La disfida di Halloween
Posté par atempodiblog le 24 octobre 2008
La festa della zucca è innocua oppure è soltanto una ricorrenza consumistica, anzi pericolosa, che finisce per irridere i riti sacri tradizionali e per far dimenticare contemporaneamente il senso della morte?
di Roberto Mussapi - Avvenire
Avevo già espresso, tempo fa, il mio fastidio per la festa di Halloween. Poiché continua a imperversare, con la fatalità dei fenomeni più diffusi e immotivatamente accettati (il presenzialismo televisivo, i grandi fratelli e le isole dei presunti o sedicenti famosi), ma con un’ombra più inquietante, mi pare il caso di soffermarmi su questa carnevalata dello spirito, su questa « festa de noantri » dove il tema però non è la porchetta o il vino dei castelli, ma l’anima, il suo destino dopo la morte. La cupa festa chiaroscurale di Halloween mette infatti in scena zucche svuotate da zucche vuote, che impersonano spiriti dei morti, i quali in tale occasione verrebbero a visitarci. E precede quella dei Santi e di Morti. La prima riguardante i cattolici, che nei Santi vedono una sopravvivenza alla vita straordinaria, esemplare per esemplarità di comportamento già in vita. La seconda, quella dei morti, credo sia una festa di tutti: i morti sono di tutti e lo strazio del decesso riguarda perché ferisce allo stesso modo credente e non credente, che pure hanno, per il « dopo », prospettive ben differenti. Dante ha una visione della morte diversa da quella di Foscolo, ma è identico nei due poeti lo sgomento dell’attimo unito a un subitaneo desiderio, anzi bisogno, d’immortalità, a un perdurare comunque degli affetti, o in assoluto o nel non minimale assoluto della memoria.
La festa di Halloween attinge a tradizioni afroamericane serie, riguardanti il rapporto tra il vivente e gli antenati, tra l’istante e gli spiriti dei morti, tra il presente e l’origine. Cose serie, ripeto, inscritte nell’ordine sacro in cui in ogni tempo e in ogni parte del mondo l’uomo si interroga da sempre sul proprio destino. Tramutata così in carnevalata americana non offende solo il senso della vita e della morte, la cognizione del dolore, di noi contemporanei, non importa assolutamente se credenti o non credenti, offende anche lo spirito originario e antico da cui è stata presa in prestito per essere poi distorta, tramutata in parodia.
Non intendo colpevolizzare chi innocentemente, con la famiglia o gli amici, festeggia questo obbrobrioso atto di scherno ai defunti e allo spirito: intendo metterlo in guardia, fargli sapere che, in buona fede, sta scherzando col fuoco. Se oggi la vita non vale nulla e padri e figli si ammazzano come bestie, se si sceglie ciecamente la morte altrui e propria in folli scorribande notturne dopo la discoteca, se ci si distrugge a quindici anni con droghe acquistate davanti alla scuola e consumate in gruppo con inquietanti corollari, se a Perugia avviene un delitto esemplare per sprezzo di ogni forma di respiro, se ragazzotti ignoranti sfondano le porte delle chiese di notte per improvvisare orridi riti satanisti, con fiumi di sangue, non è forse perché non abbiamo più il senso tragico della morte? Certo la festa in questione non ha nessuna intenzione malvagia, sia chiaro. Ma sottende una sottovalutazione, anzi una farsesca messa in ridicolo di una questione di fondo.
Non è il caso di svegliarci rispetto a riti questa volta innocenti e pacifici, ma nel fondo sprezzanti del sacro confine tra vita e morte? Che, sia chiaro, non deve essere un incubo puritano, ma al contrario un ringraziamento alla vita, un inno a tutto ciò che respira, e che, se amato, vivrà ancora, e per sempre, ovunque ognuno di noi gli trovi posto secondo la sua sensibilità, in Cielo o semplicemente nel suo Cuore.
E se provassimo a rendere «cristiana» la festa?
I nostri antenati hanno saputo trasformare in autentico senso religioso i riti pagani. E noi?
di Roberto Beretta – Avvenire
La zucca è uno strano vegetale, che quando le metti davanti un ostacolo – sia un muro, sia una grossa e apparentemente invalicabile pietra, per non dire una rete o qualsivoglia altra recinzione – cerca, spinge, annusa e s’insinua nelle minime fessure fino a che, un bel giorno, ti ritrovi nell’orto una grossa cucurbitacea che certo non avevi piantato, voluto e programmato nemmeno; ma c’è. Eccome se c’è. La paraboletta tardo-autunnale non ha molte pretese, se non quella di attirar l’attenzione su un dato di fatto assai pratico e peraltro robustamente fondato su dati storici: ogniqualvolta cioè i cattolici si sono arroccati in difesa, hanno sempre inguaribilmente fallito (e, Halloween a parte, dobbiamo pur confessare che oggi la Chiesa gioca spesso il catenaccio). Non si tratta soltanto dell’applicazione pedissequa del buon (buon?) senso comune – tipo «La miglior difesa è l’attacco»; no, qui si va oltre: è che il cattolicesimo è fatto per essere espansivo, missionario, per contagiare ed entusiasmare, sennò è morto. E non riesce nemmeno a mantenere le posizioni che si era illuso di aver «conquistato» a mai più riparlarne.
Dipinto lo sfondo, il quale peraltro dovrebbe suggerire prudenza dallo sparar anatemi e indire crociate pastorali, non risulta inutile annotare che – in fondo – la Chiesa vien ripagata della sua stessa moneta. Già. Fu almeno dal IV secolo, infatti, che la saggezza dei Padri (non tutti, per la verità: ci fu anche chi abbatté gli idoli con l’ariete e la spada…) ha preferito mediare anziché cancellare, sovrapporsi e trasfigurare piuttosto che annullare, incenerire, seppellire, censurare. Ovvero: le feste pagane, i nostri antenati le hanno sapute «cristianizzare», riciclando intelligentemente il contesto – ormai ben introdotto nella tradizione popolare – e imbottendolo di contenuti completamente nuovi. Se dunque Hallowen (che, ricordiamolo, significa letteralmente «vigilia di Ognissanti») dovesse riprendere le sue vesti celtiche – vere o presunte che siano – o piuttosto ammantarsi di lustrini consumistici oppure celarsi sotto rituali più o meno «satanici», non farebbe che riappropriarsi di un territorio già suo; e a noi resterebbe semmai da meditare come e perché non ci sia data la forza culturale (e fors’anche spirituale) per ripetere l’impresa dei nostri antedecessori.
Ogni generazione ha i suoi modi per riflettere sulla morte: nel Seicento lo si faceva meditando davanti a un teschio, oggi sganasciandosi di fronte a una cucurbitacea intagliata. Ma lo scherzo e la stessa parodia non sono sempre stati nei secoli – dalle «danze macabre» al cinema horror – sistemi per esorcizzare la paura, in fondo dunque per riconoscerla, sia pure in via di paradosso e per contrari? Il nostro tempo cerca confusamente i contorni del mistero della vita e lo fa come sa, come può: poveramente, forse; carnascialescamente, anche. Del resto, bisognerebbe andare ben lontano per rintracciare le radici di una «scomparsa della morte» che coinvolge ormai tutti gli ambiti sociali (dagli ospedali alle chiese) e interessa versanti etici, intacca abitudini familiari, induce comportamenti nuovi. Dovrebbe sfiorarci dunque il dubbio che, con l’innocuo dilemma «Dolcetto o scherzetto?», i nostri figli mascherati da scheletri balbettino a modo loro (ma forse è l’unico che conoscono) una domanda – magari malposta o superficiale, comunque una domanda. Il futuro sarà quel che risponderemo.
Tratti da Holy Queen
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