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Come la Madonna consolava la “Santa dei poveri”

Posté par atempodiblog le 22 novembre 2008

La luce di Maria nella notte oscura di Madre Teresa

Come la Madonna consolava la “Santa dei poveri” dans Articoli di Giornali e News teresa7lm7

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Se solo fossi nato

Posté par atempodiblog le 21 novembre 2008

Se solo fossi nato dans Citazioni, frasi e pensieri chestertonaq6

Se gli alberi fossero alti e l’erba bassa
come in qualche strano racconto
se qui e lì il mare fosse azzurro
oltre l’abisso che ci divide
se una palla di fuoco pendesse fissa nel cielo
per riscaldarmi per tutto un solo giorno
se soffice erba verde crescesse su grandi colline
io so quello che farei.
Nell’oscurità io giaccio
sognando che lì mi attendano grandi occhi freddi e gentili
e strade tortuose e porte silenziose
e dietro uomini viventi
meglio vivere un’ora
per combattere ed anche per soffrire
che tutti i secoli per cui ho governato gli imperi della notte
se solo mi dessero il permesso
dentro quel mondo di ergermi in piedi
io sarei buono per tutto il giorno
che avessi da passare in quella terra favolosa
da me non sentirebbero una parola
di egoismo o di vergogna
se solo potessi trovare un varco
se solo fossi nato.

-Gilbert Keith Chesterton-
Traduzione Redazione « Il Sabato »

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Abuso della propria libertà

Posté par atempodiblog le 21 novembre 2008

Abuso della propria libertà dans Citazioni, frasi e pensieri aV2PXSWJ

Gli squilibri, i malesseri che affliggono il mondo intero, sono in relazione con uno squilibrio intimo che si radica nel cuore degli uomini (cfr. Cost. Gaudium et Spes, 10). Alla luce della fede, questo squilibrio si chiama peccato, abuso della propria libertà, a partire dal peccato originale. Sul piano delle relazioni interpersonali il peccato, che è rottura con Dio, secondo la Sacra Scrittura, coincide sempre con atteggiamenti di egoismo, orgoglio, ambizione, invidia e odio; questi generano, a loro volta, la corruzione, l’edonismo e la superficialità nelle relazioni reciproche; e da queste derivano le ingiustizie, le dominazioni, e le violenze a tutti i livelli e le situazioni conflittuali tra le persone, i gruppi sociali e i popoli (cfr. Galati 14,21).

Giovanni Paolo II
Omelia alla Santa Messa, Maputo (Mozambico), 18 settembre 1988

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Pellegrini e turisti

Posté par atempodiblog le 20 novembre 2008

Il «boom» italiano delle visite ai luoghi sacri L’anno scorso coinvolti quaranta milioni di persone
di Giovanni Gazzaneo – Avvenire

Sono quaranta milioni coloro che ogni anno in Italia scelgono come meta un santuario, un monastero, una chiesa storica. La basilica di San Pietro e il santuario di padre Pio condividono il primato: sette milioni di pellegrini. Al secondo posto la basilica di San Francesco ad Assisi con cinque milioni e mezzo di presenze, quindi il santuario di Loreto con 4 milioni e mezzo, la basilica di Sant’Antonio a Padova con 4 milioni e duecentomila. Le stime di Trademark per il nostro Paese dicono che il 2007 è stata l’annata-record per i pellegrinaggi e il turismo religioso in Italia, superando le presenze totalizzate in occasione del Giubileo del 2000. Il mondo variegato del pellegrinaggio e del turismo religioso vanta un incremento del 20 per cento rispetto al 2006, con un fatturato complessivo di quattro miliardi di euro.
Un fenomeno su cui per tre giorni accende i riflettori la quinta edizione di Aurea, la Borsa internazionale del turismo religioso e delle aree protette, che s’inaugura oggi a Foggia (vedere box). Accanto al classico pellegrino cresce il turista che si reca nei luoghi sacri soprattutto per motivi culturali, per amore della storia, dell’arte, dell’architettura. E proprio l’arte e l’architettura potrebbero essere una grande occasione di e-vangelizzazione, perché sono l’espressione in cui si è incarnata la fede di una comunità in un determinato momento storico. Diceva nel 2002 il cardinale Joseph Ratzinger: «Affinché oggi la fede possa crescere dobbiamo condurre noi stessi e gli uomini in cui ci imbattiamo a entrare in contatto con il bello e annunciare la verità della bellezza».
Per il nostro Paese ormai è consuetudine parlare di «museo diffuso»: 30mila chiese storiche, 1700 santuari, 400 monasteri e altrettante abbazie. Sugli 8097 comuni, 752 vantano la presenza di opere d’arte di un certo rilevo e i beni culturali ecclesiastici costituiscono almeno i due terzi del patrimonio nazionale. Secondo il Censis la regione che ospita più luoghi sacri è il Lazio (21,6%), seguito da Lombardia (20,4) e Toscana (19,5).La diffusione di
loca sacra è preponderante nel Centro-Nord. Nel Sud fa eccezione la Sicilia, che con il 12,2 per cento supera anche l’Umbria. La più alta concentrazione di santuari è in Lombardia (241), seguita dall’Emilia (164) e dal Lazio (152). Dalle pievi sperdute nella campagna e sulle colline aretine alle grandi cattedrali, tutto parla della sacralità del nostro Paese. «Viaggiando potrai trovare città senza mura e senza lettere, senza re e senza casa, senza ricchezze e senza monete; ma una città senza templi e senza dei… nessuno l’ha mai veduta né la vedrà mai».
Con queste parole Plutarco portava alla luce il cuore religioso dell’esperienza umana e del viaggio insieme. L’uomo moderno viaggia come l’antico. Con modalità e possibilità diverse, anche con stimoli differenti. Ma entrambi all’origine del cammino hanno la meta: la ricerca di senso. Nonostante la secolarizzazione che ha ormai eroso ampi strati della società, la nostalgia del sacro è nell’uomo moderno uno dei principali motivi per mettersi in cammino.
«La grande strada – scriveva Dostoevskij –- è qualcosa che sembra non avere fine; somiglia a un sogno, è nostalgia dell’Infinito». Sono in tanti a vivere oggi, come ieri, la nostalgia dell’Infinito. Non solo in Italia. Il fenomeno del pellegrinaggio e del turismo religioso è in crescita anche a livello mondiale: nel 2007 per il Wto sono stati 330 milioni i «viaggiatori religiosi», per un fatturato di 18 miliardi di dollari. Per l’estero il primato in classifica spetta a Nostra Signora di Guadalupe con oltre 10 milioni di pellegrini, Lourdes 7 milioni, Gerusalemme 6 milioni, Fatima e Santiago di Compostela 4 milioni e mezzo.
È Dio stesso a rendere l’uomo un viandante, un pellegrino. Ad Abramo Dio dà un solo semplice ordine:
lek-lekà, cioè «vattene», che può essere tradotto anche «vai verso te stesso». Ogni pellegrinaggio è un cammino verso un luogo sacro: «L’homo religiosus – scrive Mircea Eliade – crede che esista una realtà assoluta, il sacro, che trascende questo mondo ma che in esso in qualche modo si manifesta e che per questo lo santifica e lo rende reale». Questi luoghi dell’infinito, censurati da una cultura tecnica e opaca, ubriaca di consumo dell’effimero, sono i segni del santo e del sacro che di nuovo ci raggiungono.
E così il secolo scorso, quello che avrebbe dovuto decretare il tramonto definitivo del sacro, si è chiuso invece con un’inaspettata aurora, quella del turismo religioso e dei grandi pellegrinaggi. Negli anni Ottanta tra Roncisvalle e Compostela si mettevano in cammino 400 pellegrini all’anno. Nel 2000, 400 al giorno, nel 2004 la media giornaliera ammontava a 700. Certo non tutti coloro che si instradano lungo il moderno ‘Cammino’ sono animati dallo spirito antico del pellegrino. Se il percorso fino alla tomba di san Giacomo è
diventato un trekking alla moda, rimane comunque un’esperienza forte, spirituale perché innanzitutto fortemente fisica. E coinvolge anche chi è rimasto lontano dalla pratica religiosa.
Il cammino del fedele, del cristiano si incrocia sempre più con quello che il sociologo Nicolò Costa definisce il «turista esistenziale»: «È il viaggiatore più simile al pellegrino religioso, sono irrequieti cercatori del ’senso ultimo della vita’». Le ricerche documentano che tra i visitatori dei santuari ve ne sono molti che dall’istituzione Chiesa sono sempre stati distaccati.
Resiste pure il pellegrinaggio vecchio stile, in cui la fede dei semplici trova la sua glorificazione. A Roma un caso straordinario è il pellegrinaggio al santuario del Divino Amore, che ogni sabato notte coinvolge migliaia di persone. Romani, ma anche credenti di altre regioni e immigrati si trovano riuniti in un flusso unico che nella notte sale le prime balze dell’agro romano alla luce delle fiaccole e della preghiera. E infine ci sono coloro che sostano negli eremi e nei monasteri, molti anche per periodi di ospitalità. Ricerca di Dio e di se stessi, di silenzio e di deserto. In tanti che bussano alle porte dei conventi sembra affiorare il canto di Davide in fuga da Saul nel deserto di Giuda: «Ha sete di te il mio fiato, si strugge per te la mia carne in terra di aridità e assetata senz’acqua». Il tempo della ricerca. Davide, scrive Erri De Luca, usa per la parola cercare un verbo raro
shahàr che indica ‘un cercare affannato, d’urgenza. Ma in ebraico shahàr indica anche l’aurora… Cerca Dio come si cerca l’aurora nella notte.

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IL SENSO DELLA VITA NASCOSTO NELLA DEPRESSIONE…

Posté par atempodiblog le 20 novembre 2008

IL SENSO DELLA VITA NASCOSTO NELLA DEPRESSIONE… dans Antonio Socci antoniosocciff4ml2

A proposito di Buffon e delle suore…
di Antonio Socci – Libero

Cosa dà senso alla vita? Cosa le dà valore e gusto? Il soldi? Il successo? La salute? Per cosa vale la pena vivere? Mi ha colpito, in questi giorni, il casuale intrecciarsi sui giornali di storie apparentemente lontanissime. Tre storie.
Quella di Gigi Buffon, il portierone della Juventus e della Nazionale, quella di Eluana Englaro e quella di altre due donne, Maria Teresa Olivero e Caterina Giraudo, sequestrate cinque giorni fa in Kenia dove vivono come missionarie.

Buffon ha pubblicato un libro dove racconta la sua storia: “Numero 1”. Secondo il senso comune questo allegro giovanottone ha tutto per essere felice. Cosa gli manca? E’ il più grande portiere del mondo, ha la giovinezza, la salute, la celebrità, la prestanza fisica, il successo, i soldi, gli amori, gli amici, un lavoro che è la sua passione, perfino un carattere solare, la simpatia e il buonumore. Non gli manca niente.

Eppure proprio lui racconta come un giorno di dicembre del 2003 gli si è spalancato sotto i piedi l’abisso della depressione. Senza motivi particolari. Un velo scuro sempre più opprimente, uno smarrimento progressivo: “cosa mi succedeva?”. Racconta di momenti in cui si sentiva sprofondare: “ero impaurito… mi tremavano le gambe all’improvviso, un malessere continuo mi attraversava… come se fossi continuamente altrove”.

Quello di Buffon non è un caso strano. In forme diverse è quasi la normalità per i cosiddetti “uomini di successo”. Cesare Pavese diceva: “c’è qualcosa di peggio del fallire nei propri progetti: è riuscirci”. Perché è lì, quando sei “arrivato”, quando stringi fra le mani quello che volevi possedere, che avverti il nulla e ti scopri insoddisfatto, destabilizzato. Tanto da smarrirti.

Per superare questo senso “di paura e insicurezza” Buffon si è fatto aiutare. E comunque un giorno, d’improvviso, il sole è tornato: paradossalmente è tornato a splendere proprio con “l’orrenda partita Italia-Danimarca 0-0”, a dimostrazione che davvero il “male di vivere” non dipende da circostanze negative. Ma sta nell’anima.

L’uscita del tunnel
Oggi il celebre calciatore racconta cosa comprese all’uscita dal tunnel: “I soldi non sono tutto. In testa mi rimbalzavano queste parole. E all’improvviso capii quanto fossero vere. Mi resi conto che in certe situazioni i soldi con la tua vita non c’entrano nulla, non c’entrano coi tuoi valori, con quello che hai imparato, che impari ogni giorno e che puoi trasmettere a chi ti sta accanto”.

Quel gorgo oscuro – che sembrerebbe solo una disgrazia – in realtà gli ha lasciato un regalo prezioso, una consapevolezza più vera della vita, di ciò per cui vale la pena vivere. Tante cose possono farci capire meglio l’esistenza e renderci più umani e più saggi. Anche circostanze dolorose. Tutto può aprirci gli occhi e rivelarsi una carezza misteriosamente amica che dà una percezione più giusta della vita, che rende più autentici. Sì, perfino il dolore.

Proprio attraverso di esso alcuni hanno fatto incontri che hanno dato senso alla loro vita, sono diventati uomini eccezionali che danno speranza agli altri. Perle preziose. E’ il caso – per citare un altro campione del calcio – di Stefano Borgonovo che, a 44 anni, dopo la gloria dei prati verdi si è scoperto ammalato di Sla, una tremenda croce che gli impedisce ogni movimento, cosicché da tre anni vive su un letto, attaccato a un respiratore. La mentalità di oggi definirebbe tutto questo “un inferno”.

E invece chi ha incontrato Stefano, chi ha visto l’amore da cui è circondato dalla sua bella famiglia, chi ha potuto stupirsi dalla luce, dalla positività e dalla forza che emanano dal suo volto, come tanti amici calciatori (a partire da Roberto Baggio), commossi dalla sua umanità (due mesi fa gli hanno dedicato una partita allo stadio di Firenze, con lui a bordo campo) ebbene chi lo ha incontrato testimonia che è difficile trovare un uomo così vero, umano e appassionato alla vita. Uomini così sono la speranza del mondo.

Sembra incredibile, ma c’è un’impressionante quantità di persone così speciali che – nella malattia – vivono una vita più piena e umana di noi che magari scoppiamo di salute, ma non sappiamo perché siamo al mondo. Si può fare a meno di tutto, ma non del senso dell’esistenza. Che è la cosa essenziale e misteriosa che ti manca quando sembra non ti manchi niente. Tutto in noi lo desidera, lo cerca. Siamo come mendicanti, senza saperlo.

Non sapere chi sei e perché stai al mondo, non percepire l’utilità della tua esistenza, non sentirsi amati e non amare: questo è l’inferno. Non la mancanza di denaro o di salute.

Spettro della solitudine
Soldi, successo e salute non mettono al riparo dalla solitudine, dalla tristezza e dalla disperazione. Anzi, la nostra epoca mostra il contrario. Lo prova l’uso industriale che nelle società opulente si fa di psicofarmaci, alcol e droghe, cioè di trucchi chimici per eludere il “male di vivere”. L’uso compulsivo e congestionato del sesso, che caratterizza il nostro tempo di pornomania di massa, è un’altra droga per anestetizzare la solitudine, la sensazione d’inesistenza che ci avvolge.

Non c’è sciagura più grande, diceva Teilhard de Chardin, della perdita del gusto di vivere. Questa infelicità è un’epidemia dilagante. Nel mondo si verifica un suicidio ogni 40 secondi, un milione di morti l’anno. Secondo l’Oms dal 1950 al 1995 la percentuale dei suicidi è cresciuta del 60 per cento. In Italia se ne contano 4000 ogni anno ed è molto significativo che l’area più “colpita” sia il Nord-Est (Friuli 9,8 per cento), mentre la percentuale più bassa di suicidi si registra in Campania (2,6 per cento). Prova ulteriore che davvero non è il benessere economico, né il contesto sociale degradato, né la difficoltà materiale della vita a definire l’infelicità.

Per questo mi chiedo se la rappresentazione del presente che continuamente facciamo su giornali e televisione sia giusta. Non parliamo che di soldi, di bollette, di mutui, di sprechi, di tagli, di questioni sociali. Cose importanti – sia chiaro – ma la realtà è tutta qui? Noi siamo solo i nostri problemi sociali?

La risorsa della speranza
Siamo sicuri che il benessere che inseguiamo, come meta unica e assoluta, sia veramente la felicità? Certi ripetitivi programmi di informazione fanno pensare a una battuta di Bruce Marshall: “Oggi la gente vive nel benessere senza gioia. In fondo a una lunga sfilata di bollette della luce, del telefono e del gas, non intravede altro che il conto delle Onoranze funebri”.

Eppure ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne veda la filosofia marxisteggiante ed economicista che ci domina: le cose che rendono la vita degna di essere vissuta, per le quali si può dare tutto, di solito sono oscurate. Perché non parlarne? Perché non raccontare le tante persone che testimoniano una speranza più grande delle difficoltà e delle sofferenze?

Dal rapimento, cinque giorni fa, delle due suore italiane in Kenia, scopriamo che ci sono fra noi persone – di cui i media non si occupano – che sono capaci di scelte di vita eccezionali, di un eroismo quotidiano (così pure le suore che da anni assistono amorevolmente Eluana). Perché lo fanno? Da cosa sono mosse? Cos’hanno conosciuto loro che noi non sappiamo? Quale tesoro hanno trovato che sa trasformare il dolore in amore? Abbiamo bisogno di saperlo, perché scoprire la speranza, per un popolo, è più importante che scoprire il petrolio.

E’ la risorsa più preziosa, come dimostra la nostra storia. Come c’insegnò don Giussani all’indomani di Nassiriya, davanti alla testimonianza della moglie del brigadiere Coletta. Nel dopoguerra avevamo un paese in ginocchio, uno stato a pezzi, un popolo sconfitto. Ed eravamo già prima una terra povera, senza materie prime. Eppure la nostra gente seppe esprimere un’energia inaudita che, nel giro di pochi anni, ci ha trasformato in una grande potenza economica. Da quali radici dimenticate è venuta quell’energia morale? Da quale speranza? Quale sconosciuta gioia di vivere sa ricostruire sulle macerie?

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Il Catechismo della Chiesa Cattolica

Posté par atempodiblog le 19 novembre 2008

« [..] Ma, per dire il vero, non di rado la religione diventa quasi un prodotto di consumo. Si sceglie quello che piace, e certuni sanno anche trarne un profitto. Ma la religione cercata alla maniera del « fai da te » alla fin fine non ci aiuta. È comoda, ma nell’ora della crisi ci abbandona a noi stessi.

Aiutate gli uomini a scoprire la vera stella che ci indica la strada: Gesù Cristo!

Cerchiamo noi stessi di conoscerlo sempre meglio per poter in modo convincente guidare anche gli altri verso di Lui. Per questo è così importante l’amore per la Sacra Scrittura e, di conseguenza, importante conoscere la Fede della Chiesa che ci dischiude il senso della Scrittura.

È lo Spirito Santo che guida la Chiesa nella sua Fede crescente e l’ha fatta e la fa penetrare sempre di più nelle profondità della Verità (cfr Gv 16,13).

Papa Giovanni Paolo II ci ha donato un’opera meravigliosa, nella quale la Fede dei secoli è spiegata in modo sintetico: il Catechismo della Chiesa Cattolica. Io stesso recentemente ho potuto presentare il Compendio di tale Catechismo, che è stato elaborato a richiesta del defunto Papa. Sono due libri fondamentali che vorrei raccomandare a tutti voi. »

Benedetto XVI

XX GMG – COLONIA – Omelia alla Santa Messa
21 agosto 2005, Spianata di Marienfeld

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Eluana, che sgomento la vita decisa nei tribunali

Posté par atempodiblog le 19 novembre 2008

I progressi della scienza ci portano ad affrontare problemi etici fino a pochi anni fa impensabili. Se avessi detto a mio nonno, nato nell’Ottocento e sopravvissuto a due guerre mondiali, che avrebbe potuto decidere, con l’aiuto di un atto notarile, in che modo morire penso onestamente che sarebbe inorridito. Come si fa a decidere prima una cosa di una gravità e di una complessità del genere? Certo, nessun essere umano sano di mente augura a se stesso e ai suoi cari di vivere in stato di incoscienza per anni o di dipendere dal funzionamento di una macchina. Ma una cosa è avere un timore, un’altra affrontare la realtà, quando si presenta.

Se capitasse a me, ad esempio, magari in quel momento vedrò lo sguardo della persona che amo e capirò che voglio continuare a vederlo o forse proverò curiosità per questa nuova fase della mia vita che si sta aprendo, un po’ come se visitassi una terra inesplorata. Oppure sarò sola, disperata, nessuno risponderà alla mia tristezza allora, certo, vorrò porre fine ai miei giorni. Ma come faccio a saperlo adesso, a decidere in un momento così lontano e così diverso? E se poi questa mia scelta autorizzasse qualcun altro a decidere per me? Contrariamente a quanto ci viene continuamente ripetuto, io penso che sappiamo ancora pochissimo sulla vita, su quello che c’è nella nostra mente, nel nostro corpo e che questo senso di ignoranza debba condurre al massimo timore, al massimo rispetto.

Nessuno di noi sa cosa provi veramente Eluana, nella sua attuale condizione, come non sappiamo perché le sia successo questo incidente, che senso abbia nella sua vita e in quella dei suoi genitori né perché il suo corpo continui ad essere così straordinariamente vitale. Questa vicenda provoca in me un senso di dolorosa compassione. Compassione per la sofferenza dei genitori, per quanto abbia dovuto soffrire – e per quanto ancora avrà da soffrire – la loro figlia; compassione per le suore che, per tanti anni e con tanto amore, si sono prese cura di lei. Ma oltre alla compassione, provo anche un senso di gelo e di sgomento perché l’idea che un tribunale non penale possa decidere della vita di un essere umano è qualcosa che esula dalla mia visione del mondo.

Sono profondamente contraria all’accanimento terapeutico, quando ci sono delle malattie devastanti e progressive, ma un tumore o una malattia metabolica sono ben diverse da uno stato vegetativo. Una delle cose che più mi sorprende, di questi nostri tempi, è la grande quantità di certezze che ci vengono proposte come verità assolute. L’uomo, ci viene ripetuto da più parti, ha una sola dimensione – quella razionale – e tramite questa razionalità è in grado di determinare ogni istante della sua vita in modo che l’imprevisto, quest’ospite scomodo e inquietante, scompaia definitivamente dall’orizzonte.

La vita che ci preparano i devoti della razionalità è una vita di estrema tristezza, dominata dall’ansia e dalla paura, una vita segnata dal continuo ricorso ai tribunali per avere una qualche certezza di essere nel giusto. Una vita, insomma, in cui l’uomo non è che una cosa tra le cose. Se vado in un negozio, infatti, non compro certo un oggetto guasto o scaduto e, se per caso mi capita di farlo, lo porto indietro, chiedendo un rimborso. L’essere cosa tra le cose ci porta a chiedere la perfezione, a bandire dal nostro orizzonte l’imprevisto della malattia, del dolore, lo spettro della morte. Sgombrato infatti il campo dalla necessità di interrogarsi sul mistero che avvolge le cose – perché il mistero non esiste, in quanto non provabile scientificamente – non rimane che appellarsi alla legge degli uomini, invocare una sentenza che confermi la correttezza del nostro sentire. Il tribunale è diventato il cuore attorno a cui ruota la nostra civiltà. La vita è, alla fine, un’avventura amara e, siccome non abbiamo chiesto di venire al mondo e non ne capiamo il senso, abbiamo il diritto di essere risarciti fino alle più piccole contrarietà che ci capitano.

Ricordo il caso di una ragazza che, avendo trovato un insetto in un pacchetto di patatine fritte, ha fatto causa alla ditta produttrice chiedendo i danni biologici per lo spavento provocato, danni che le sono stati peraltro riconosciuti. O casi di genitori che hanno denunciato un medico per un figlio nato con difetto di deambulazione. Ma è davvero questo il senso della nostra vita? Vivere accerchiati da pensieri ostili, da potenziali nemici, rivendicando continui danni subiti? Lo spirito del nostro tempo è quello del risentimento. Ma il risentimento è come una potente erba infestante, ha radici profonde, invasive e con il suo espandersi riduce fino ad eliminare la possibilità di provare un sentimento.

Si vuol far credere che il mistero – e dunque la domanda sulla trascendenza – sia un obsoleto retaggio del mondo clericale, mentre forse bisognerebbe dire che riguarda sempre e comunque ogni uomo, per la complessità della sua natura, per la presenza delle tenebre, per l’assoluta certezza della morte. Se contemplassimo con timore – altra grande parola scomparsa dal nostro orizzonte – questo mistero, forse saremmo costretti a interrogarci, a metterci in cammino, a entrare nell’idea che ogni cosa che accade nelle nostre vite ha un senso profondo e che crescere come esseri umani vuol dire proprio riuscire a capire questo senso, facendolo lievitare in qualcosa di più grande, di più alto, di più luminoso. La vita non è uno status quo da difendere con le unghie e con i denti, ma una condizione di continuo cambiamento, di cui, solo in parte, siamo responsabili. Ogni mattina, quando apro gli occhi, non so se arriverò alla sera o se ci arriveranno le persone a cui voglio bene. Siamo continuamente esposti all’impatto devastante del dolore, alla lacerazione del distacco, alla sofferenza delle persone amate. Proprio per questo, bisogna essere grati per ogni istante che ci viene donato, per tutte le cose, belle e meno belle, che avvengono nel corso dei giorni perché nel loro insieme costituiscono l’unicità del nostro cammino.

Sono anche profondamente convinta che ogni vita abbia la sua morte e che questi due eventi si illuminino di senso a vicenda. E che l’unicità della vita umana stia proprio nella capacità di creare rapporti d’amore. Qualche tempo fa, sono andata a trovare un’amica molto anziana ormai esasperata dall’essere ancora viva. «Dio si è dimenticato di me. Perché non muoio?», mi chiedeva. «Forse non muori perché devi ancora capire qualcosa», le ho risposto scherzosamente. «Forse perché quella pianta che hai sul davanzale domani fiorirà e tu rimarrai stupita dal suo colore, dalla bellezza che esploderà tra il grigiore dei palazzi». «Ma dov’è la misericordia di Dio?», ha incalzato lei. «Quella di Dio non lo so, ma so dove noi dobbiamo coltivarla. Nei nostri cuori».

di Susanna Tamaro – Il Giornale
www.susannatamaro.it

 

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In tempi di sbandamenti

Posté par atempodiblog le 18 novembre 2008

Da una newsletter di Padre Livio:

In tempi di sbandamenti dans Fede, morale e teologia papabenedettoxvi

Cari amici, in tempi di sbandamenti nella fede i punti sicuri di riferimento sono il Papa e la Madonna. Chi segue queste due stelle che brillano insieme è certo che non si perderà mai sulle vie dell’errore e dell’incredulità. Il Papa è il « dolce Cristo in terra » affermava S. Caterina da Siena. La santa senese, quando aveva solo sei anni, vide Gesù vesito da Papa. Poteva esserci un’immagine più eloquente? Ogni cattolico, e tanto più ogni sacerdote, deve guardare al Papa come a Gesù Cristo. Deve ascoltare la sua parola come se parlasse Gesù Cristo. Deve ubbidire gioiosamente come se comandasse Gesù Cristo. La Madonna è la Madre della Chiesa. Lei la custodisce nell’unità della fede e nel vincolo della pace. Nelle apparizioni dei tempi moderni la Madonna ha sempre uno sguardo particolare per il Papa, indicandolo come colui attraverso il quale Gesù, Buon Pastore, pasce le sue pecorelle. E’ sintomatico che chi critica la Madonna, critica anche il Papa e chi è freddo con la Madonna è freddo anche con il Papa. Noi dobbiamo amare e seguire Maria e il Papa e con loro testimoniare nel mondo la luce, la speranza e l’amore.

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Quelli che… Amen

Posté par atempodiblog le 18 novembre 2008

Parlare con Dio dans Citazioni, frasi e pensieri pregare

“Un giorno alcuni hanno preso un gran foglio da scrivere, una grande pagina bianca e, in fondo alla pagina, al posto della firma, hanno tracciato una sola parola: Amen.

Poi hanno affidato la loro vita a Dio e la Provvidenza Divina si è messa a scrivere al di sopra dell’amen scritto in anticipo, la lunga e dolorosa storia di una vita umana; i lutti si sono susseguiti, ciascuno alla sua triste data, e l’Amen li aveva già accettati togliendo loro il veleno dell’amarezza; e le gioie sane e forti Dio le ha scritte sul foglio, ognuna alla sua ora, come soste in un viaggio, e l’anima invece di distrarsi e dimenticare, invece di impaniarsi e addormentarsi, l’anima docile, avendo già pronunciato la parola liberatrice, si rallegra con Dio e per Lui.

Amen in anticipo ad ogni ordine Divino e Amen ai fallimenti imprevisti, alle lunghe calamità, agli esasperanti disinganni di ogni giorno. Amen al treno partito troppo presto o arrivato troppo tardi; amen alla pioggia e al sole, all’insonnia e alla stanchezza, alla calura torrida e agli inverni ghiacciati. Amen ai compagni malinconici pieni di fissazioni e di manie; amen ai genitori invecchiati e che l’età rende egoisti e bisbetici, amen lieto quanto più sia possibile e sempre leale e forte.”

R. P. Charles S.J. tratta dal libro “La Preghiera di Tutte le Ore”

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« Ma San Francesco… »

Posté par atempodiblog le 18 novembre 2008

« Ma San Francesco avrebbe pianto solo i morti »
di Marzio G. Mian
Tratto dal sito di Vittorio Messori

Il povero Francesco è stato via via travestito e deformato in buonista, pacifista, verde, ecologista, animalista. Si sono impadroniti di questa figura dei personaggi che nulla hanno a che fare con il Francesco storico. Si tratta di travestimenti liberal, cattocomunisti, ecologisti; manipolazioni di gente abituata alla natura addomesticata, al parco dove fare una passeggiata. Ma non sanno cosa fosse la natura allo stato brado e Francesco, come tutti gli uomini del Medioevo, vedeva la Natura come un nemico, un pericolo da domare. Il ruolo del santo non è quello di fare della poesia sul lupo, ma di rendere il lupo inoffensivo. Nel Cantico delle Creature, egli parla di « sora acqua », di « sora morte », ma non degli animali. Qualcuno addirittura lo ha travestito da vegetariano. In realtà, quando poteva, mangiava allegramente le bistecche. Alcuni suoi discepoli -sventurato l’uomo che ha discepoli- pensarono di fargli piacere insistendo per passare al vegetarianesimo. Francesco s’arrabbiò moltissimo e disse che essere vegetariano è una forma di lusso da chi può scegliere cosa mangiare; invece i frati devono mangiare ciò che la Provvidenza metteva loro davanti, comprese le bistecche. Quindi Francesco non è un animalista e non è un vegetariano. E non è neanche un pacifista. Ci si dimentica che fu cappellano dei crociati. Non seguì i crociati per indurli alla non-violenza. Anzi: prima della celebre presa di Damietta, sul delta del Nilo, egli esortò i crociati prima della battaglia perché facessero fuori più saraceni possibile, E si recò dal Sultano non per « restaurare un dialogo », come direbbe un prete politicamente corretto, ma lo incontrò per convertirlo. Quindi anche il Francesco pacifista ed ecumenico è un travestimento. È vittima della sua grandezza, proprio perché è uno dei maggiori testimoni cristiani. Un’altro travestimento è quello del Francesco contestatore, simbolo di quelli che non rispettano la gerarchia. In realtà fu un santo obbedientissimo, che rispettava ogni ordine, venisse dal Papa o dal vescovo di Assisi. Ciascuno nella Chiesa ha la sua vocazione, e lui non possedeva certo quella della carriera gerarchica. Nella Chiesa ci sono due ruoli: uno istituzionale e uno carismatico. Certamente Francesco ha svolto al meglio un ruolo carismatico, ma come vescovo sarebbe stato un disastro. Non bisogna poi dimenticare il mito romantico ottocentesco. Francesi, inglesi o tedeschi si recavano ad Assisi e restavano folgorati dagli affreschi della chiesa Superiore, in gran parte responsabili della creazione della leggenda del lupo, degli uccellini, degli alberelli… Ma il Francesco vero era tutt’altro che buonista. Egli è vittima del mito romantico e della sua grandezza. I mediocri hanno una sola lettura, sono i grandi che hanno tante sfaccettature. Anche questo dibattito squallido sulla priorità dell’arte o della vita offende la figura sublime di Francesco. Noi siamo vittime dell’incanaglimento di una cultura tardoilluminista che fa dell’arte un feticcio da adorare. Siamo di fronte alla sacralizzazione della cultura e dell’arte, basta vedere le folle adoranti in quei cimiteri che sono i musei. È una forma di idolatria di fronte all’arte. E così quando viene toccato un capolavoro come quello della chiesa Superiore è chiaro che l’idolatria si scatena. Come accade al devoto se sfregiano la statua della Madonna. Devo dire brutalmente che dovendo scegliere tra la morte di un bambino e il crollo irreparabile della basilica di Assisi non ho esitazioni: preferisco il crollo della basilica. Una priorità che viene dalla fede. E credo che in questo Francesco sia d’accordo con me. A un credente, infatti, interessa la gloria di Cristo, tutto il resto è destinato a sparire: alla fine della Storia non ci saranno più capolavori. Anche se non viene il terremoto, tutti i capolavori d’arte sono a rischio, perché in una prospettiva di fede verranno inceneriti. Il peccato maggiore è l’idolatria. Vadano alla malora anche gli affreschi di Giotto se questa può essere una condizione per salvare anche una sola vita umana. E credo che oggi anche Francesco parlerebbe così.

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Inginocchiarsi

Posté par atempodiblog le 17 novembre 2008

Inginocchiarsi è ADORARE. 

Inginocchiarsi dans Don Giustino Maria Russolillo Messa-di-Natale

Da un’omelia di Sua Santità Bendetto XVI (22 maggio 2008):

“Inginocchiarsi davanti all’Eucaristia è professione di libertà: chi si inchina a Gesù non può e non deve prostrarsi davanti a nessun potere terreno, per quanto forte. Noi cristiani ci inginocchiamo solo davanti al Santissimo Sacramento, perché in esso sappiamo e crediamo essere presente l’unico vero Dio, che ha creato il mondo e lo ha tanto amato da dare il suo Figlio unigenito (cfr Gv 3,16). Ci prostriamo dinanzi a un Dio che per primo si è chinato verso l’uomo, come Buon Samaritano, per soccorrerlo e ridargli vita, e si è inginocchiato davanti a noi per lavare i nostri piedi sporchi. Adorare il Corpo di Cristo vuol dire credere che lì, in quel pezzo di pane, c’è realmente Cristo, che dà vero senso alla vita, all’immenso universo come alla più piccola creatura, all’intera storia umana come alla più breve esistenza. L’adorazione è preghiera che prolunga la celebrazione e la comunione eucaristica e in cui l’anima continua a nutrirsi: si nutre di amore, di verità, di pace; si nutre di speranza, perché Colui al quale ci prostriamo non ci giudica, non ci schiaccia, ma ci libera e ci trasforma”.

Don Giustino Maria Russolillo, sull’inginocchiarsi, ha detto:

“…con le ginocchia piegate, in riconoscimento e professione della mia piccolezza e nullità, in adorazione della Tua grandezza e sovranità; per non dare un passo deviante da Te; perchè Tu che mi cerchi mi possa raggiungere e prendere e unire a Te per sempre!”.

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Una Verità che mi trascende

Posté par atempodiblog le 16 novembre 2008

Una Verità che mi trascende dans Citazioni, frasi e pensieri monsnegritp5

“Si dice che non si può parlare della verità, se non si è coerenti. Come dire che la forza della verità si fonda sulla coerenza con cui io la vivo. Io preferisco affermare una Verità che mi trascende e mi giudica: le chiedo di rendere la mia vita meno incoerente, di aiutarmi ad essere testimone di una verità che salva. Se parlassero solo quelli che si credono coerenti, ci sarebbe un silenzio assordante, rotto soltanto dagli scribi, dai farisei e dagli imbecilli”.

di Mons. Luigi Negri (Vescovo di S. Marino e Montefeltro)

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La morte: tappa o termine della vita?

Posté par atempodiblog le 15 novembre 2008

La morte: tappa o termine della vita?
di Mons. Alessandro Maggiolini

La morte: tappa o termine della vita? dans Fede, morale e teologia monsalessandromaggiolin

Sfogliamo il Nuovo Testamento. «Dio ha stabilito che ogni uomo muoia» e allora «dovrà rendere conto del bene e del male compiuto». Non vi è eccezione: il destino di ciascuno è quello di vedersi troncare la libertà di decidere il proprio destino e di lasciare che il Signore tragga le conseguenze del proprio amore accettato o rifiutato.
Mi metto sul bordo di Viale Certosa, quello che porta al Cimitero comunale: motori che rombano e sfrecciano nel traffico cittadino, gonne variopinte al vento, perché la vita è bella – questo è il ritornello – e bisogna spremerla fino alla feccia del piacere. E accanto, lemme lemme e silenzioso, passa il carro funebre per di più mascherato da automobile civile, poiché sembra che ci si sia accordati per non pensare e alludere mai alla morte: e se nei discorsi comuni cade il tema, appare subito una sgarbatezza. Siamo eterni? Mi torna alla mente la novella di Pirandello dove il conduttore del carro funebre ha lasciato il mestiere del cocchiere civile e, per l’abitudine che ha, si avvicina al marciapiede dove un signore impettito cammina verso l’ignoto e si sente invitare: «Signore, vuoi salire? C’è posto».
Non c’è bisogno di molti ragionamenti: la vita, lunga o breve che sia, viene spezzata. E che cosa ci attende, dopo? E perché questa cesura, violenta o dolce, che pone fine alla nostra libertà? O meglio: che libera o imprigiona la nostra libertà?
Già. Poiché si può anche fingere per tutta la vita di giocare al girotondo dei giorni e degli anni. Ma la vita non è un cerchio che ritorna monotonamente su se stessa: è un vettore – se si vuoi parlare in termini scientifici – che ha un inizio e ha inevitabilmente un termine. Davvero si tratta di un termine? All’ultimo sospiro, che cosa succede? Si dà un annientamento della persona? Ma la persona è creata e redenta per l’eternità: per una eternità che si rinnova ogni momento.
Ed ecco l’interrogativo sul « dopo » che aiuta a cogliere il senso del morire e del vivere che ne può seguire. È un pensiero che può rivelarsi angoscioso quello di chi intuisce che esiste un termine al costruire il proprio destino in un dialogo di amore con Dio che può essere accolto piangendo di commozione, o rifiutato con rabbia irrivedibile.
Ma come? In un tempo come il nostro, dove tutto sembra essere dominabile, ha ancor senso accennare, sia pure di striscio, o buttare in faccia alla gente il destino eterno di beatitudine o di dannazione? E l’uomo non è fatto per la felicità che gli spot pubblicitari presentano ossessivamente? E che senso ha il peccato in sé e nelle sue conseguenze, quando ciò significa il fallimento della persona?
Ma si ponga che la vita terrena non abbia una conclusione.
La monotonia e una noia mortale non opprime i nostri giorni?
Ricordo una pagina di Gratry, il quale, alla fine delle scuole secondarie, si interroga sul suo domani: professore universitario? Lavoratore della terra? Poeta? E le domande che si ripresentano martellanti: e poi? E poi? Poi giunge un’ora di definitività e si prenderà coscienza di una solitudine disperata a cui si è votati o di una gioia larga come il cielo e splendente, dove ci attende il Signore che ha voluto morire per noi e che, risorto, ci attende a braccia aperte, impaziente.
Ecco il dramma della vita che non può essere cancellato come una banalità, né quando si è in chiesa, né quando si è al supermercato. Il Signore del cielo e della terra, l’Amore senza limiti che si è lasciato affiggere alla croce per noi ci attende.
Uno può anche fingere che tutto ciò sia fola di ritorno da un medioevo terrificante. E invece non si è che davanti al mistero della libertà: della libertà di chi stabilisce il proprio futuro e di chi non può impedire che Dio lo ami immisuratamente come vuole: può tentare di dimenticare questo orizzonte di ambiguità, ma non può impedire che Dio ami. E Dio, nel Signore Gesù, attende almeno una invocazione alla misericordia.
Buona morte. Che significa: buona vita, poiché la gioia che ci attende ha le sue anticipazioni anche nel nostro povero e traballante calendario. San Tommaso parla della grazia di Dio come di «praelibatio vitae aeternae»; c’è bisogno di tradurre?
«Expertus potest credere quid sit Jesum dirigere». C’è bisogno di tradurre?
A partire da queste considerazioni ci si può inoltrare nel mistero del male e della felicità – anche dell’attesa, prima del paradiso -, di cui ancora recentemente il Papa ha parlato nella sua splendida enciclica sulla Speranza. Perché lasciare cadere questi testi di un professore universitario che si fa umile fedele e alunno della Parola divina e fratello della sorte universale degli uomini?
Certo, ci si può anche lamentare perché la Chiesa sembra aver paura di toccare questi temi del destino eterno, e pare taccia per il timore di non essere accolta o per il desiderio di assecondare la direzione del vento della sciatta moda culturale di oggi – se si può parlare di cultura -. Il fatto è che quando il Papa, con lucidità di mistico, e con la semplicità del contadino che sale in cattedra, non dimentica la fatica di vivere; quando anche il Papa parla di questi argomenti, si volge l’attenzione ad altro. E invece, unica è la cosa necessaria nella vita. Chi ricorda il Catechismo sa bene a quali verità si allude. I Novissimi sono sempre certezze attuali e incidenti nella vita di ogni giorno.

Fonte: iltimone.org

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Privo di idee

Posté par atempodiblog le 14 novembre 2008

Privo di idee dans Citazioni, frasi e pensieri chestertonpc9

“Nessuno è più pericoloso di un uomo privo di idee, il giorno che ne trova una gli darà alla testa come il vino a un astemio.”

-Gilbert Keith Chesterton-

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« E’ la felicità il nostro fine ultimo »

Posté par atempodiblog le 14 novembre 2008


Dopo aver appreso, ieri, che Eluana è stata condannata a morte, mi è tornata in mente mia nonna e una frase che mi disse un mio amico, anni fa, guardandola sulla sedia a rotelle, divorata dall’alzheimer e con lo sguardo perso nel vuoto: « dovreste sperare che muoia così smetterebbe di soffrire ». Fu una frase che mi spaventò. Forse l’orgine della frase va cercata nei banchi di scuola, dove ti insegnano che l’uomo deriva dalla scimmia, che tutto l’essere umano è ridotto al suo corpo e che con la morte finisce tutto. Quando guardo mia nonna, che ancora oggi è inchiodata tra la sedia a rotelle ed il letto, non risco proprio a vederla come una cosa. Se la guardo vedo una storia, una vita… Ma cos’è la vita? La vita è un cammino che dal tempo va all’eternità ed il Cielo è la meta a cui dobbiamo tendere. Se non riusciamo a capire questo, allora la vita perde il suo significato. Forse, se non ci fossero le sofferenze ci dimenticheremo di stare con il naso in su a guardare al Cielo, ci dimenticheremmo di Dio.
Santa Faustina Kowalska nel suo diario ha scritto che ‘la sofferenza è il tesoro più grande che ci sia sulla terra. Essa purifica l’anima. Nella sofferenza conosciamo chi ci è veramente amico. Il vero amore si misura col termometro della sofferenza’.
Davanti ad una persona cara che soffre (per malattia, per disoccupazione, ecc…) si rischia spesso di perdere la serenità e questo fa si che la nostra compassione sia imbevuta di preoccupazioni che ci portano ad analisi disperante.  E quando non c’è più la speranza, viene meno anche la gioia di vivere. Ma il richiamo di Dio si sente ancora oggi: « si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se questa donna si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai » (ls 49,15).
L’uomo di oggi confina Dio fuori dalla sua vita perché senza Dio è il signore di se stesso, senza Dio è padrone della vita. Così prima di nascere e durante la vita si è in pericolo con l’aborto e l’eutanasia.
Ho sentito dire che l’eutanasia è una forma di amore. Ho sentito che Eluana avrà una dolce morte, ma non è vero: morirà per agonia senza acqua e cibo. Morirà di stenti. 
L’avesse saputo prima forse avrebbe accettato questa fine, ma una volta che è entrata nella sofferenza le sue idee potrebbero essere diventate diametralmente opposte. Sperimentare le sofferenze su se stessi può cambiare le persone.
Da ieri è possibile, con una sentenza di tribunale, smettere di nutrire chi con le proprie forze non può farlo. Quanti malati possono rietrare in questa casistica? Mia nonna? Anni fa, alla radio, ascoltai di un padre, ormai anziano, che scoprendosi vecchio e con un figlio diversamente abile a cui badare, ebbe il terrore di pensare che un giorno il figlio si sarebbe ritrovato senza di lui, e proiettando nel futuro angosce e paure, pensò che il figlio poteva essere atteso da giorni di dolore, così prese una rivoltella e lo sparò.
Ma chi di noi può sentenziare quale vita può essere vissuta e quale invece può essere soppressa?
Mi hanno atterrito alcune dichiarazioni secondo cui le suore che hanno amato, nutrito e vegliato su Eluana per 14 anni sarebbero crudeli. Sono frasi così assurde da sembrare false; eppure, ritornando al mio orticello, c’è chi vedendo che la mia famiglia aiuta mia nonna dandole mani per farla bere, mani per nutrirla, mani per pulirla, braccia per sorreggerla, gambe per farla camminare e occhi per cullarla… ha detto la stessa cosa. Forse lo sguardo di alcune persone attraversa gli esseri umani, ma non si ferma dentro di loro.
Troppo spesso verso i nostri cari si ha più un sentimento di paura che di amore. Amore è fidarsi di Dio che ama queste persone a noi care infinitamente di più – e meglio – di noi.  Quindi se Dio tollera – anche se non vuole – alcuni mali è per preparare sempre dei beni più grandi o per evitarci dei mali maggiori. Dio da ogni male può trarre un bene più grande.
Comunque, non tutte le sofferenze vengono da Dio. Molte ce le procuriamo noi stessi. Noi che facciamo fatica a capire il male perché questo è nato dagli angeli, noi che senza le sofferenze non cercheremmo Dio…
Ci consola sapere che la sofferenza è sempre foriera di grazie. Non soffriamo da soli perché Dio facendosi uomo ha attraversato la sofferenza.
Se le sofferenze servissero a mia nonna per raggiungere il Paradiso o per avvicinare a Dio chi le è accanto, allora spero che queste continuino anche perché so che non è sola, perché con lei c’è Dio che lo ha promesso. Ma poi una persona che potesse vivere, in piena salute, 200 anni… preferirebbe essere felice nel tempo o nell’eternità che quando saranno passati miliardi e miliardi e miliardi e miliardi e miliardi di anni sarà solo l’inizio?
La promessa della vita eterna non elimina la sofferenza dalla nostra vita però le dà un significato ed una prospettiva. La sola speranza che rende vincenti sul dolore, sulla malattia, sulla vecchiaia e sulla morte.
Leon Bloy diceva che « il dolore non è il nostro fine ultimo, è la felicità il nostro fine ultimo. Il dolore ci conduce per mano sulla soglia della vita eterna ».

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