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Come non perdere la Fede

Posté par atempodiblog le 24 octobre 2008

Come non perdere la Fede dans Fede, morale e teologia RM

Questi sono tempi in cui la fede è messa alla prova e in cui bisogna essere saldi. Nella Sacra Scrittura quando si parla della prova, del mistero d’iniquità, del drago, del leone ruggente, ecc. alla fin fine la conclusione è sempre RESISTETE SALDI NELLA FEDE.
Per vincere la battaglia contro il mondo e contro l’impero del male, bisogna restare saldi nella Fede. Gesù nella Passione ha resistito saldamente alla Sua Missione mentre gli apostoli gli apostoli sono stati sbattuti dal vento.
Restando saldi nella Fede conseguiamo la Vittoria.
La prima arma è la Fede, poi la Preghiera, poi la Speranza, poi la Carità (bisgona aiutare gli altri quando c’è la bufera).
La Fede e la Preghiera sono unite tra loro. Chi non prega perde la Fede. Pregando si conserva, si alimenta e si irrobustisce la Fede.
La Madonna a Medjugorje ha detto che è venuta a risvegliare la Fede e per farLa risvegliare ha detto: pregate, pregate, pregate!.
Pregando non si perde la Fede perché entriamo in Comunione con Dio.

Padre Livio in una sua Catechesi

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Non temete la verità!

Posté par atempodiblog le 24 octobre 2008

Non temete la verità! dans Citazioni, frasi e pensieri GP-II
Immagine tratta da: Familia Cristiana

Affievolimento del senso del male
Tra i tanti mali che affliggono il mondo contemporaneo, quello più preoccupante è costituito da un pauroso affievolimento del senso del male. Per alcuni, la parola “peccato” è diventata un’espressione vuota, dietro la quale non devono vedersi che meccanismi psicologici devianti, da ricondurre alla normalità mediante un opportuno trattamento terapeutico. Per altri il peccato si riduce all’ingiustizia sociale, frutto delle degenerazioni oppressive del “sistema” ed imputabile pertanto a coloro che contribuiscono alla sua conservazione. Per altri, ancora, il peccato è una realtà inevitabile, dovuta alle non vincibili inclinazioni della natura umana e non ascrivibile perciò al soggetto come personale responsabilità. Vi sono, infine, coloro che, pur ammettendo un genuino concetto di peccato, interpretano in modo arbitrario la legge morale e, distaccandosi dalle indicazioni del Magistero della Chiesa, si allineano pedissequamente alla mentalità permissiva del costume corrente.

La considerazione di questi diversi atteggiamenti rivela quanto sia difficile arrivare a un autentico senso del peccato, se ci si chiude alla luce che viene dalla parola di Dio. Quando si poggia unicamente sull’uomo e sulle sue limitate ed unilaterali vedute, si raggiungono forme di “liberazione” che finiscono per preparare nuove e spesso più gravi condizioni di schiavitù morale.

di Giovanni Paolo II
Fonte: Holy Queen

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Pubblicità choc sugli autobus

Posté par atempodiblog le 24 octobre 2008

Londra, pubblicità choc sugli autobus:
« Dio non esiste, godetevi la vita »

Pubblicità choc sugli autobus dans Articoli di Giornali e News buslondonim5

In genere pubblicizzano film in uscita o l’ultimo profumo di Armani, ma ora sugli autobus di Londra campeggieranno poster con la scritta: «Dio probabilmente non esiste, quindi smettila di preoccuparti e goditi la vita». La campagna, naturalmente ad opera di associazioni atee, ha ricevuto offerte record per un totale di 113mila dollari, superando di ben sette volte gli obiettivi prefissati.

Fonte: La Stampa

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L’Età dell’oro

Posté par atempodiblog le 24 octobre 2008

Dal 1800 d.C. si è sviluppata l’idea secondo la quale l’umanità va verso il progresso. Quante volte come commento a qualche notizia si sente dire « ma siamo nel 2008″, « non dovrebbe succedere al giorno d’oggi »… o queste espressioni fanno da sfondo ad argomentazioni che hanno carattere di attualità.
Non è sempre stato così, anzi. Prima dell’800 si diceva che dal passato si procedeva verso il regresso, che da un ‘Età dell’oro’ si andava verso la degradazione. Dal punto di vista tecnico-scientifico ci sarà anche stato un progresso ma in ambito morale no. Basti pensare che con le nostre armi possiamo distruggere il mondo. Il male, che prima era imposto con le dittature, adesso viene fatto con scelta democratica (penso alla legalizzazione dell’aborto e del divorzio, ecc…).

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L’abuso dei bambini nelle manifestazioni contro l’autorità

Posté par atempodiblog le 24 octobre 2008

L’abuso dei bambini nelle manifestazioni contro l’autorità dans Articoli di Giornali e News sciopero

Di fronte a fatti di sangue, a malversazioni di vario tipo, all’indisciplina automobilistica, o alla sporcizia urbana, o ferroviaria, tutti protestano contro lo smarrimento del senso di autorità, dell’ordine, del rispetto degli altri. Pochi, però, riflettono su come autorità, rispetto e ordine si formino. Così quando le maestre, o i genitori, mettono al collo dei bambini cartelli contro il ministro dell’istruzione, e li schierano davanti ai fotografi, pochi sembrano stupirsi.
Eppure pochi gesti minano la possibilità delle nuove generazioni di sviluppare rispetto per gli altri, e senso dell’ordine e dell’autorità, come l’utilizzo mediatico e politico dei bambini contro i rappresentanti del potere. Tanto più se l’autorità contestata è il ministro cui la legge affida l’istruzione e formazione dei giovani.
Cominciamo dallo sviluppo del rispetto, che in questo caso è, innanzitutto, quello verso i giovani e dei bambini. È rispettoso verso di loro schierarli in piazza con i cartelli appesi al collo e offrirli alle golose riprese di fotografi e cameramen? La loro privacy non vale nulla, al contrario di quelle dei figli minorenni dei vip, il cui volto viene accuratamente schermato? E perché l’immagine dei figli dei genitori narcisi, o degli allievi delle maestre spregiudicatamente decise a utilizzarli nelle loro rivendicazioni sindacali, non è protetta da nessuno? Cosa ne pensa il garante della privacy?
Molti analisti sanno bene che una foto, o una ripresa televisiva, venduta da un genitore vanitoso, o bisognoso, è poi all’origine di disturbi dolorosi, e cure difficili e complesse. Queste manifestazioni dunque sono innanzitutto lesive del più elementare rispetto umano verso i bambini che dicono di difendere. Per farlo davvero, dovrebbero rinunciare a utilizzare i loro volti, i loro occhi, le loro espressioni, ora usate come manifesti.
Quei bambini sono persone, prima che strumenti di battaglia politica.
Ma i loro insegnanti, o genitori in marcia, sembrano non saperlo. Non protestino se più tardi i ragazzi dimostreranno ai grandi la stessa mancanza di rispetto oggi usata verso di loro. Queste manifestazioni, inoltre, lanciate oggi contro Mariastella Gelmini come ieri contro Letizia Moratti, pongono le basi di un grave conflitto tra la personalità in formazione del bambino e il principio d’autorità. Quando gli insegnanti coinvolgono gli alunni nelle loro dimostrazioni di protesta, trasmettono loro, infatti, un’informazione esplicita: l’autorità non ha valore (è «ignorante», dannosa, «Gelmini mangia i bambini» – è scritto sui cartelli), va combattuta. Si tratta, però, di un messaggio «schizogeno», che tende a dividere la personalità, visto che gli stessi insegnanti rappresentano l’autorità verso i bambini.
L’ordine normativo viene così scisso in due (governo da una parte e insegnanti dall’altra), dunque indebolito, a favore di chi dispone fisicamente dei bambini (gli insegnanti) e a danno del ministro da cui il potere degli insegnanti dipende.
Al bambino viene poi fatto credere di detenere informazioni, capacità di giudizio e un potere, che non possiede: si tratta di un messaggio narcisistico, molto dannoso per la personalità. Le opinioni dei bambini non possono in realtà influire su decisioni governative, né valutarne la portata: rendere gli alunni consapevoli dei loro limiti sarebbe più educativo.
Portare i piccoli in piazza costituisce invece, tecnicamente, un abuso fisico e psichico nei loro confronti, realizzato attraverso la manipolazione delle loro opinioni e delle loro immagini, utilizzate nell’interesse personale degli adulti.

di Claudio Risé – Tratto da “Il Mattino di Napoli »

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Avete voglia di uscire dagli slogan?

Posté par atempodiblog le 24 octobre 2008

LETTERA APERTA AGLI STUDENTI
di Mario Giordano – Direttore de ‘Il Giornale’

Cari studenti, avete voglia di uscire dagli slogan? Lo so che in queste ore di inebriante ribellione vi sentite incaricati di una missione altissima. Guardavo per le vie e dentro le Tv i vostri volti sorpresi dal primo rossore pubblico, le mani abituate a chat e messenger che si levano timide a mostrare i tazebao, quelle mise un po’ smandrappate che si tirano dietro inconsapevoli strascichi di Sessantotto. E pensavo che quando dite di volere una scuola migliore, be’, avete proprio ragione. Ma come si fa ad avere una scuola migliore? Provate a tirare fuori dagli armadi delle aule gli slogan che vi hanno preceduto: «Ucci Ucci sento odore di Falcucci», «Con simpatia la Moratti a Nassirya», «Ministro Fioroni, servo dei padroni». A Berlinguer furono mostrate le chiappe, De Mauro fu sbertucciato come Pinocchio. Ora tocca alla Gelmini, che «divora i bambini». Le rime sono persino facili, avanti con la fantasia.

Vi siete mai chiesti, però, perché ogni riforma della scuola, proposta da qualsiasi ministro, di qualsiasi partito, è sempre fallita? Cui prodest? E che ci fanno dietro le vostre spalle professori e sindacalisti? E i no global? Che c’entrano? È davvero necessario occupare le scuole? E occupare le stazioni? Chi è che vi spinge a iniziative contro la legge? Che interesse ha? Che ci fanno i politici (persino l’assessore all’Istruzione di Napoli) fra i vostri banchi? Chi è che pensa di sfruttare il vostro primo rossore per colorare piazze altrimenti vuote? Vi hanno raccontato un sacco di balle sulla riforma Gelmini. L’hanno fatto in classe. L’hanno fatto in modo strumentale. Vogliamo discuterne? Noi siamo qui. A disposizione.

Oggi non invochiamo la Polizia: anzi, pensiamo che l’intervento delle forze dell’ordine per garantire lo svolgimento delle lezioni sarebbe una sconfitta per tutti. Pensateci. E, se potete, provate a uscire dal solito cliché delle barricate. Provate ad andare oltre gli slogan. Provate a discutere nel merito come si fa ad avere una scuola migliore. Questo sì che sarebbe, per una volta, davvero rivoluzionario.

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Chi soffia sul fuoco

Posté par atempodiblog le 24 octobre 2008

CHI SOFFIA SUL FUOCO
di Michele Brambilla – Il Giornale

A un certo punto dell’ottavo capitolo dei suoi Promessi Sposi, quello dedicato alla «notte degli imbrogli» (Renzo e Lucia entrano con un sotterfugio e due testimoni in casa di don Abbondio per cercare di estorcergli un matrimonio-lampo), il Manzoni così commenta: «In mezzo a questo serra serra, non possiam lasciar di fermarci un momento a fare una riflessione. Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che vi s’era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l’apparenza d’un oppressore; eppure, alla fin de’ fatti, era l’oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente a’ fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo… voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo».
Il lettore ci perdonerà se l’abbiamo presa alla lontana, ma la morale manzoniana ci pare calzi a pennello con quanto abbiamo visto e sentito ieri, quando da più parti s’è dato a Berlusconi dell’incendiario e del fomentatore di incidenti.
Intendiamoci bene: nessuno di noi si azzarda a paragonare il premier a Renzo, e i suoi critici (politici o giornalisti che siano) a don Rodrigo: il senso del ridicolo grazie al cielo non l’abbiamo ancora perso. Però è vero che il mondo continua ad andare come nel secolo decimo settimo, nel senso che se si giudica un fatto analizzando solo una sua parte – soprattutto se la parte è quella finale – si rischia sempre di confondere i ruoli dei protagonisti.
Berlusconi è stato fatto passare per responsabile morale di possibili incidenti nelle scuole e nelle università per aver fatto intendere che, in certi casi, avrebbe fatto ricorso «alle forze dell’ordine». Noi, come abbiamo già scritto chiaramente ieri, siamo contrari all’utilizzo di polizia e carabinieri: e quindi ci rallegriamo che il premier abbia poi precisato che a quell’ipotesi non pensa affatto. Ma non è questo il punto. Il punto è che, per quella frase, Berlusconi è passato come dicevamo per l’incendiario della situazione. «Soffia sul fuoco», ha detto Veltroni. «Getta una miccia accesa sulla benzina», ha aggiunto la Finocchiaro. «Se ci fosse un calcolo, le frasi di Berlusconi sembrerebbero pensate apposta per incendiare le università», ha scritto il direttore di Repubblica Ezio Mauro.
Non crediamo occorra essere berlusconiani – o berluscones, come dicono – per rilevare un dato di fatto elementare: e cioè che non si soffia sul fuoco se qualcun altro prima non ha acceso un fuoco; e non si getta una miccia accesa sulla benzina se qualcun altro prima non ha cosparso il campo di benzina. La tensione nelle scuole c’è già, e rischia di salire perché da settimane si sta facendo una campagna che non vogliamo chiamare «terroristica» come ha fatto la Gelmini, ma «allarmistica» senz’altro sì; una campagna zeppa di bufale sesquipedali, tipo l’abolizione del tempo pieno e dell’inglese alle elementari. Sono stati altri, a far salire la temperatura: altri come l’ex ministro Mussi che ha parlato di «strage di ricercatori universitari»; altri come il manifesto che ha titolato sul «razzismo in cattedra»; altri come chi ha fatto credere ai bambini che la riforma faccia dei morti (che cosa significa altrimenti, per un bambino, il demenziale lutto al braccio di alcune maestre?). E come chi – peggio ancora – i bambini li ha usati nei cortei: gesto infame, perché i bambini in un corteo-contro-qualcuno non vanno portati mai, chiunque sia e qualunque cosa abbia fatto quel qualcuno.
L’editoriale su Repubblica di Ezio Mauro si intitolava «Se il dissenso è un reato». C’era scritto che «qualcuno dovrebbe spiegare al Premier che la pubblica discussione e il dissenso sono invece elementi propri di una società democratica». Mauro è un grande giornalista e un uomo intelligente: ma come fa a non capire la differenza tra «la pubblica discussione» e gli incidenti di Milano dell’altro giorno; tra «il dissenso» e l’impedire fisicamente di far lezione a chi vuol far lezione. Come fa a non capire le stesse cose un Veltroni. Come fa a non capirle una Finocchiaro.
Noi la Celere non la manderemmo neanche contro chi fa i picchetti e neanche contro chi occupa. Non stiamo neppure dicendo che il decreto sulla scuola non sia criticabile. Però, che almeno siano ben delineati i ruoli in questa notte degli imbrogli, e che sia ben chiaro chi sta soffiando – da settimane – sul fuoco.

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Sciopero del 30 ottobre

Posté par atempodiblog le 24 octobre 2008

Sciopero del 30 ottobre: ragioni per non aderire, ragioni per costruire
da ilsussidiario.net

Pubblichiamo un documento congiunto, sottoscritto dalle associazioni Diesse, Foe, DiSAL, Associazione Culturale “Il rischio educativo”. Si tratta di persone e realtà direttamente e quotidianamente impegnate nel mondo della scuola e dell’educazione. E non sono d’accordo con lo sciopero. Strano a dirsi, leggendo i giornali; perché quando sentiamo dire che “i docenti scendono in piazza” forse siamo un po’ tentati, e un po’ spinti, a pensare che “tutti i docenti” lo stiano facendo. Invece no: ci sono docenti, presidi, studenti (si veda l’articolo di una ragazza di Crema che pubblichiamo in allegato) che non sono d’accordo, che non pensano che ci sia qualcuno che sta uccidendo la scuola. Che anzi pensano che la scuola la uccida chi vuole lasciare tutto com’è, chi vuol continuare a coltivare la propria rendita di posizione o il proprio potere, messo a rischio da un reale cambiamento dello status quo.

[...]

  1. Il sistema scolastico italiano ha, da tempo, urgente bisogno di essere riformato: siamo ai primi posti, tra i Paesi dell’Ocse, come spesa per l’istruzione ma ciò non incide sulla qualità. Il numero di ore di lezione degli alunni  supera del 20% la media dei paesi Ocse, ma ai primi posti per la qualità dell’apprendimento vi sono Paesi dove si sta a scuola molto meno. Per questo chiediamo anche all’attuale Governo, come sempre abbiamo fatto, di abbandonare una politica centralistica, perseguita con l’accanimento delle normative, che pretendono di determinare ogni singolo aspetto della vita scolastica.
  2. Per rispondere alla emergenza educativa è indispensabile tenere conto della domanda di istruzione e di educazione che proviene dai giovani di oggi, e completare il percorso verso un assetto pienamente libero e pluralistico. Per questo è prioritario dare attuazione all’autonomia costituzionale prevista per le scuole, assicurando alle stesse veri organi di governo e risorse dirette. Gli altri cambiamenti verranno come diretta conseguenza: drastica riduzione di norme; livelli essenziali di apprendimento; carriere per i professionisti della scuola con effettivo riconoscimento del merito e delle prestazioni; dirigenza scolastica messa in grado di rispondere dei risultati; moderno sistema di valutazione che aiuti le scuole a migliorare.
  3. Una prospettiva di così ampio respiro necessita di tempi lunghi e non può essere assicurata da una singola fase di revisione degli ordinamenti o della normativa in uso. Occorre piuttosto un impegno costante per il bene comune da parte di tutte le forze sociali e politiche autenticamente riformiste. Per questo è necessario che anche i sindacati, anziché condurre battaglie di retroguardia dannose per tutti, tornino ad impegnarsi per il bene comune. Gli slogan lanciati in questi giorni e irresponsabilmente depositati sulle bocche degli studenti spinti in piazza a manifestare contro chi oggi è chiamato a governare, appaiono invece strumentali e ridicoli, tanto più perché gridati in difesa di una scuola italiana di cui tutti, in questi anni, si sono lamentati. 
  4. Le misure prese dall’attuale Governo in realtà, non si scostano, nei principi ed in molte proposte, da quelle suggerite dal Quaderno Bianco dei ministri Padoa-Schioppa e Fioroni, nella prospettiva del vincolo di pareggio entro il 2011 richiesto all’Italia dall’Unione europea. La razionalizzazione di spesa all’interno di un sistema tanto elefantiaco quanto improduttivo è urgente e indispensabile. I provvedimenti approvati a favore di interventi per l’edilizia scolastica e la messa in sicurezza degli istituti ne costituiscono un primo significativo segnale.
  5. Non aderiamo allo sciopero del 30 ottobre perché non ne condividiamo le motivazioni. Non possiamo accettare le posizioni corporative di un certo sindacalismo che, guidato in particolare dalla CGIL, continua ad opporsi, per ragioni di mero potere, a qualsiasi serio tentativo di cambiamento del sistema di istruzione nazionale. L’istruzione è un bene di tutti: per questo è indispensabile che ogni seria riforma si costruisca attraverso il dialogo con le componenti reali della scuola che si esprimono anche nelle loro forme associative.

Associazione Culturale “Il Rischio Educativo”

DIESSE (Didattica e Innovazione Scolastica)

DiSAL (Dirigenti Scuole Autonome e Libere)

FOE (Federazione Opere Educative)

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Un esempio di protesta mediatica

Posté par atempodiblog le 24 octobre 2008

Un esempio di protesta mediatica  dans Articoli di Giornali e News manifestinobp5

Scienze politiche: 9mila iscritti, 30 occupanti, 20 giornalisti: un esempio di protesta mediatica

«Scienze Politiche: 9mila iscritti, 30 che occupano e 20 giornalisti». Così recitava un cartello appeso ieri da alcuni studenti milanesi di Scienze Politiche nel cortile di via Conservatorio – puntualmente strappato dai “rivoltosi”. La scena che si presentava agli occhi di chi giungeva nella sede distaccata della Statale di Milano era proprio questa: un manipolo di ragazzi accerchiato da inviati e cameraman. I titoli dei principali quotidiani nazionali, così come la loro versione online del pomeriggio precedente, annunciavano l’occupazione della facoltà di Scienze Politiche e l’interruzione delle lezioni. Eppure allo sprovveduto visitatore pareva che lo scoop fosse che i giornalisti non c’avessero azzeccato per niente. Le lezioni si sono svolte regolarmente. Nessuna è stata interrotta. Intorno alla trentina di persone, che nella mattinata di ieri bivaccava in mezzo al cortile di via Conservatorio, la vita procedeva tranquillamente. C’erano quasi più telecamere e fotografi che manifestanti. Del resto si era annunciata l’irruzione degli occupanti al Consiglio di facoltà delle ore 14.30. La sceneggiata è avvenuta. Il loro comunicato – tempestivamente riportato dal Corriere online – è stato letto. Subito dopo il Cdf è proseguito. Lì la maggioranza delle rappresentanze studentesche ha preso posizione contro i tentativi di blocco della didattica. In effetti un episodio di questo genere è accaduto nel tardo pomeriggio di mercoledì 22 ottobre, quando un corteo di esterni ha decretato arbitrariamente la sospensione della lezione del professor Giorgio Barba Navaretti in aula 10. Che la gran parte dei manifestanti fosse estranea alla facoltà appariva chiaro dal fatto che nessuno sapeva dove dirigersi per cercare le aule. «È un’azione violenta» ha urlato Barba Navaretti ai manifestanti. A esprimergli pubblicamente solidarietà in Consiglio di facoltà ci ha pensato il professor Graglia, quello che è finito su tutti i giornali per aver improvvisato una lezione in piazza Duomo contro i tagli previsti dalla finanziaria.

La récréation (come la definì De Gaulle) di questi improbabili barricaderos continua, ormai, da una settimana. Più sui media che nella realtà. Da questo punto di vista Scienze Politiche non è stata da meno. Anche all’Accademia di Brera è toccata la stessa sorte. All’assemblea di martedì 21 ottobre, indetta dai collettivi accademici, i partecipanti – su circa 4mila iscritti – non superavano la sessantina di persone. Il Sit-in avvenuto negli uffici del direttore e la seguente occupazione non sono durati più di mezz’ora. Terminate le foto di rito per i quotidiani del giorno dopo, i dimostranti sono stati accompagnati all’uscita. La vita in questi giorni prosegue regolarmente. Nonostante il sito di Repubblica. Non stupirebbe se nei prossimi giorni i navigatori della rete potessero anche votare chi mandare a casa tra gli occupanti. Proprio come in un vero reality show.

di Matteo Forte – ilsussidiario.net

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A chi conviene mantenere un sistema fallimentare?

Posté par atempodiblog le 24 octobre 2008

A chi conviene mantenere un sistema fallimentare?  dans Articoli di Giornali e News manifestazionehx1

Chi protesta dovrebbe chiarire una cosa: a chi conviene mantenere un sistema fallimentare?


Esiste una qualche connessione tra la crisi finanziaria che sta tenendo il mondo intero con il fiato sospeso e lo stato di agitazione verso cui si sta avviando l’Università italiana, a seguito dei tagli decisi dal Governo? Un ragionevole collegamento non può certo essere rintracciato sul piano delle relazioni di causa-effetto: nessuno può essere così scellerato da sostenere che la crisi dei mercati finanziari mondiali sia la causa diretta dei tagli al sistema universitario decisi da Tremonti.

Tuttavia, una relazione può essere forse individuata nei presupposti politici, sociali e culturali da cui entrambe le crisi derivano. Proviamo allora a fare l’esercizio.

La presidenza Bush, soprattutto la seconda, ha cercato fortuna in politica interna attraverso lo slogan “una casa per ogni americano”, illudendosi che il mercato immobiliare e finanziario fossero in grado di garantire, autoregolandosi nella crescita, l’ascensore sociale per uno strato consistente della popolazione. Nella realtà la politica ha soffiato su un mercato speculativo in cui broker immobiliari hanno potuto sottoscrivere mutui senza garanzie e gli operatori finanziari hanno potuto costruire prodotti sofisticati per trasferire rischi elevati con rendite attese da capogiro.

Nel nostro piccolo, sono ormai vent’anni che la politica italiana, di destra e di sinistra, promette una laurea a tutti i giovani italiani, prima inaugurando università di quartiere, poi inventando il cosiddetto “3+2”, al dichiarato scopo di aumentare la produttività del sistema universitario a costo zero per lo Stato. Similmente alla crisi finanziaria americana, anche in questo caso abbiamo assistito ad un fenomeno che potremmo dire speculativo: le università hanno trovato spazio per gemmarsi, per creare sedi decentrate, per moltiplicare i corsi di laurea (attualmente circa 5300!), grazie ad un mercato della formazione universitaria drogato da tasse ai minimi.

Se in America hanno fatto leva sull’ideologia liberista che invoca la capacità di autoregolazione del mercato, nelle Università italiane ci si è nascosti dietro un uso troppo spesso equivoco del concetto di autonomia. Là hanno fatto lievitare i debiti, qui le cattedre. E si badi bene che l’argomento dell’allineamento a standard europei nel rapporto studenti/docenti non regge, visto che il sistema universitario italiano è largamente sotto-finanziato rispetto agli stessi standard. Infatti, tutto il budget delle università italiane è ben presto finito in stipendi (da fame).

Anche i cittadini, certo, hanno fatto la loro parte: negli Stati Uniti indebitandosi al di là di ogni ragionevole capacità di reddito, qui in Italia continuando a mandare i figli in università sovraffollate con una didattica sempre più scadente, avendo come unica certezza il valore legale di un pezzo di carta.

Bene (si fa per dire). Se ritenete che il parallelo possa reggere, proviamo adesso a leggere i fatti delle ultime settimane nella stessa chiave.

Prima osservazione: gli universitari che manifestano in questi giorni, studenti e docenti, sono paragonabili a cittadini americani che protestassero perché gli viene impedito di sottoscrivere mutui che non sono in grado di ripagare, o operatori di borsa che si mobilitassero contro il blocco della collocazione sul mercato di prodotti finanziari “spazzatura”.

Seconda e ultima osservazione: i Governi di tutto il mondo, quello italiano incluso ed in prima fila, si sono mobilitati con programmi straordinari per salvare alcune delle maggiori banche da una più che probabile bancarotta, riconoscendo il valore strategico che il settore del credito riveste per l’economia di ogni paese.

Volete dire che l’Università italiana non ha la stessa rilevanza strategica per il futuro del nostro Paese e che molte delle sue istituzioni non meritano quindi di essere salvate?

Se per entrambe le crisi è evidente che la riforma necessaria non è innanzitutto quella delle regole, ma della cultura in cui sono nate, ciò che non è ancora chiaro nella seconda è chi avrà il coraggio di decidere cosa salvare.

di Paolo Trucco – ilsussidiario.net

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La squadra che ha inventato il calcio

Posté par atempodiblog le 24 octobre 2008

« Qui è iniziata la storia ». In viaggio con la squadra che ha creato il calcio 
di Giuseppe De Bellis – Il Giornale (2007)

La squadra che ha inventato il calcio dans Sport calcioxj6

L’ora del tè, più o meno. Il campo là, a vista: erba verde, un po’ alta, fitta, perfetta per il cricket. Però la pioggia, maledetta: Sheffield non era ancora triste come oggi. Grigia sì, il 24 ottobre. Nuvole. Allora la noia. William, Nathaniel e Thomas: «Dovremmo trovare qualcosa da fare per divertirci in inverno, quando il cricket si ferma». Sulla poltrona di fronte alla finestra, sotto la pioggia, col tè bollente. Il football fu quella cosa lì: l’antinoia. Ne avevano sentito parlare, William, Nathaniel e Thomas. L’avevano visto, pure: la palla presa a calci, due pali, un punteggio. Pioggia, sole, vento, neve: sull’erba il pallone rotola sempre. This is football. Il calcio moderno, eccolo. Esisteva il gioco, non una squadra. Si faceva così: scapoli e ammogliati, oppure misti, gruppi di amici, la terza E del liceo, contro la terza B dell’altro liceo.

Quel giorno no: Sheffield Football Club, la prima squadra della storia. Maglie, pantaloncini, calzettoni. Berretto, pure: all’epoca era obbligatorio. Undici ragazzi: Thomas Ward si defilò, troppo preso dal resto. Rimase proprietario della sede del Club: una depandance di casa sua, quella del tè e della noia, quella di quel pomeriggio di pioggia. Da soli, Nathaniel Creswick e William Prest, andarono a chiamare i ragazzi che avevano visto giocare sui prati della città: «Vuoi venire? Abbiamo formato una squadra di calcio». Uno alla volta ne presero una ventina. Li misero in campo, a scannarsi. Perché il football allora era un’appendice del rugby. Con le punizioni, però: non si poteva trattenere un avversario, non si poteva sgambettare, non si poteva toccare il pallone con le mani. Sheffield inventò un codice, l’alba di un regolamento. Sulle porte arrivarono le traverse, i giocatori erano limitati a undici per squadra, il pallone non doveva superare i due chili. Poi il corner, che non se ne poteva più di battere con le mani anche quando il portiere salvava un gol. Cambridge aveva già cominciato, nove anni prima, a scrivere i punti chiave del calcio diventati poi le tavole uniche del pallone dal 1863. Sheffield contro Cambridge: per un secolo e mezzo hanno litigato per stabilire chi sia stata la casa del pallone. Si sono divise i meriti: a una la legge, all’altra gli uomini. Quella squadra, allora. Quella squadra che la prima volta in trasferta andò a giocare addirittura a Londra. E perse. Però fece esordire un’altra regola: la partita doveva durare novanta minuti, divisa in due tempi da quarantacinque. Quella squadra che adesso ha 150 anni e che s’è ostinata a rimanere incredibimente uguale: in città è arrivato lo United, poi il Wednesday. Si sono presi la gloria: promozioni, coppe d’Inghilterra, scudetti. First division e pure la Premiership. Lo Sheffield Football Club gioca nella Premier Division della Northern Counties East League. È la nona divisione inglese, una terza categoria italiana. Dilettanti. Di più: amatori. E però con lo store ufficiale, col sito internet, con la maglia griffata Nike. Con uno scudetto sulla divisa: Ordine del merito della Fifa. C’è solo un’altra squadra al mondo ad averlo: è il Real Madrid.

Furbi quelli dello Sheffield Fc: fanno finta di fare i poveri per diventare ricchi. Allora giocano l’amichevole con i Glasgow Rangers e col Manchester United. Venti sterline a testa l’ingresso. «Sono partite uniche. Sono la nostra leggenda e la leggenda del calcio: i 150 anni del club più antico del mondo». Richard Tims è il Nathaniel Creswick contemporaneo. Faccia tosta. S’è comprato la storia nel 1999, in prospettiva. «Nel 2007 volevo essere io il presidente». Ora c’è. Sua la baracca, suo il campo: è la prima volta che l’Fc ne ha uno vero. Prima ha vagato per quelli della zona, alla ricerca di un posto, di uno spogliatoio, di una doccia. L’ha trovato a Dronfield, poco più in là dalle ciminiere di Sheffield, dall’acciaio che cola e fuma, dal paesaggio alla Full Monty. Lontano dallo stadio dello United, lontano dallo stadio del Wednesday, lontani dai tornelli e dagli steward, dalle telecamere, dal satellite e dal cavo.

Cinquecento posti a sedere, gli altri in piedi, please. Il campo si chiama Coach & Horses Ground: alle panchine si accede passando attraverso un pub. Una pinta per la vita, un’altra per la gloria. Ora gli hanno dato un altro nome: Bright Finance Stadium. Questione di sponsor, ovviamente. Soldi anche qui. Soldi sempre. Ne approfitta pure la storia, quando ci sono. Qui non succede sempre, neppure quando arriva uno che sa giocare, quando cresce, quando qualcuno lo viene a vedere e vuole comprarselo. Come Sam Sodje. Oggi gioca nel Reading, Premier League. A Sheffield passò nel 2000, solo per un anno. Lo chiese il Stevenage Borough e lo pagò sull’unghia: quattro palloni e ventidue divise da gioco. Bianco-rosse: maglietta, pantaloncini, calzettoni. Arrivarono sporchi.

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La disfida di Halloween

Posté par atempodiblog le 24 octobre 2008

La disfida di Halloween dans Fede, morale e teologia No-Halloween

La festa della zucca è innocua oppure è soltanto una ricorrenza consumistica, anzi pericolosa, che finisce per irridere i riti sacri tradizionali e per far dimenticare contemporaneamente il senso della morte?
di Roberto Mussapi -  Avvenire

Avevo già espresso, tempo fa, il mio fastidio per la festa di Halloween. Poiché continua a imperversare, con la fatalità dei fenomeni più diffusi e immotivatamente accettati (il presenzialismo televisivo, i grandi fratelli e le isole dei presunti o sedicenti famosi), ma con un’ombra più inquietante, mi pare il caso di soffermarmi su questa carnevalata dello spirito, su questa « festa de noantri » dove il tema però non è la porchetta o il vino dei castelli, ma l’anima, il suo destino dopo la morte. La cupa festa chiaroscurale di Halloween mette infatti in scena zucche svuotate da zucche vuote, che impersonano spiriti dei morti, i quali in tale occasione verrebbero a visitarci. E precede quella dei Santi e di Morti. La prima riguardante i cattolici, che nei Santi vedono una sopravvivenza alla vita straordinaria, esemplare per esemplarità di comportamento già in vita. La seconda, quella dei morti, credo sia una festa di tutti: i morti sono di tutti e lo strazio del decesso riguarda perché ferisce allo stesso modo credente e non credente, che pure hanno, per il « dopo », prospettive ben differenti. Dante ha una visione della morte diversa da quella di Foscolo, ma è identico nei due poeti lo sgomento dell’attimo unito a un subitaneo desiderio, anzi bisogno, d’immortalità, a un perdurare comunque degli affetti, o in assoluto o nel non minimale assoluto della memoria.

La festa di Halloween attinge a tradizioni afroamericane serie, riguardanti il rapporto tra il vivente e gli antenati, tra l’istante e gli spiriti dei morti, tra il presente e l’origine. Cose serie, ripeto, inscritte nell’ordine sacro in cui in ogni tempo e in ogni parte del mondo l’uomo si interroga da sempre sul proprio destino. Tramutata così in carnevalata americana non offende solo il senso della vita e della morte, la cognizione del dolore, di noi contemporanei, non importa assolutamente se credenti o non credenti, offende anche lo spirito originario e antico da cui è stata presa in prestito per essere poi distorta, tramutata in parodia.

Non intendo colpevolizzare chi innocentemente, con la famiglia o gli amici, festeggia questo obbrobrioso atto di scherno ai defunti e allo spirito: intendo metterlo in guardia, fargli sapere che, in buona fede, sta scherzando col fuoco. Se oggi la vita non vale nulla e padri e figli si ammazzano come bestie, se si sceglie ciecamente la morte altrui e propria in folli scorribande notturne dopo la discoteca, se ci si distrugge a quindici anni con droghe acquistate davanti alla scuola e consumate in gruppo con inquietanti corollari, se a Perugia avviene un delitto esemplare per sprezzo di ogni forma di respiro, se ragazzotti ignoranti sfondano le porte delle chiese di notte per improvvisare orridi riti satanisti, con fiumi di sangue, non è forse perché non abbiamo più il senso tragico della morte? Certo la festa in questione non ha nessuna intenzione malvagia, sia chiaro. Ma sottende una sottovalutazione, anzi una farsesca messa in ridicolo di una questione di fondo.

Non è il caso di svegliarci rispetto a riti questa volta innocenti e pacifici, ma nel fondo sprezzanti del sacro confine tra vita e morte? Che, sia chiaro, non deve essere un incubo puritano, ma al contrario un ringraziamento alla vita, un inno a tutto ciò che respira, e che, se amato, vivrà ancora, e per sempre, ovunque ognuno di noi gli trovi posto secondo la sua sensibilità, in Cielo o semplicemente nel suo Cuore.

Boicottiamo Halloween dans Halloween divisore-halloween

E se provassimo a rendere «cristiana» la festa?
I nostri antenati hanno saputo trasformare in autentico senso religioso i riti pagani. E noi?
di Roberto Beretta – Avvenire

La zucca è uno strano vegetale, che quando le metti davanti un ostacolo – sia un muro, sia una grossa e apparentemente invalicabile pietra, per non dire una rete o qualsivoglia altra recinzione – cerca, spinge, annusa e s’insinua nelle minime fessure fino a che, un bel giorno, ti ritrovi nell’orto una grossa cucurbitacea che certo non avevi piantato, voluto e programmato nemmeno; ma c’è. Eccome se c’è. La paraboletta tardo-autunnale non ha molte pretese, se non quella di attirar l’attenzione su un dato di fatto assai pratico e peraltro robustamente fondato su dati storici: ogniqualvolta cioè i cattolici si sono arroccati in difesa, hanno sempre inguaribilmente fallito (e, Halloween a parte, dobbiamo pur confessare che oggi la Chiesa gioca spesso il catenaccio). Non si tratta soltanto dell’applicazione pedissequa del buon (buon?) senso comune – tipo «La miglior difesa è l’attacco»; no, qui si va oltre: è che il cattolicesimo è fatto per essere espansivo, missionario, per contagiare ed entusiasmare, sennò è morto. E non riesce nemmeno a mantenere le posizioni che si era illuso di aver «conquistato» a mai più riparlarne.

Dipinto lo sfondo, il quale peraltro dovrebbe suggerire prudenza dallo sparar anatemi e indire crociate pastorali, non risulta inutile annotare che – in fondo – la Chiesa vien ripagata della sua stessa moneta. Già. Fu almeno dal IV secolo, infatti, che la saggezza dei Padri (non tutti, per la verità: ci fu anche chi abbatté gli idoli con l’ariete e la spada…) ha preferito mediare anziché cancellare, sovrapporsi e trasfigurare piuttosto che annullare, incenerire, seppellire, censurare. Ovvero: le feste pagane, i nostri antenati le hanno sapute «cristianizzare», riciclando intelligentemente il contesto – ormai ben introdotto nella tradizione popolare – e imbottendolo di contenuti completamente nuovi. Se dunque Hallowen (che, ricordiamolo, significa letteralmente «vigilia di Ognissanti») dovesse riprendere le sue vesti celtiche – vere o presunte che siano – o piuttosto ammantarsi di lustrini consumistici oppure celarsi sotto rituali più o meno «satanici», non farebbe che riappropriarsi di un territorio già suo; e a noi resterebbe semmai da meditare come e perché non ci sia data la forza culturale (e fors’anche spirituale) per ripetere l’impresa dei nostri antedecessori.

Ogni generazione ha i suoi modi per riflettere sulla morte: nel Seicento lo si faceva meditando davanti a un teschio, oggi sganasciandosi di fronte a una cucurbitacea intagliata. Ma lo scherzo e la stessa parodia non sono sempre stati nei secoli – dalle «danze macabre» al cinema horror – sistemi per esorcizzare la paura, in fondo dunque per riconoscerla, sia pure in via di paradosso e per contrari? Il nostro tempo cerca confusamente i contorni del mistero della vita e lo fa come sa, come può: poveramente, forse; carnascialescamente, anche. Del resto, bisognerebbe andare ben lontano per rintracciare le radici di una «scomparsa della morte» che coinvolge ormai tutti gli ambiti sociali (dagli ospedali alle chiese) e interessa versanti etici, intacca abitudini familiari, induce comportamenti nuovi. Dovrebbe sfiorarci dunque il dubbio che, con l’innocuo dilemma «Dolcetto o scherzetto?», i nostri figli mascherati da scheletri balbettino a modo loro (ma forse è l’unico che conoscono) una domanda – magari malposta o superficiale, comunque una domanda. Il futuro sarà quel che risponderemo.

Tratti da Holy Queen

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