Quella battaglia contro la verità
Posté par atempodiblog le 25 novembre 2008
Russia
Quella battaglia contro la verità
Pigi Colognesi – tracce.it (RIVISTA INTERNAZIONALE DI COMUNIONE E LIBERAZIONE)
La Rivoluzione d’ottobre compie novant’anni. Tra dibattiti, ricostruzioni storiche e celebrazioni di qualche nostalgico. Ma che cosa c’era alla radice di quel fatto capace di generare tragedie nella storia? Un rifiuto della realtà. E un pericolo molto attuale
La Rivoluzione sovietica compie novant’anni. Siamo invasi da ricostruzioni storiche, interpretazioni politiche, dotti dibattiti su meriti e torti dei seguaci di Lenin che hanno attuato il primo esperimento di società comunista, col suo strascico di morti, dittatura, gulag. Non mancano i nostalgici, pervicacemente attaccati all’idea che, in fondo, quella rivoluzione è stata e rimane un grande ideale, malauguratamente tradito dai suoi stessi promotori. Né mancano i parallelismi tra l’Urss e l’attuale Russia putiniana, tornata a far la voce grossa sullo scacchiere internazionale.
Qui non ci occupiamo di tutto ciò. Vogliamo tentare di rispondere a un’altra domanda. Cosa ci dice oggi la Rivoluzione d’ottobre? Va da sé che la storia non si ripete e che, quindi, le condizioni attuali sono così diverse da quel lontanissimo 1917 che ogni parallelo potrebbe apparire forzato. Tuttavia la storia dovrebbe essere magistra vitae e pertanto pertinente al nostro presente. È dunque importante cercare di capire se qualcosa dei movimenti spirituali, culturali e politici che hanno determinato la Rivoluzione sovietica è presente ancora oggi. Tentiamo di rispondere utilizzando la mostra che la Fondazione Russia Cristiana ha curato nella scorsa edizione del Meeting di Rimini.
Il caso Tolstoj
Lev Tolstoj è stato l’intellettuale che più di ogni altro ha determinato la cultura russa dal secondo Ottocento fino alle soglie della crisi rivoluzionaria (muore nel 1910). Per tutta la vita inseguì l’ideale della giustizia e del bene, fino a costruire una sorta di religione fondata sulla non violenza, la bontà, lo spirito comunitario. Ovviamente Tolstoj – cui non sfuggivano le fondamentali domande religiose che urgevano in lui a un’apertura al Mistero – dovette fare i conti anche col cristianesimo. Ma ne accettò solo quello che poteva rientrare negli schemi della sua razionalistica visione del mondo. Benissimo l’insegnamento morale contenuto nel Vangelo, ma che non gli si parlasse della persona di Cristo (disse che non avrebbe neppure avuto piacere di incontrarlo) e tanto meno di una qualche autorità (quella della Chiesa) esterna alla sua coscienza. E la Chiesa ortodossa lanciò contro di lui l’anatema, anche per preservare dalla confusione il popolo che poteva scambiare la predicazione “buonista” di Tolstoj per vero cristianesimo. Da parte sua la Chiesa ortodossa si trovava da due secoli gravemente asservita al potere laico, come si trattasse di un ministero alla pari di altri; tanto che a capo del Santo Sinodo, la massima autorità ecclesiastica russa, sedeva un funzionario laico, nominato dallo Zar. Un cristianesimo, quindi, formalmente ossequiato, ma per certi aspetti lontano dalla vita del popolo e, soprattutto, dal cuore della riflessione culturale, ove si costruiva la mentalità futura. La presunzione razionalistica che si crede capace di costruire “l’uomo nuovo” e la debolezza esistenziale e culturale della Chiesa hanno sicuramente contribuito a creare il clima in cui lo spirito rivoluzionario ha potuto attecchire.
Non è difficile trovare analogia con l’oggi. Da un lato, un cristianesimo lontano dagli interessi integrali della vita, auto-recluso in una evanescente dimensione “spirituale” oppure occupato a cercare una piccola visibilità mediatica. Dall’altro, un mondo culturale e intellettuale che non può non riconoscere i “valori” del cristianesimo, ma che ne rifiuta il metodo essenziale: quello di una compagnia cui aderire e obbedire. In questa condizione si crea per forza un vuoto sia di consapevolezza, sia di esperienza. E uno spirito rivoluzionario (magari non di carattere sociale, ma, per esempio, ammantato di pretese scientifiche) può facilmente trovare terreno di coltura in questo vuoto.
Le radici del terrorismo
Il terrorismo aveva radici antiche in Russia (lo zar Alessandro II era morto in un attentato nel 1881), ma negli anni immediatamente precedenti la rivoluzione (e con immensa soddisfazione dei rivoluzionari stessi) raggiunse livelli spaventosi: dal 1900 al 1917 ci furono oltre ventitremila attentati con più di undicimila morti. La vita umana non aveva più nessun valore di fronte alla volontà rivoluzionaria di far cadere il regime. Fino al punto che l’assassinio in quanto tale (a prescindere dai suoi obiettivi politici) era diventato un “valore”. E se a morire in qualche attentato erano anche civili innocenti, non importava; anzi: poteva servire a creare il desiderato clima di terrore. C’erano pure i kamikaze (nel 1907 una ragazza ventunenne entrò nella direzione carceraria di San Pietroburgo con addosso cinque chili di nitroglicerina) e i progenitori delle autobombe (una carrozza imbottita di esplosivo, lanciata contro l’abitazione del Primo Ministro).
Prima della Rivoluzione d’ottobre ci fu una specie di prova generale, nel 1905. Riflettendo su quel primo sussulto, un gruppo di pensatori (Bulgakov, Berdjaev, Struve e altri) pubblicò una raccolta di saggi intitolata La svolta (Vechi). Vi analizzavano soprattutto le colpe della classe intellettuale. Ma quel che qui importa rilevare è che gli estensori di Vechi avevano acutamentemesso in evidenza l’assurda propensione al nulla, alla distruzione, alla morte che animava i rivoluzionari. È impressionante rileggere oggi quelle pagine. Sembra che gli estensori stiano descrivendo la malattia da cui è afflitta la nostra società: non c’è nulla di certo, ogni vecchio valore va distrutto, le basi della convivenza devono essere completamente sradicate, ogni tradizione rifiutata. Essi parlano esplicitamente di funesto «amore per la morte», di fascino del nulla, come del tarlo sotterraneo ma attivissimo che rode le radici della società.
«Lottare contro il gelo»
Non possono non venire in mente le cronache attuali: la paura del terrorismo sta ormai nel sottofondo della nostra consapevolezza quotidiana, così come l’ansia di fronte a trasformazioni che non sappiamo governare, dall’imponente fenomeno migratorio alle incontrollabili mutazioni climatiche. Ma quel che più colpisce è la somiglianza della situazione spirituale di fondo descritta da Vechi con la nostra. La violenza gratuita o per futili motivi (in famiglia, nelle scuole, sulle strade) denota un grave sprezzo per la vita, una sua radicale svalutazione. La verità sembra diventata una chimera irraggiungibile, tanto che il percorso educativo la lascia fuori dal suo orizzonte, sostituendola con qualche blanda regola di convivenza (che alla fine non può che essere un equilibrio di potere). L’assenza di certezze viene eretta a criterio di sanità e laicità del pensiero, generando una insicurezza di fondo dove ogni avventurismo può trovare spazio. «Noi amiamo la morte», dicono nei loro messaggi alcuni kamikaze; e così sembrano confermare che la religione è nemica della vita. Mentre l’Occidente «sazio e disperato» la vita l’ama così poco che i figli stessi diventano un problema. Per questo Benedetto XVI ha parlato di una grave malattia morale che attanaglia la nostra civiltà e che consiste esattamente in una strana propensione per il nulla.
Da premesse simili derivò la rivoluzione sovietica. Non sappiamo cosa ci riserva il futuro. Chiara è la responsabilità dei cristiani: la testimonianza che il nulla non può vincere perché è già stato sconfitto. Come diceva Sergej Fudel’, un credente russo che ha passato decenni in lager, il nostro compito è quello di «lottare contro il gelo che attanaglia il mondo col tepore del proprio respiro».
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