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Pellegrini e turisti

Posté par atempodiblog le 20 novembre 2008

Il «boom» italiano delle visite ai luoghi sacri L’anno scorso coinvolti quaranta milioni di persone
di Giovanni Gazzaneo – Avvenire

Sono quaranta milioni coloro che ogni anno in Italia scelgono come meta un santuario, un monastero, una chiesa storica. La basilica di San Pietro e il santuario di padre Pio condividono il primato: sette milioni di pellegrini. Al secondo posto la basilica di San Francesco ad Assisi con cinque milioni e mezzo di presenze, quindi il santuario di Loreto con 4 milioni e mezzo, la basilica di Sant’Antonio a Padova con 4 milioni e duecentomila. Le stime di Trademark per il nostro Paese dicono che il 2007 è stata l’annata-record per i pellegrinaggi e il turismo religioso in Italia, superando le presenze totalizzate in occasione del Giubileo del 2000. Il mondo variegato del pellegrinaggio e del turismo religioso vanta un incremento del 20 per cento rispetto al 2006, con un fatturato complessivo di quattro miliardi di euro.
Un fenomeno su cui per tre giorni accende i riflettori la quinta edizione di Aurea, la Borsa internazionale del turismo religioso e delle aree protette, che s’inaugura oggi a Foggia (vedere box). Accanto al classico pellegrino cresce il turista che si reca nei luoghi sacri soprattutto per motivi culturali, per amore della storia, dell’arte, dell’architettura. E proprio l’arte e l’architettura potrebbero essere una grande occasione di e-vangelizzazione, perché sono l’espressione in cui si è incarnata la fede di una comunità in un determinato momento storico. Diceva nel 2002 il cardinale Joseph Ratzinger: «Affinché oggi la fede possa crescere dobbiamo condurre noi stessi e gli uomini in cui ci imbattiamo a entrare in contatto con il bello e annunciare la verità della bellezza».
Per il nostro Paese ormai è consuetudine parlare di «museo diffuso»: 30mila chiese storiche, 1700 santuari, 400 monasteri e altrettante abbazie. Sugli 8097 comuni, 752 vantano la presenza di opere d’arte di un certo rilevo e i beni culturali ecclesiastici costituiscono almeno i due terzi del patrimonio nazionale. Secondo il Censis la regione che ospita più luoghi sacri è il Lazio (21,6%), seguito da Lombardia (20,4) e Toscana (19,5).La diffusione di
loca sacra è preponderante nel Centro-Nord. Nel Sud fa eccezione la Sicilia, che con il 12,2 per cento supera anche l’Umbria. La più alta concentrazione di santuari è in Lombardia (241), seguita dall’Emilia (164) e dal Lazio (152). Dalle pievi sperdute nella campagna e sulle colline aretine alle grandi cattedrali, tutto parla della sacralità del nostro Paese. «Viaggiando potrai trovare città senza mura e senza lettere, senza re e senza casa, senza ricchezze e senza monete; ma una città senza templi e senza dei… nessuno l’ha mai veduta né la vedrà mai».
Con queste parole Plutarco portava alla luce il cuore religioso dell’esperienza umana e del viaggio insieme. L’uomo moderno viaggia come l’antico. Con modalità e possibilità diverse, anche con stimoli differenti. Ma entrambi all’origine del cammino hanno la meta: la ricerca di senso. Nonostante la secolarizzazione che ha ormai eroso ampi strati della società, la nostalgia del sacro è nell’uomo moderno uno dei principali motivi per mettersi in cammino.
«La grande strada – scriveva Dostoevskij –- è qualcosa che sembra non avere fine; somiglia a un sogno, è nostalgia dell’Infinito». Sono in tanti a vivere oggi, come ieri, la nostalgia dell’Infinito. Non solo in Italia. Il fenomeno del pellegrinaggio e del turismo religioso è in crescita anche a livello mondiale: nel 2007 per il Wto sono stati 330 milioni i «viaggiatori religiosi», per un fatturato di 18 miliardi di dollari. Per l’estero il primato in classifica spetta a Nostra Signora di Guadalupe con oltre 10 milioni di pellegrini, Lourdes 7 milioni, Gerusalemme 6 milioni, Fatima e Santiago di Compostela 4 milioni e mezzo.
È Dio stesso a rendere l’uomo un viandante, un pellegrino. Ad Abramo Dio dà un solo semplice ordine:
lek-lekà, cioè «vattene», che può essere tradotto anche «vai verso te stesso». Ogni pellegrinaggio è un cammino verso un luogo sacro: «L’homo religiosus – scrive Mircea Eliade – crede che esista una realtà assoluta, il sacro, che trascende questo mondo ma che in esso in qualche modo si manifesta e che per questo lo santifica e lo rende reale». Questi luoghi dell’infinito, censurati da una cultura tecnica e opaca, ubriaca di consumo dell’effimero, sono i segni del santo e del sacro che di nuovo ci raggiungono.
E così il secolo scorso, quello che avrebbe dovuto decretare il tramonto definitivo del sacro, si è chiuso invece con un’inaspettata aurora, quella del turismo religioso e dei grandi pellegrinaggi. Negli anni Ottanta tra Roncisvalle e Compostela si mettevano in cammino 400 pellegrini all’anno. Nel 2000, 400 al giorno, nel 2004 la media giornaliera ammontava a 700. Certo non tutti coloro che si instradano lungo il moderno ‘Cammino’ sono animati dallo spirito antico del pellegrino. Se il percorso fino alla tomba di san Giacomo è
diventato un trekking alla moda, rimane comunque un’esperienza forte, spirituale perché innanzitutto fortemente fisica. E coinvolge anche chi è rimasto lontano dalla pratica religiosa.
Il cammino del fedele, del cristiano si incrocia sempre più con quello che il sociologo Nicolò Costa definisce il «turista esistenziale»: «È il viaggiatore più simile al pellegrino religioso, sono irrequieti cercatori del ’senso ultimo della vita’». Le ricerche documentano che tra i visitatori dei santuari ve ne sono molti che dall’istituzione Chiesa sono sempre stati distaccati.
Resiste pure il pellegrinaggio vecchio stile, in cui la fede dei semplici trova la sua glorificazione. A Roma un caso straordinario è il pellegrinaggio al santuario del Divino Amore, che ogni sabato notte coinvolge migliaia di persone. Romani, ma anche credenti di altre regioni e immigrati si trovano riuniti in un flusso unico che nella notte sale le prime balze dell’agro romano alla luce delle fiaccole e della preghiera. E infine ci sono coloro che sostano negli eremi e nei monasteri, molti anche per periodi di ospitalità. Ricerca di Dio e di se stessi, di silenzio e di deserto. In tanti che bussano alle porte dei conventi sembra affiorare il canto di Davide in fuga da Saul nel deserto di Giuda: «Ha sete di te il mio fiato, si strugge per te la mia carne in terra di aridità e assetata senz’acqua». Il tempo della ricerca. Davide, scrive Erri De Luca, usa per la parola cercare un verbo raro
shahàr che indica ‘un cercare affannato, d’urgenza. Ma in ebraico shahàr indica anche l’aurora… Cerca Dio come si cerca l’aurora nella notte.

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IL SENSO DELLA VITA NASCOSTO NELLA DEPRESSIONE…

Posté par atempodiblog le 20 novembre 2008

IL SENSO DELLA VITA NASCOSTO NELLA DEPRESSIONE… dans Antonio Socci antoniosocciff4ml2

A proposito di Buffon e delle suore…
di Antonio Socci – Libero

Cosa dà senso alla vita? Cosa le dà valore e gusto? Il soldi? Il successo? La salute? Per cosa vale la pena vivere? Mi ha colpito, in questi giorni, il casuale intrecciarsi sui giornali di storie apparentemente lontanissime. Tre storie.
Quella di Gigi Buffon, il portierone della Juventus e della Nazionale, quella di Eluana Englaro e quella di altre due donne, Maria Teresa Olivero e Caterina Giraudo, sequestrate cinque giorni fa in Kenia dove vivono come missionarie.

Buffon ha pubblicato un libro dove racconta la sua storia: “Numero 1”. Secondo il senso comune questo allegro giovanottone ha tutto per essere felice. Cosa gli manca? E’ il più grande portiere del mondo, ha la giovinezza, la salute, la celebrità, la prestanza fisica, il successo, i soldi, gli amori, gli amici, un lavoro che è la sua passione, perfino un carattere solare, la simpatia e il buonumore. Non gli manca niente.

Eppure proprio lui racconta come un giorno di dicembre del 2003 gli si è spalancato sotto i piedi l’abisso della depressione. Senza motivi particolari. Un velo scuro sempre più opprimente, uno smarrimento progressivo: “cosa mi succedeva?”. Racconta di momenti in cui si sentiva sprofondare: “ero impaurito… mi tremavano le gambe all’improvviso, un malessere continuo mi attraversava… come se fossi continuamente altrove”.

Quello di Buffon non è un caso strano. In forme diverse è quasi la normalità per i cosiddetti “uomini di successo”. Cesare Pavese diceva: “c’è qualcosa di peggio del fallire nei propri progetti: è riuscirci”. Perché è lì, quando sei “arrivato”, quando stringi fra le mani quello che volevi possedere, che avverti il nulla e ti scopri insoddisfatto, destabilizzato. Tanto da smarrirti.

Per superare questo senso “di paura e insicurezza” Buffon si è fatto aiutare. E comunque un giorno, d’improvviso, il sole è tornato: paradossalmente è tornato a splendere proprio con “l’orrenda partita Italia-Danimarca 0-0”, a dimostrazione che davvero il “male di vivere” non dipende da circostanze negative. Ma sta nell’anima.

L’uscita del tunnel
Oggi il celebre calciatore racconta cosa comprese all’uscita dal tunnel: “I soldi non sono tutto. In testa mi rimbalzavano queste parole. E all’improvviso capii quanto fossero vere. Mi resi conto che in certe situazioni i soldi con la tua vita non c’entrano nulla, non c’entrano coi tuoi valori, con quello che hai imparato, che impari ogni giorno e che puoi trasmettere a chi ti sta accanto”.

Quel gorgo oscuro – che sembrerebbe solo una disgrazia – in realtà gli ha lasciato un regalo prezioso, una consapevolezza più vera della vita, di ciò per cui vale la pena vivere. Tante cose possono farci capire meglio l’esistenza e renderci più umani e più saggi. Anche circostanze dolorose. Tutto può aprirci gli occhi e rivelarsi una carezza misteriosamente amica che dà una percezione più giusta della vita, che rende più autentici. Sì, perfino il dolore.

Proprio attraverso di esso alcuni hanno fatto incontri che hanno dato senso alla loro vita, sono diventati uomini eccezionali che danno speranza agli altri. Perle preziose. E’ il caso – per citare un altro campione del calcio – di Stefano Borgonovo che, a 44 anni, dopo la gloria dei prati verdi si è scoperto ammalato di Sla, una tremenda croce che gli impedisce ogni movimento, cosicché da tre anni vive su un letto, attaccato a un respiratore. La mentalità di oggi definirebbe tutto questo “un inferno”.

E invece chi ha incontrato Stefano, chi ha visto l’amore da cui è circondato dalla sua bella famiglia, chi ha potuto stupirsi dalla luce, dalla positività e dalla forza che emanano dal suo volto, come tanti amici calciatori (a partire da Roberto Baggio), commossi dalla sua umanità (due mesi fa gli hanno dedicato una partita allo stadio di Firenze, con lui a bordo campo) ebbene chi lo ha incontrato testimonia che è difficile trovare un uomo così vero, umano e appassionato alla vita. Uomini così sono la speranza del mondo.

Sembra incredibile, ma c’è un’impressionante quantità di persone così speciali che – nella malattia – vivono una vita più piena e umana di noi che magari scoppiamo di salute, ma non sappiamo perché siamo al mondo. Si può fare a meno di tutto, ma non del senso dell’esistenza. Che è la cosa essenziale e misteriosa che ti manca quando sembra non ti manchi niente. Tutto in noi lo desidera, lo cerca. Siamo come mendicanti, senza saperlo.

Non sapere chi sei e perché stai al mondo, non percepire l’utilità della tua esistenza, non sentirsi amati e non amare: questo è l’inferno. Non la mancanza di denaro o di salute.

Spettro della solitudine
Soldi, successo e salute non mettono al riparo dalla solitudine, dalla tristezza e dalla disperazione. Anzi, la nostra epoca mostra il contrario. Lo prova l’uso industriale che nelle società opulente si fa di psicofarmaci, alcol e droghe, cioè di trucchi chimici per eludere il “male di vivere”. L’uso compulsivo e congestionato del sesso, che caratterizza il nostro tempo di pornomania di massa, è un’altra droga per anestetizzare la solitudine, la sensazione d’inesistenza che ci avvolge.

Non c’è sciagura più grande, diceva Teilhard de Chardin, della perdita del gusto di vivere. Questa infelicità è un’epidemia dilagante. Nel mondo si verifica un suicidio ogni 40 secondi, un milione di morti l’anno. Secondo l’Oms dal 1950 al 1995 la percentuale dei suicidi è cresciuta del 60 per cento. In Italia se ne contano 4000 ogni anno ed è molto significativo che l’area più “colpita” sia il Nord-Est (Friuli 9,8 per cento), mentre la percentuale più bassa di suicidi si registra in Campania (2,6 per cento). Prova ulteriore che davvero non è il benessere economico, né il contesto sociale degradato, né la difficoltà materiale della vita a definire l’infelicità.

Per questo mi chiedo se la rappresentazione del presente che continuamente facciamo su giornali e televisione sia giusta. Non parliamo che di soldi, di bollette, di mutui, di sprechi, di tagli, di questioni sociali. Cose importanti – sia chiaro – ma la realtà è tutta qui? Noi siamo solo i nostri problemi sociali?

La risorsa della speranza
Siamo sicuri che il benessere che inseguiamo, come meta unica e assoluta, sia veramente la felicità? Certi ripetitivi programmi di informazione fanno pensare a una battuta di Bruce Marshall: “Oggi la gente vive nel benessere senza gioia. In fondo a una lunga sfilata di bollette della luce, del telefono e del gas, non intravede altro che il conto delle Onoranze funebri”.

Eppure ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne veda la filosofia marxisteggiante ed economicista che ci domina: le cose che rendono la vita degna di essere vissuta, per le quali si può dare tutto, di solito sono oscurate. Perché non parlarne? Perché non raccontare le tante persone che testimoniano una speranza più grande delle difficoltà e delle sofferenze?

Dal rapimento, cinque giorni fa, delle due suore italiane in Kenia, scopriamo che ci sono fra noi persone – di cui i media non si occupano – che sono capaci di scelte di vita eccezionali, di un eroismo quotidiano (così pure le suore che da anni assistono amorevolmente Eluana). Perché lo fanno? Da cosa sono mosse? Cos’hanno conosciuto loro che noi non sappiamo? Quale tesoro hanno trovato che sa trasformare il dolore in amore? Abbiamo bisogno di saperlo, perché scoprire la speranza, per un popolo, è più importante che scoprire il petrolio.

E’ la risorsa più preziosa, come dimostra la nostra storia. Come c’insegnò don Giussani all’indomani di Nassiriya, davanti alla testimonianza della moglie del brigadiere Coletta. Nel dopoguerra avevamo un paese in ginocchio, uno stato a pezzi, un popolo sconfitto. Ed eravamo già prima una terra povera, senza materie prime. Eppure la nostra gente seppe esprimere un’energia inaudita che, nel giro di pochi anni, ci ha trasformato in una grande potenza economica. Da quali radici dimenticate è venuta quell’energia morale? Da quale speranza? Quale sconosciuta gioia di vivere sa ricostruire sulle macerie?

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