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Pazze per Dio

Posté par atempodiblog le 14 janvier 2009

Pazze per Dio, la riscossa delle mistiche italiane
di Laura Bosio – Avvenire

Non si sa da quale casato venisse Angela da Foligno, nata nella città legata al suo nome intorno al 1248. Quasi nulla si conosce del periodo che precede la conversione. Non compì studi, ma pare certo che sapesse leggere. Più difficile dire se sapesse scrivere. Si sposò dopo i vent’anni, forse nel 1270, con un signorotto rimasto anonimo ed ebbe figli, che scomparvero in breve tempo insieme alla madre e al marito. In seguito a un’apparizione di san Francesco, era però già iniziato un mutamento che l’aveva portata a incontrare un direttore spirituale, un frate minore, suo concittadino e consanguineo, Arnaldo, che sarebbe diventato il depositario delle sue confidenze. Ma fu nel 1291, durante un pellegrinaggio ad Assisi, che un’esperienza mistica sconvolgente trasformò radicalmente la sua vita. Arnaldo avvertì subito la necessità di comprendere fino in fondo le cause di quella folgorazione e cominciò a scrivere tutto quello che Angela gli veniva dicendo. Nacque così il Libro della beata Angela da Foligno: lei dettava nel ‘ volgare suum’, mentre Arnaldo trascriveva in un latino semplice e piano; e quando lui, ‘frate scrittore’, non comprendeva, si faceva ripetere il discorso, talvolta riportando la parola così come la sentiva riferire. L’itinerario di Angela non è tanto un andare verso Dio, quanto un andare dentro Dio, in un rapporto diretto così forte da farla gridare. «E la sua storia – scrivono Giovanni Pozzi e Claudio Leonardi nell’antologia dedicata alle Scrittrici mistiche italiane – sarà, in questo senso, tutta una ‘pazzia’ interiore, cioè una coscienza mistica altissima, senz’altro la più alta di una donna italiana durante il Medioevo».
Morì a Foligno il 4 gennaio 1309. In Caterina da Siena si realizzò, scrivono ancora Pozzi e Leonardi, «l’esperienza di una straordinaria capacità di partecipazione: universalità dell’amore, totalità dell’allegrezza e della tristezza, senso di Dio e del nulla, compresenza di Dio e dell’uomo: Dio come perfetta giustizia oppure come piena misericordia, ma alla fine visto come ‘mare pacifico’ e l’uomo come il ‘pesce’ di questo mare». Un’universalità che ha il suo contrassegno definitivo nel motto con cui Caterina annunciò e accolse la sua morte, il 29 aprile 1380: «Sangue, sangue, sangue», dove «sangue sta per ciò che è fondamento di unità e di libertà, dando la vita a ogni vita». Quando morì, circondata da un vero cenacolo spirituale e politico, aveva solo trentatré anni, bruciata da un ardore profetico che l’aveva condotta in lungo e in largo per l’Italia e l’Europa, come la ‘fanciulla universale’ che i primi biografi riconoscono in lei. I suoi inizi non avrebbero mai lasciato prevedere simili esiti: nata da un tintore, penultima di venticinque figli, dovette lottare per vincere l’ostilità della famiglia alle sue severe ascesi e poi per superare, lei giovane analfabeta, il filtro di chi trascriveva le sue parole, con le quali costruiva una personalità e un cammino in tutto singolari, attraverso la conoscenza di Dio in sé e la conoscenza di sé in Dio: «Tu sei colui che non è. Io sono Colui che è. Se tu scorgi questa verità nella tua anima, il nemico non ti ingannerà: tu sfuggirai a tutti i suoi lacci». Maria Maddalena de’ Pazzi, fiorentina, aristocratica per nascita, si fece carmelitana nel luogo più appartato della città, il quartiere povero di San Frediano.
Come Angela e Caterina non scrisse, solo parlò, ma, diversamente da loro, non dettò per fissare nella scrittura il suo pensiero. Fu scritta da altri a sua insaputa. Durante le numerose e lunghissime estasi – nel 1584, diciottenne, subito dopo i voti ebbe estasi per quaranta giorni di seguito – parlava con un invisibile destinatario. Le sue compagne, con interminabile pazienza, raccoglievano le sue parole, formando un documento unico per la sua natura di totale e autentica oralità. Ignare di stenografia, avevano escogitato un modo ingegnoso: alcune di loro ripetevano ad alta voce le parole di Maddalena, altre le trascrivevano, poi facevano il montaggio delle parti, chiedendo alla veggente chiarimenti nei punti oscuri. La sua vita straordinaria, cui oggi dà rilievo il corpus degli scritti, passò quasi inosservata.
Tramandate attraverso le lettere, i diari, le autobiografie o sopravvissute in filigrana in testi di altri, le mistiche italiane sono un universo solo parzialmente esplorato, che dal Medioevo arriva fino a noi. A partire da Chiara d’Assisi, che condivise con san Francesco una drammatica e luminosa ‘uscita dal secolo’, o Umiltà da Faenza, fondatrice, nella Firenze del Duecento, di un monastero consacrato a Giovanni Evangelista, che le era apparso in una visione, e autrice di Sermoni percorsi da una violenza d’amore che ricorda Teresa di Lisieux, o Caterina Fieschi, nata nella Genova di metà Quattrocento, che nel suo itinerario arriva a cancellare l’’io’ e il ‘mio’, anche se riferito al Signore, fino a Veronica Giuliani, Rosa Brenti, Gemma Galgani, Lucia Mangano, Itala Mela. Cercatrici dell’impossibile che si staccano dal mondo, ma per avvicinarlo più profondamente, che fuggono per rendersi simili a Dio e nascere, più libere, nell’amore dell’Altro. Sperimentatrici che non chiedono di conoscere: chiedono di essere. Nelle possibilità impensate di un’esperienza spirituale aperta più all’intuizione che alla ragione sembrano raggiungere quegli spazi del divino che permettono di vedere senza vedere, di avere un corpo evanescente e un’anima carnale, e di celebrare la tenebra luminosa, la chiarezza più oscura, come si esprimeva Dionigi l’Areopagita, a cui la mistica deve, nel VI secolo, la sua definizione cristiana. Ma la mistica non è sentimentalismo; al contrario, è desiderio di superare, fino a estinguerle, tutte le vicissitudini delle sensazioni e dei sentimenti. È il rogo che brucia la psicologia per fare il vuoto e godere di una impossibile pienezza, nel fondo senza fondo dell’anima. Niente a che vedere con patetici abbandoni e languide estasi pittoriche, con fremiti e occasioni del cuore: nella solitudine delle mistiche il vento gelido dell’impossibile si scontra con l’ardente consapevolezza che la realtà è una, che Dio e uomo sono lo stesso.Amore è il termine della loro esperienza. Un amore che contiene e trascende tutti i termini che lo rappresentano: affetto, simpatia, sollecitudine, devozione, carità, eros. La conoscenza amorosa non è però teorica né astratta, ma sperimentale e piena di gusto. E le parole impossibili che tentano di descriverla – tanto più impossibili nell’esperienza univoca delle mistiche – non può che essere mobile e saporosa come il suo inafferrabile oggetto, se vuole essere vera. Quando scrivono, le mistiche incitano il pensiero a correre liberamente, al di là di preoccupazioni estetiche o compositive. Usano inevitabilmente il linguaggio della tradizione, ma lo alterano con irriverenza, rianimando generi abusati e antiche dottrine. Nelle lettere applicano senza disciplina il metodo del ‘meditare scrivendo’; nei dialoghi optano per una registrazione fedele dei colloqui dell’anima con Dio, o con se stessa.
La solennità dell’eloquio ecclesiastico si mescola con la vitalità del parlato quotidiano, dando vita a una prosa di volta in volta robusta o prolissa, ignara di ornato. «Mi pareva di non essere più quella – scrive nelle Lettere Maria Cecilia Baij, vissuta nella prima metà del Settecento, benedettina a Montefiascone, cantante, cembalista, assalita da apparizioni apocalittiche –: vedevo in me stessa l’immagine di Gesù, tanto risplendente e chiara che non saprei in che modo darla a intendere. Ero io, eppure non ero io, perché era Gesù in me e unito a me in modo che eravamo un’istessa cosa… Sentivo in me una pienezza totale di tutto ciò che possa godersi e bramarsi… Non so meglio spiegarmi».

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Spot involontario

Posté par atempodiblog le 14 janvier 2009

La pubblicità atea sui bus spot involontario per la fede
di Michele Brambilla – Il Giornale

Al giornalista de La Stampa che le ha chiesto se non pensa che qualche genovese potrebbe sentirsi offeso dalla pubblicità atea sugli autobus della città, il sindaco Marta Vincenzi ha risposto «Si può sempre salire sul bus successivo», e in questa battuta c’è tutta la sciatteria e l’incoscienza con la quale il nostro mondo «illuminato» sta affrontando la questione religiosa, e più in generale la questione delle nostre radici, della nostra tradizione, della nostra cultura. Si ritiene del tutto ininfluente che di fronte alle nostre cattedrali si preghi come alla Mecca; che la festa del Natale venga cancellata nelle scuole e negli asili; che nei presepi compaiano moschee o le natiche di una pornostar. Tanto, «di Dio non hai bisogno», come recita la pubblicità che comparirà sui bus genovesi.

La storia si è già incaricata di smentire. E non solo perché – come qualsiasi antropologo può confermare – ogni civiltà di ogni tempo e di ogni luogo ha sempre sentito il bisogno di interrogarsi su Qualcosa che la trascende; ma anche perché c’è stato, e non tanto tempo fa, un sistema politico che ha cercato di estirpare il senso religioso e di creare un «uomo nuovo» finalmente liberato dalle «vecchie superstizioni», e le macerie lasciate dall’impero sovietico sono lì a dimostrare com’è finita.

Non credo che alla campagna scattata con singolare sincronia in diverse città del mondo (Washington, Londra, Barcellona, Genova e presto, forse, anche Roma) la Chiesa debba reagire con toni da crociata. Anzi, penso che faccia bene a reagire con un sorriso di compatimento. In fondo, pagliacciate di questo tipo sono destinate a confortare il credente nella sua fede. Aveva ragione Pascal quando diceva che le ragioni degli atei lo convincono dell’esistenza di Dio più che le ragioni dei credenti. Quale «ragionevolezza» c’è, infatti, nel proselitismo ateista? Se uno è convinto che Dio non c’è, perché dovrebbe affannarsi tanto nel cercare di convincere gli altri della sua stessa idea? Si goda la vita senza perdere troppo tempo, vistoche la vitaè breve, anzi è un soffio come dice la Bibbia, e come l’esperienza conferma.

E proprio questo è scritto sui bus di Barcellona: «Dio non esiste, quindi non preoccuparti e goditi la vita». Paradossalmente, questa esortazione fa cadere la maggiore obiezione che viene posta ai credenti, e cioè che ci si aggrappa all’idea di un Dio per cercare una consolazione. Si crederebbe, insomma, perché fa comodo credere. La pubblicità dei militanti ateisti di mezzo mondo ci fa invece capire, al contrario, che credere è scomodo perché pone Qualcuno e una Legge Morale sopra di noi, e quindi non ci fa sentire totalmente liberi di fare ciò che vogliamo, non ci permette appunto di «goderci la vita». La campagna sui bus ci dimostra insomma che, se è vero che molti vorrebbero credere ma non ci riescono, e per questa assenza provano angoscia, molti altri preferirebbero, e di gran lunga, un cielo vuoto per farsi una morale a proprio uso e consumo. «Se Dio non esiste, tutto è permesso», dice Ivan Karamazov. In un periodo in cui anche tanti preti sono spesso tentati di parlare solo di questioni terrene (la pace,la solidarietà, la crisi economica, l’inquinamento) la campagna ateistica dei pullman arriva quasi provvidenziale, riporta la discussione al nocciolo: Dio esiste oppure no? Ed è provvidenziale pure che, come ai tempi di Pascal, le ragioni di chi nega siano affidate a protagonisti tanto fragili, come a quella Uaar (Unione atei agnostici e razionalisti) di cui è presidente onorario Odifreddi, il matematico di Cuneo che i genitori chiamarono Piergiorgio in onore del beato Frassati, che studiò in seminario per diventare prete, ma che poi cambiò progetto di vita e ora dice (testualmente) che solo un cretino può essere cristiano.

Quante prese di posizione si spiegano più con la psicologia che con la teologia. La Chiesa lo sa, e fa bene a non prendere troppo sul serio l’apostolato al contrario dei mezzi pubblici. Resta la sciatteria di cui dicevamo, quella di un mondo occidentale che sembra aver deciso di chiudere i conti con il cristianesimo, e che crede che a tale scopo tutto faccia brodo,dallepubblicità degliatei all’avanzata dell’islam, considerato alleato strategico contro ilnemicostorico, la Chiesa. Si accorgeranno presto di quanto un musulmano possa apprezzare un autobus che nega quel Dio che, secondo l’islam, solo un pazzo non riconosce nel sole che sorge a mezzogiorno. A differenza dei cristiani, per i quali la fede è una grazia, e che anche per questo sono molto più «laici» nei confronti di chi non crede.

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