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I gessetti colorati

Posté par atempodiblog le 16 juin 2008

I gessetti colorati dans Don Bruno Ferrero Gessetti-colorati

Nessuno sapeva quando quell’uomo fosse arrivato in città. Sembrava sempre stato là, sul marciapiede della via più affollata, quella dei negozi, dei ristoranti, dei cinema eleganti, del passeggio serale, degli incontri degli innamorati.
Ginocchioni per terra, con dei gessetti colorati, dipingeva angeli e paesaggi meravigliosi, pieni di sole, bambini felici, fiori che sbocciavano e sogni di libertà.
Da tanto tempo, la gente della città si era abituata all’uomo. Qualcuno getteva una moneta sul disegno. Qualche volta si fermavano e gli parlavano. Gli parlavano delle loro preoccupazioni, delle loro speranze; gli parlavano dei loro bambini: del più piccolo che voleva ancora dormire nel lettone e del più grande che non sapeva che Facoltà scegliere, perché il futuro è difficile da decifrare…
L’uomo ascoltava. Ascoltava molto e parlava poco.
Un giorno, l’uomo cominciò a raccogliere le sue cose per andarsene.
Si riunirono tutti intorno a lui e lo guardavano. Lo guardavano ed aspettavano.
« Lasciaci qualcosa. Per ricordare ».
L’uomo mostrava le sue mani vuote: che cosa poteva donare?
Ma la gente lo circondava e aspettava.
Allora l’uomo estrasse dallo zainetto i suoi gessetti di tutti i colori, quelli che gli erano serviti per dipingere angeli, fiori e sogni, e li distribuì alla gente.
Un pezzo di gessetto colorato ciascuno, poi senza dire una parola se ne andò.
Che cosa fece la gente dei gessetti colorati? Qualcuno lo inquadrò, qualcuno lo portò al museo civico di arte moderna, qualcuno lo mise in un cassetto, la maggioranza se ne dimenticò.

E’ venuto un Uomo ed ha lasciato anche a te la possibilità di colorare il mondo. Tu che hai fatto dei tuoi gessetti?

di Bruno Ferrero - A volte basta un raggio di sole

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Il club del novantanove

Posté par atempodiblog le 16 juin 2008

Il club del novantanove dans Don Bruno Ferrero IL-club-dei-novantanove

C’era una volta un re molto triste che aveva un servo molto felice che circolava sempre con un grande sorriso sul volto. «Paggio», gli chiese un giorno il re, «qual è il segreto della tua allegria?».
«Non ho nessun segreto. Signore, non ho motivo di essere triste. Sono felice di servirvi. Con mia moglie e i miei figli vivo nella casa che ci è stata assegnata dalla corte. Ho cibo e vestiti e qualche moneta di mancia ogni tanto».
Il re chiamò il più saggio dei suoi consiglieri: «Voglio il segreto della felicità del paggio!».
«Non puoi capire il segreto della sua felicità. Ma se vuoi, puoi sottrargliela».
«Come?».
«Facendo entrare il tuo paggio nel giro del novantanove».
«Che cosa significa?».
«Fa’ quello che ti dico…».
Seguendo le indicazioni del consigliere, il re preparò una borsa che conteneva novantanove monete d’oro e la fece dare al paggio con un messaggio che diceva: «Questo tesoro è tuo. Goditelo e non dire a nessuno come lo hai trovato».
Il paggio non aveva mai visto tanto denaro e pieno di eccitazione cominciò a contarle: dieci, venti, trenta, quaranta, cinquanta, sessanta…
novantanove!
Deluso, indugiò con lo sguardo sopra il tavolo, alla ricerca della moneta mancante. «Sono stato derubato!» gridò. «Sono stato derubato! Maledetti!».
Cercò di nuovo sopra il tavolo, per terra, nella borsa, tra i vestiti, nelle tasche, sotto i mobili… Ma non trovò quello che cercava.
Sopra il tavolo, quasi a prendersi gioco di lui, un mucchietto di monete splendenti gli ricordava che aveva novantanove monete d’oro. Soltanto novantanove. «Novantanove monete. Sono tanti soldi», pensò. «Ma mi manca una moneta. Novantanove non è un numero completo» pensava. «Cento è un numero completo, novantanove no».
La faccia del paggio non era più la stessa. Aveva la fonte corrugata e i lineamenti irrigiditi. Stringeva gli occhi e la bocca gli si contraeva in una orribile smorfia, mostrando i denti.
Calcolò quanto tempo avrebbe dovuto lavorare per guadagnare la centesima moneta, avrebbe fatto lavorare sua moglie e i suoi figli. Dieci dodici anni, ma ce l’avrebbe fatta!
Il paggio era entrato nel giro del novantanove…
Non passò molto tempo che il re lo licenziò. Non era piacevole avere un paggio sempre di cattivo umore.

E se ci rendessimo conto, così di colpo, che le nostre novantanove monete sono il cento per cento del tesoro. E che non ci manca nulla, nessuno ci ha portato via nulla, il numero cento non è più rotondo del novantanove. È soltanto un tranello, una carota che ci hanno messo davanti al naso per renderci stupidi, per farci tirare il carretto, stanchi, di malumore, infelici e rassegnati. Un tranello per non farci mai smettere di spingere.
Quante cose cambierebbero se potessimo goderci i nostri tesori così come sono.

Bruno Ferrero – Ma noi abbiamo le ali

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Che bello, quest’anno ci sono tanti bocciati

Posté par atempodiblog le 16 juin 2008

Proviamo a rimettere in sesto la scuola incominciando dalla severità degli insegnanti in classe? Condizione necessaria, ma non sufficiente. Tuttavia una scelta di relazione – quella della severità – importante per stabilire il giusto equilibrio tra professori, studenti, famiglie.
Consideriamo due esempi estremi: il bullismo e la scelta di istituti all’estero per l’istruzione dei figli da parte di genitori facoltosi. Per un verso o per un altro i due casi sono impietose testimonianze della bancarotta della scuola pubblica, ed entrambi i casi hanno – tra le altre – radici comuni nell’assenza di severità nella classe.
Incominciamo dai bulletti. Genitori assenti: credono di conoscere come le proprie tasche i figli e invece non sanno nulla di loro. Da parte sua, l’insegnante dimostra di essere incapace di mantenere la disciplina, che tuttavia non può non avere il suo fondamento nell’educazione dei genitori. Risultato inevitabile: famiglie latitanti più insegnanti sprovveduti e abbandonati a se stessi uguale degrado educativo e formativo di cui il bullismo è solo la manifestazione più eclatante.
Secondo esempio. La disciplina in classe è una regola non solo di comportamento, ma di apprendimento che protegge i più deboli, sia dal punto di vista economico che caratteriale. Se l’insegnante tiene la disciplina è anche in grado di capire quanto abbiano studiato i suoi alunni, li può valutare in modo appropriato ed egli stesso è nelle condizioni di fare delle lezioni decenti.
La confusione in classe favorisce il mimetismo dei furbi perché non possono essere controllati, interrogati e valutati come si deve. Il ragazzo bravo e quello asino finiscono per confondersi: il primo non riesce ad esprimere le sue qualità, il secondo trova mille scappatoie per andare avanti pur essendo un emerito ignorante. Risultato: il genitore che ha vera attenzione per il proprio figlio generalmente lo toglie dalla scuola pubblica, sceglie quella privata dove c’è più ordine e disciplina, e soprattutto può protestare – poiché paga e profumatamente – se in classe c’è babilonia. Essendo poi gli insegnanti quelli che passa il convento, cioè il più delle volte purtroppo modesti, la famiglia benestante sceglie un istituto estero.
Così il ragazzo bravo e di normali condizioni economiche viene danneggiato due volte: la prima perché la scuola non gli insegna come dovrebbe, e comunque, nonostante la volontà del ragazzo, non gli vengono riconosciute le sue qualità. La seconda perché sul piano del mercato del lavoro le sue competenze risulteranno inferiori a quelle del giovane che ha studiato in istituti dove gli insegnanti potevano, attraverso la disciplina, fare bene il proprio lavoro.
Dunque, tutti d’accordo: difficile non convenire sul valore formativo ed educativo che ha alla base la disciplina. Certo, obiezioni arriveranno dai nostalgici dei metodi alla Montessori, ma sono obiezioni che, proprio oggi, vengono facilmente confutate.
Finora queste considerazioni hanno riguardato l’aspetto formale della necessità di disciplina a scuola. Ma c’è anche una disciplina sostanziale, non solo formale. E qui casca l’asino. Chi può farsi rispettare tenendo la disciplina? Risposta: chi ha autorevolezza. E come può il docente manifestare la propria autorevolezza? Risposta: attraverso il suo sapere e la sua capacità didattica.

Noi purtroppo abbiamo docenti che sono vere capre e altri, non molti, bravi. Se qualcuno ha un po’ di esperienza della scuola, sa che il docente bravo è in grado di tenere la disciplina perché gli viene riconosciuta dagli studenti l’autorevolezza del suo ruolo. Malauguratamente nella stessa scuola ci sono molte capre e pochi bravi docenti. E questo accade perché non si è in grado di selezionarli, perché gli stipendi troppo bassi ne fanno un mestiere dequalificato, perché gli studenti di talento non si iscrivono più alle facoltà di lettere da cui provengono i futuri insegnanti.
Quarant’anni di sindacalismo sfrenato che ha puntato alla massificazione dell’insegnante (stipendi bassi, lavoro possibilmente per tutti, meritocrazia zero) ci hanno consegnato questa scuola, che le famiglie attente all’educazione dei propri figli considerano un pericolo.

di Stefano Zecchi – Il Giornale

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Il vigliacco che c’è in noi

Posté par atempodiblog le 16 juin 2008

Com’è seducente quella frase stampata sui manifesti che ritraggono Giovanni Falcone: «Chi non ha paura muore una volta sola, chi ha paura muore tutti i giorni». L’abbiamo vista e rivista ieri alle manifestazioni per il sedicesimo anniversario di Capaci, c’erano i politici e le istituzioni tutte, c’era la gente comune e c’erano i ragazzi delle scuole. Per qualche minuto, guardando i tg, ci siamo sentiti un popolo fiero e coraggioso, unito nel dire mai più la mafia, mai più.

Ci dev’essere però qualcosa che non funziona se solo un giorno prima abbiamo letto che a Napoli Roberto Saviano, l’autore di Gomorra, non riesce a trovare casa perché tutti hanno paura ad affittargliene una. Ci deve essere qualcosa che non funziona se le scuole vanno in piazza a difendere la legalità, come hanno fatto ieri, e poi scopriamo che i ragazzi di terza media della scuola Salvo D’Acquisto di Napoli scrivono nei temi «c’è gente che odia la camorra, io invece no, anzi a volte penso che senza la camorra non potremmo stare, perché ci protegge tutti».

Ci sono due Italie, quella che abbassa il capo e «l’Italia che non ha paura » cantata da De Gregori? Forse sì, anzi sicuramente sì. Ma forse c’è anche una realtà più inquietante, e cioè che l’Italia dei probi e quella dei corrotti sono solo due esigue minoranze, e in mezzo ci siamo noi, maggioranza che dice una cosa e ne fa un’altra, ci siamo noi che sappiamo bene quanto siano infernali la mafia e la camorra ma quando ci dicono che il signore della porta accanto può significare un’autobomba parcheggiata davanti al portone speriamo che se ne vada fuori dai piedi, e magari glielo diciamo pure, di andarsene.

Stiamo in mezzo senza accorgerci che stare in mezzo vuol dire scivolare da una parte, quella sbagliata. È la stessa Italia che per schierarsi aspetta di vedere come va a finire, e nel frattempo cerca di limitare i danni. Il 22 gennaio del 1943 Leo Longanesi annotava questo dialogo: «Credete che a Roma verranno a bombardarci?» «A Roma no, a Roma c’è il papa e poi Roma è troppo bella…» «Credo anch’io. Meglio che bombardino Milano…».

L’unità d’Italia – commentava Longanesi – poggia su questi ideali. Ricordare tutto questo nel giorno in cui andiamo in piazza per ricordare Falcone non è disfattismo, tutt’altro. È il metterci in guardia da un rischio: quello di ripetere un errore che abbiamo già commesso tante volte, fingendo di credere di essere stati tutti uniti e intrepidi nel combattere il fascismo e i nazisti, il terrorismo e la corruzione. Le manifestazioni pubbliche sono necessarie, ma non devono impedirci di riconoscere che il vigliacchetto che non affitta una casa a Saviano può nascondersi dentro ciascuno di noi.

di Michele Brambilla – Il Giornale

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