A coloro che si sentono falliti
Posté par atempodiblog le 9 novembre 2008
« Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo » (Col 1,24)
Questa lettera la scrivo un po’ anche a me. Sono convinto, infatti, che tutti nella vita ci siamo portati dentro un sogno, che poi all’alba abbiamo visto svanire…
Io, per esempio, mi figuravo una splendida carriera. Volevo diventare santo. Cullavo l’idea di passare l’esistenza tra i poveri in terre lontane, aiutando la gente a vivere meglio, annunciando il Vangelo senza sconti, e testimoniando coraggiosamente il Signore Risorto. Ora capisco che in questo sogno eroico forse c’entrava più l’amore verso me stesso che l’amore verso Gesù. Comprendo, insomma, che in quegli slanci lontani della mia giovinezza la voglia di emergere prevaleva sul bisogno di lasciarmi sommergere dalla tenerezza di Dio.
E’ il difetto di quasi tutti i sogni irrealizzati: quello di partire con un certo tasso di orgoglio. E il mio non ne era indenne. Ciò non toglie, però, ritrovandomi oggi in fatto di santità neppure ai livelli del mezzobusto, mi senta nell’anima una grande amarezza. I destinatari, comunque, di questa lettera non sono coloro che, come me, sperimentano le delusioni dei sogni e il pianterreno prosaico delle piccole conquiste. Ma sono tutti quelli che non ce l’hanno fatta a raggiungere neppure gli standard sui quali « normalmente » scorre una esistenza che voglia dirsi realizzata.
Amerigo, per esempio, che ha faticato tanto per laurearsi in medicina e, immediatamente dopo la specializzazione, ha dovuto accantonare ogni progetto di « brillante carriera » per un distacco irreversibile della retina.
Ugo, ragazzo prodigio fino alla maturità classica che si è insabbiato nelle secche degli esami universitari, e non è più riuscito a districarsene. Oggi ha quarant’anni, e sua moglie, ad ogni lite, gli rinfaccia il fallimento di essersi ridotto a fare il fattorino presso lo studio di un avvocato.
Marcella, a cui tutti profetizzavano un futuro carico di successi, e che dopo i corsi di perfezionamento in pianoforte all’Accademia Chigiana di Siena ha avuto decine di occasioni per affermarsi. Ha rifiutato tanti partiti, uno meglio dell’altro. Alla fine si è messa con un uomo divorziato che è fallito, e ha dovuto vendersi il pianoforte a coda che le aveva comprato suo padre.
Lucia che straripava di entusiasmo, e voleva diventare missionaria. In primavera sfogliava le margherite per leggervi presagi di felicità, ma poi non è partita perché i suoi l’hanno ostacolata. Ora margherite non ne sfoglia più, ed è finita a fare la commessa in un negozio di articoli da regalo.
Ecco, a tutti voi che avete la bocca amara per le disillusioni della vita voglio rivolgermi, non per darvi conforto col balsamo delle buone parole, ma per farvi prendere coscienza di quanto siete omogenei alla storia della salvezza. A voi che, cammin facendo, avete visto sfiorire a uno a uno gli ideali accarezzati in gioventù. A voi che avete meritato ben altro, ma non avete avuto fortuna, e siete rimasti al palo. A voi che non avete trovato mai spazio, e siete usciti da ogni graduatoria, e vi vedete scavalcati da tutti. A voi che una malattia, o una tragedia morale, o un incidente improvviso, o uno svincolo delicato dell’esistenza, hanno fatto dirottare imprevedibilmente sui binari morti dell’amarezza. A voi che il confronto con la sorte felice toccata a tanti compagni di viaggio rende più mesti, pur senza ombra di invidia.
A tutti voi voglio dire: volgete lo sguardo a Colui che hanno trafitto!
La riuscita di una esistenza non si calcola con i fixing di Borsa. E i successi che contano non si misurano con l’applausometro delle platee, o con gli indici di gradimento delle folle.
Da quando l’Uomo della Croce è stato issato sul patibolo, quel legno del fallimento è divenuto il parametro vero di ogni vittoria, e le sconfitte non vanno più dimensionate sui naufragi in cui annegano i sogni. Anzi, se è vero che Gesù ha operato più salvezza con le mani inchiodate sulla Croce, nella simbologia dell’impotenza, che non con le mani stese sui malati, nell’atto del prodigio, vuol dire, cari fratelli delusi, che è proprio quella porzione di sogno, che se n’è volata via senza realizzarsi, a dare ai ruderi della nostra vita, come per certe statue monche dell’antichità, il pregio della riuscita.
Non voglio sommergervi di consolazioni. Voglio solo immergervi nel mistero. Nella cui ottica una volta entrati, vi accorgerete che gli stralci inespressi della vostra esistenza concepita alla grande, le schegge amputate dei vostri progetti iniziali, le inversioni di marcia sulle vostre carreggiate mai divenute carriere, non soltanto inutili, ma costituiscono il fondo di quella Cassa deposito e prestiti che alimenta ancora oggi l’economia della salvezza.
A nome di tutti coloro che ne beneficiano vi dico grazie!
Vostro don Tonino Bello
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