso il diploma di ragioniere». I genitori sono un cruccio per Mino Favini. Perché vedono nei loro figli solo il Maradona della Val Brembana, lo Zidane della Val Seriana, il Kakà di Bergamo alta, tanto per dire l’assurdo. «Gli montano la testa a quei poveri figlioli. Poi è dura per noi ridare alle cose il loro giusto valore. Di tornare con i piedi per terra spesso i ragazzi non ne vogliono sapere. E così si comportano male, con i compagni, con l’allenatore, con i responsabili».

Il coraggio di Stefano
Mister Favini racconta di quella volta che non ha fatto andare un suo giocatore nella nazionale under 17. La madre, anziché sostenere la sua decisione, gli ha urlato a brutto muso che lui doveva occuparsi solo del calciatore e basta. «Così mi sono trovato contro, oltre che il ragazzo, pure la famiglia. Dal punto di vista educativo così non va. Dentro un rapporto dobbiamo comunque far valere delle regole di comportamento, altrimenti è un disastro». E quanto lo infastidiscono quei papà e quelle mamme che strepitano dalle gradinate durante le partite, che in fondo non sono la finale di Champions League. «Bisogna tapparsi le orecchie per non sentirli. Sono degli assatanati, dei professionisti della maleducazione. Il guaio è che i ragazzi che giocano sentono tutto e di tutto. Il mio consiglio? Cari genitori, se non ce la fate a contenervi statevene a casa che è meglio e soprattutto è più sano per i vostri figlioli. Ma questo è un invito che cade spesso nel vuoto». Lui, il Favini, ha escogitato il sistema perfetto per mettersi al riparo dalla pratica dello strillo sguaiato. Quando le squadre giovanili giocano in casa le osserva da dietro una finestra della palestrina che si colloca a pochi metri dal campo di gioco. Lì non lo disturba proprio nessuno. E può osservare bene e magari capire se in campo può sbocciare un nuovo talento, un giocatore per la serie A.
Quanti ne ha lanciati questo giovanotto di 73 anni. A Como un tale Zambrotta, campione del mondo. E un tale Stefano Borgonovo. «Lo sa che dal Seregno doveva finire al Milan? Invece suo papà mi disse che preferiva mandarlo al Como perché si sarebbe allenato sui campi di Orsenigo, un paese molto più vicino a casa sua. Ogni tanto vado a trovarlo lo Stefano. Sono contento che sia riuscito a superare l’ostacolo, la tentazione di chiudersi del tutto agli altri. Ha avuto un coraggio incredibile. Ed ha una famiglia d’oro». Quanti campioni ha lanciato Favini a Bergamo. Basta guardare all’under 21, dove in porta c’è un certo Consigli, di formazione calcistica bergamasca. E alla nazionale di Lippi. «Montolivo, Pazzini, Motta: grandi giocatori e ragazzi a posto, educati, che non mi hanno mai creato alcun problema. Mi chiamano spesso. Mi raccontano. Mi trattano come se il tempo non fosse mai passato. E io sono contento che sia andata così».

Procuratori troppo famelici
Non vuole saperne di procuratori e di società che saccheggiano ragazzini sventolando profumati assegni anche di 80 mila euro. «Non è possibile quel continuo viavai di personaggi che hanno in mente solo il denaro. Non voglio generalizzare, però la categoria è abitata da molti individui col pelo sullo stomaco. Di recente ben cinque procuratori si sono presentati a casa di un ragazzetto di 13 anni prospettandogli chissà quale mecca del calcio. E purtroppo non sempre i genitori riescono a comprendere la gravità di quelle avance, il terribile inganno umano». E ricorda di tre “furti” clamorosi sopportati dalla sua Atalanta. Samuele Dalla Bona, finito al Chelsea ad appena 16 anni; tre anni fa il portiere Vito Mannone, adesso all’Arsenal, dove fa il terzo portiere; e due anni orsono Marco Sala, un ragazzo del ’91, sempre alla corte dei Gunners. «Non è giusto che una società che investe sul settore giovanile veda scappare alcuni suoi gioielli prima che possano essere messi a regolare contratto. Con Dalla Bona, che è stato il primo della lista, mi sono arrabbiato moltissimo. Poi abbiamo fatto pace, mi ha detto che avevo ragione io, che quel passaggio era stato davvero prematuro».
Sono le 15 è il tempo del campo. Oggi è in programma una gara di campionato fra gli allievi regionali di Atalanta e Como, il passato e il presente di Mino Favini. Il terreno è tirato a lucido. Lui, il responsabile del settore giovanile, sparisce di colpo prima che l’arbitro fischi l’inizio. Ne scorgiamo la visiera del cappello che sbuca da una finestra sottolineata da sbarre amichevoli. Se ne starà lì per tutta la gara. Dove, chissà, avrà forse inquadrato qualche talento in nuce. Qualche campioncino in erba da sfornare a tempo debito. Sfornare, già. Un verbo che al Favini è familiare. Dal sapore antico, dal profumo genuino. «I miei avevano una panetteria a Meda, in via Cristoforo Colombo. Anch’io in bottega ho imparato a fare il pane. La mia michetta poi era qualcosa di invidiabile. Semplice e buona». Una michetta ben cotta. Educata.

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I nuovi cattolici

Posté par atempodiblog le 16 avril 2009

Storie di una generazione che “tradisce” l’educazione sessantottina all’ateismo e all’indifferenza per abbracciare la Chiesa
di Lorenzo Fazzini – Tempi

I nuovi cattolici dans Articoli di Giornali e News chiesa

«Fino a 20 anni non mi sono mai fatto nessuna domanda su Dio: i miei genitori, gente del Sessantotto, non mi avevano battezzato: loro non hanno mai praticato, sono credenti in maniera formale. Non mi hanno fatto battezzare perché, mi dicevano, “non vogliamo importi niente”. Per me Dio non esisteva, la Chiesa si basava su cose non tangibili. Poi ho iniziato ad avvertire un desiderio di qualcosa che mi riempisse la vita. Alcuni incontri mi hanno cambiato: ad esempio quello con il parroco della chiesa di San Lazzaro che ha iniziato a parlarmi del Vangelo. L’annuncio di Cristo mi ha messo in crisi, in particolare quella frase: “Io sarò sempre con voi”, cioè la vicinanza di Dio a chi è lontano». Daniele, 25 anni, studente di Fisica a Padova, è un neofita, battezzato nella veglia di Pasqua del 2007.
«Durante l’adolescenza gli amici mi prendevano in giro perché ero una “comunista”, non battezzata. I miei, battezzati, avevano lasciato libere me e mia sorella e anche i nostri due fratelli più piccoli, anche se ci hanno sempre educati alla generosità. La Bibbia non sapevo cosa fosse, per me Pasqua era semplicemente la festa in cui si aprono le uova di cioccolato. Però, crescendo, sentivo un’inquietudine. Poi una compagna di università mi ha invitato ad un ritiro tenuto da francescani. Lì un frate mi ha parlato di Dio Padre e del suo amore per me. E ho iniziato a pregare. Allora ho capito cos’era quell’inquietudine che mi portava a tenere un diario di cose mie e raccontare tutto a un “Tu”». Elisa ha 26 anni, abita a Verona, è medico specializzanda in ginecologia. Due anni fa è stata battezzata nella chiesa di San Bernardino nel capoluogo scaligero. Sua sorella Chiara, 24 anni, educatrice, ha seguito il suo esempio un anno dopo. «Anche se all’inizio la scelta di Elisa mi faceva rabbia», racconta Chiara, diventata cristiana durante la veglia pasquale dell’anno scorso.
Analoga l’educazione all’insegna della “libertà di scelta” ricevuta da Eva, 27 anni, figlia di genitori cristiani poi allontanatisi dalla fede. «Quando sono nata – racconta – hanno preferito non battezzarmi per lasciare a me la scelta una volta raggiunta la maturità». La laurea in storia dell’arte alla Cattolica di Milano e poi la decisione che meditava da tempo: quella di intraprendere il percorso per il battesimo. «Pur non essendo battezzata, sono sempre stata credente, quindi sentivo che mi mancava qualcosa che lo ufficializzasse». L’ufficializzazione è arrivata durante la scorsa veglia di Pasqua, quando Eva ha ricevuto Battesimo, Eucaristia e Cresima dalle mani del cardinale di Milano Dionigi Tettamanzi.
Daniele, Elisa, Chiara, Eva. Non sono solo mosche bianche in un’Italia che assiste a un ritorno nella Chiesa dei “nipoti del Sessantotto”. I figli di quei genitori degli anni Settanta che hanno fatto della libertà un totem intoccabile oggi domandano di diventare cattolici. I dati confermano che sono in aumento i nostri connazionali che, non avendo ricevuto da neonati il Battesimo (una pratica andata in crisi nel post Concilio) ora domandano l’ammissione alla Chiesa. «Molti catecumeni hanno come retroterra di esperienza il ’68» conferma don Andrea Lonardo, responsabile dell’ufficio catechistico del vicariato di Roma, che coordina il cammino dei nuovi cattolici nella Capitale. «Ho incontrato figli di molti anticlericali, anche di intellettuali. Arrivano al Battesimo in modi diversi: alcuni da movimenti come Comunione e Liberazione o i Neocatecumenali, la maggior parte da percorsi autonomi. Ogni anno a Roma abbiamo una media di 110 battesimi di adulti all’anno, metà stranieri metà italiani: ci sono giovani universitari o persone sui 40-50 anni». «Il fenomeno dei catecumeni italiani non è nuovo» spiega don Gianandrea Di Donna, che guida il settore catecumenato della diocesi di Padova. «I numeri sono aumentati, non sono altissimi ma ci sono». Guardiamo all’esempio della città veneta: nel settembre 2008 hanno iniziato l’iter verso il Battesimo 33 adulti, di cui 10 italiani; nel 2007 erano 24, con 4 “indigeni”. Nel 2006, 23 aspiranti battezzandi di cui 6 italiani. Attualmente, a Padova sono in cammino verso il Battesimo 80 uomini e donne, di cui 15 italiani. Il trend è positivo anche a Milano. «Da poche decine di catecumeni siamo passati a centinaia» sottolinea don Paolo Sartor, referente dell’arcidiocesi di Milano per i “nuovi cattolici”. Quest’anno saranno 153 i catecumeni che verranno battezzati dal cardinal Tettamanzi a Pasqua. «Il numero degli adulti che si battezzano è in lieve crescita anche da noi. O come diceva il cardinal Martini: “Sono molti, anche a Milano, coloro che passano il largo confine tra l’ombra e la luce”».

Un percorso lungo che non si fa da soli
La conferma arriva dalla Conferenza episcopale italiana, come certifica don Guido Benzi, direttore dell’ufficio catechistico della Cei, che ogni anno raccoglie cifre e numeri delle 223 diocesi italiane in tema di battesimi di adulti. «Siamo passati dai 1044 battesimi del 2005 ai 1302 battesimi del 2007. Di questi ultimi 535 sono uomini e 773 donne» annota. Di questi, 543 catecumeni sono italiani e 727 immigrati. Quindi non sono solo gli stranieri che si stabiliscono in Italia a chiedere di entrare nella Chiesa, in parte perché scoprono la fede cristiana ab origine, in parte perché trovano nella comunità cattolica un ulteriore elemento di integrazione sociale. Esiste, ed è ampio, anche l’incremento dei catecumeni italiani. Ribadisce don Lonardo di Roma: «Da un paio di anni a questa parte le cifre dei catecumeni italiani sta aumentando anche nella Capitale». Il responsabile della Cei traccia poi una sorta di profilo del “nuovo cattolico italiano”: «Emerge l’identikit di persone prevalentemente tra i trenta e i cinquant’anni rappresentative di tutti i ceti sociali. Nel 2007 la regione con il maggior numero di battesimi è stata la Lombardia, seguita a ruota da Toscana, Lazio, Emilia-Romagna e Sicilia».
Ma come si diventa cattolici da adulti nell’Italia del 2009? «Il cammino del catecumenato non è un percorso facilissimo – annota don Benzi. Dopo un periodo di preparazione la persona viene affidata ad un “accompagnatore” che la aiuta nella conoscenza della fede cristiana, nella lettura della Parola di Dio, nella preghiera e nella conoscenza della vita della Chiesa. Questo periodo può durare anche due anni. C’è poi un cammino specifico, normalmente nell’ultimo anno, ritmato anche da alcuni “passaggi” che sono fissati nel rito dell’iniziazione cristiana degli adulti. Di norma il Battesimo, la Confermazione e l’Eucaristia dell’adulto vengono celebrate dal vescovo in cattedrale nella notte di Pasqua».
I modi di arrivare al fonte battesimale sono diversi, ma «un dato costante è l’incontro con altri battezzati (colleghi di lavoro, amici operatori in associazioni di volontariato, vicini di casa) che testimoniano la fede», annota don Benzi della Cei. «Interessante è come la persona del parroco non sia marginale al cammino che conduce alla decisione di diventare cristiani. Insomma si ha l’impressione di un lavorio silenzioso e tenace dello Spirito che conduce le persone attraverso gli ordinari fatti e luoghi della vita alla scoperta della fede e del volto di Gesù». «Un’esperienza particolare, l’incontro con un sacerdote, un periodo di sofferenza: in mezzo a tali vicende queste persone iniziano a porsi il problema di Dio e del senso della vita» spiega don Di Donna di Padova. «E incontrano la risposta nella persona di Cristo. Non ho mai trovato motivazioni banali nei catecumeni adulti, ma il senso di qualcosa che manca, che non si trova nell’ordinario». Sottolinea don Benzi: «È come se questo tessuto delicato ma resistente di relazioni positive ed autentiche, di aiuti, testimonianze e incontri non possa essere registrato nei paludati salotti di certa cultura».
«Il profeta Geremia scrive: “Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre”. Ecco, è stata questa la sensazione che ho provato con Dio», spiega Daniele Dequal, padovano, battezzato a 23 anni dopo l’incontro decisivo con la comunità Nuovi Orizzonti fondata a Roma da Chiara Amirante. «Le mie resistenze sono state travolte da questo Amore, come se io fossi stato cercato da Dio e il contrario». Dopo un cammino di catecumenato durato 18 mesi Daniele ha ricevuto il battesimo nel 2007.

La fidanzata che voleva sposarsi in Chiesa
Fabio Barbieri, della parrocchia di san Lorenzo in Monluè, a Milano, battezzando a Pasqua, è arrivato al cristianesimo per la sua fidanzata, che ha sempre voluto sposarsi in Chiesa. «E la cosa bella – racconta – è che adesso, se anche per caso dovessi rompere con questa ragazza, vorrei comunque ricevere il Battesimo e diventare cristiano». Per Federico, 35 anni, responsabile commerciale di un supermercato tra Venezia e Padova, la scelta di Cristo è arrivata tramite un’esperienza di sofferenza: «Anch’io sono un “nipote” del Sessantotto, i miei mi hanno lasciato “libero” senza farmi battezzare. Però sono cresciuto credendo che la vita continua dopo la morte e che abbiamo un’anima. È stato dopo un periodo di problemi di salute che mi sono riavvicinato alla Chiesa. Ho incontrato un prete che mi ha raccontato di un Dio che è amore, non mi ha fatto una morale, ma mi ha spiegato che Dio vuole il nostro bene e che la nostra vita sia realizzata. Da lì ho pensato che potevo rivolgermi a Dio come a una persona. Durante un ricovero in ospedale sono entrato nella cappella: ho trovato il vangelo in cui Gesù dopo Pasqua arriva nel Cenacolo e dice agli apostoli: “Pace a voi”. Ho capito che il Signore entra nella nostra vita nonostante le nostre porte chiuse». Così è cominciato l’iter che ha portato Federico al Battesimo la scorsa Pasqua.
In un tempo secondo cui la religione «avvelena ogni cosa», per dirla con Christopher Hitchens, le difficoltà, le derisioni, gli sbarramenti anti-cristiani della cultura di oggi colpiscono anche i neo-cattolici. «I catecumeni sanno che riceveranno un solo applauso, quello nella notte di Pasqua al loro battesimo», chiosa don Sartor di Milano. «Ho ricevuto più critiche che sostegno nella mia scelta, anche in famiglia, soprattutto in merito alle posizioni della gerarchia cattolica – afferma Daniele di Padova. Ma raramente si parla di cosa è veramente il cristianesimo. Per questo motivo queste critiche non mi fanno granché problema». E Fabio di Milano conclude: «In casa mia c’è sempre stato un certo astio per la Chiesa. Mio nonno era partigiano e dice che durante la guerra ha visto più preti-spie di quelli che erano dalla sua parte. Ma la mia risposta alle loro critiche è questa: se tu domani muori e non ci sei più, Uno solo è tornato indietro a dirci cosa c’è oltre la morte».

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