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Il disegno

Posté par atempodiblog le 13 juin 2008

Un bambino stava disegnando e l’insegnante gli disse: « E’ un disegno interessante, cosa rappresenta? ».
« E’ un ritratto di Dio ».
« Ma nessuno sa come sia fatto Dio ».
« Quando avrò finito il disegno lo sapranno tutti ».

Poco dopo la nascita di suo fratello, la piccola Sachi cominciò a chiedere ai genitori di lasciarla sola con il neonato. Si preoccupavano che, come quasi tutti i bambini di quattro anni, potesse sentirsi gelosa e volesse picchiarlo o scuoterlo, per cui dissero di no. Ma Sachi non mostrava segni di gelosia. Trattava il bambino con gentilezza e le sue richieste di essere lasciata sola si facevano più pressanti. I genitori decisero di consentirglielo.
Esultante, Sachi andò nella camera del bambino e chiuse la porta, ma rimase una fessura aperta, abbastanza da consentire ai curiosi genitori di spiare e ascoltare. Videro la piccola Sachi andare tranquillamente dal fratellino, mettere il viso accanto al suo e dire con calma: « Bambino, dimmi come è fatto Dio. Comincio a dimenticarmelo ».
I bambini sanno com’è fatto Dio, ma arrivano in un mondo che fa di tutto per farglielo dimenticare il più in fretta possibile.

di Bruno Ferrero – A volte basta un raggio di sole

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Perché pregare in latino?

Posté par atempodiblog le 13 juin 2008

Una lingua « antica », quindi non più correntemente parlata, è sottratta all’inevitabile mobilità della vita e garantisce quindi una certa fissità del linguaggio. Una fissità che non guasta quando l’argomento riguarda ciò che è eterno… «Le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili sono eterne» (2 Cor 4,18).

di Don Pietro Cantoni

L’elfo Gildor dice a Frodo: «È bello sentir frasi dell’Antica Lingua sulle labbra di altri viandanti in giro per il mondo» Una delle pochissime, forse l’unica « preghiera » nel Signore degli Anelli è in elfico: « Gilthoniel A Elbereth! [Salve Stella del Vespro!]« .

Qui incontriamo il concetto di lingua sacra. La lingua sacra può essere concepita come mezzo per esprimere e quindi partecipare ad un « mistero », cioè ad una azione che trascende l’agire comune, banale, « profano »; oppure come strumento di una azione magica. Da una parte espressione di fede, dall’altra di tecnica e di potere. Cfr. l’episodio degli esorcisti ambulanti ebrei (i figli di Sceva) raccontato nel capitolo 19 degli Atti degli Apostoli, dove il santo nome di Gesù, che comprende l’ineffabile nome di Dio accanto al termine « salva », è usato come talismano per scacciare gli spiriti, quindi senza fede.

Il Cristianesimo non dispone propriamente di una lingua sacra. In ciò si differenzia dal Giudaismo, dall’Islam e dall’Induismo. Le parole di Gesù sono tradotte in greco nel testo canonico del Nuovo Testamento e anche l’Antico Testamento è citato nella traduzione dei LXX, il cui valore e il cui significato per il Cristianesimo è difficilmente sopravvalutabile. Ciò non toglie che anche il Cristianesimo conosca delle « antiche lingue »: le lingue liturgiche. Le grandi tradizioni apostoliche dell’antichità cristiana si cristallizzano attorno a delle lingue liturgiche e alla lingua in cui è tradotta la Bibbia.

Tradizione Antiochena: siriaco (aramaico), la lingua della traduzione detta Peshitta. A questa tradizione appartengono le liturgie siro-occidentale e siro-orientale (detta anche « assira » o « caldea »), che – in India – è divenuta la liturgia siro-malabarese.

Tradizione Bizantina: greco, la lingua della traduzione dei LXX. A questa tradizione appartengono le liturgie di S. Basilio e S. Giovanni Crisostomo.

Tradizione Alessandrina: copto. Il copto deriva dall’antica lingua degli egiziani e si divide in « dialetti »: bohirico e sahidico. In questa lingua è celebrata la liturgia di S. Marco, detta anche – appunto – liturgia « copta ». Da questa liturgia deriva la liturgia etiopica, celebrata nell’etiopico antico, il gheez. In gheez abbiamo anche una traduzione della Bibbia, nel cui canone sono inclusi anche diversi apocrifi che ci sono giunti solo attraverso questa traduzione.

Tradizione Romana, a cui corrisponde ovviamente il latino con la traduzione Vetus Latina e la più nota Vulgata. In questa lingua sono (o furono) celebrate venerabili liturgie: romana, ambrosiana, celtica, gallicana, visigotico-mozarabica.

La prassi della Chiesa rispetto alle « antiche lingue » nelle varie tradizioni è stata diversa. La Chiesa latina ha mantenuto il latino in modo pressoché esclusivo dai tempi del pontificato di S. Damaso (366-384) fino al concilio Vaticano II. La Chiesa bizantina ha sempre ammesso la possibilità di traduzioni totali o parziali. Sono così nate le liturgie bizantino-slava, bizantino-rumena, ecc.

Le Chiese orientali hanno ammesso – nel tempo – traduzioni parziali. Sia i copti, per es., che i Maroniti, passano alternativamente dall’arabo alla lingua liturgica copta o siriaca.

Si pone qui il non facile problema della traduzione. Che cosa vuol dire tradurre? Il greco hermeneuô significa sia interpretare che tradurre. Come il latino interpretari. Tradurre è – in ultima analisi – un dispositivo linguistico finalizzato a « far comprendere ». Ma appunto, « che cosa far comprendere »?

Si tratta di un mistero: questo è ciò che deve essere capito. Ma non è contraddittorio « capire il mistero »? Qui sono indispensabili alcune premesse. Innanzitutto il mistero della rivelazione biblica non è propriamente una « cosa », ma una azione. Un’ azione la si capisce propriamente se – almeno in qualche modo – vi si partecipa. Non dobbiamo poi intendere il mistero come ciò in cui « non c’è niente da capire », ma esattamente come il contrario: « ciò in cui vi è troppo da capire ». Non quindi mistero come « buco nero », come somma di oscurità, ma come eccesso di luce. Il buio è – secondo l’efficace metafora usata da Aristotele – l’effetto che fa la luce del sole sull’occhio della « nottola » cioè l’animale notturno, il pipistrello o la civetta…

Davanti all’effetto di buio del mistero si rimane stupiti e quindi silenziosi. Myô in greco vuol dire « tacere » (è un verbo che sprime bene lo sforzo di due labbra che premono l’una contro l’altra) e di lì viene il termine mysterion.

Si tratta quindi di un mistero, ma di un mistero da capire almeno un po’, perché bisogna parteciparvi. Anche qui sarebbe opportuna una distinzione tra capire (o sapere) e comprendere, che non sono affatto la stessa cosa…

A questo proposito abbiamo il caso limite della Chiesa etiopica dove il gheez ormai non è più capito neppure dal sacerdote. Ore ed ore a pregare e cantare in una lingua incomprensibile… Non può costituire certo un modello da imitare, induce però a riflettere sui limiti del dispositivo « traduzione ». Una Chiesa ha continuato a mantenere viva la sua tradizione di fede praticando la liturgia in una lingua sconosciuta e d’altra parte è illusorio pensare che ogni problema di partecipazione sia magicamente risolto mediante una semplice traduzione linguistica… Si capisce tutto! Ma che cosa si capisce?

Una affermazione può quindi e deve essere fatta in tutta sicurezza: la Chiesa in tutte le sue tradizioni ammette come plausibile pregare in una lingua che non tutti conoscono. La lingua « antica » e sconosciuta diventa cioè un simbolo liturgico. Un « oggetto » liturgico che si affianca agli altri: altare, vesti, vasi, ecc. Come la traduzione è un dispositivo al servizio della comprensione, la lingua un po’ « sconosciuta » diventa un dispositivo al servizio del mistero.

Naturalmente – posto la natura del mistero, che abbiamo cercato di lumeggiare – ci dobbiamo chiedere fino a che punto una lingua può essere « sconosciuta » per servire alla bisogna. Una lingua assolutamente sconosciuta rischia di assumere la funzione dell’abracadabra delle favole o del sala gadula mencigabula, bibidi bobidi bù dei film di Walt Disney…

Il mistero si profila nel « chiaroscuro » della fede. Il problema della lingua liturgica va quindi visto almeno in una duplice prospettiva: una lingua antica, dal sapore « arcano », ma non « astruso », che sia quindi ancora uno strumento comunicante.

Possiamo allora valutare serenamente i pregi e i difetti di una lingua liturgica diversa da quella corrente.

Tra i pregi dobbiamo certamente ascrivere il collegamento che essa assicura con le radici proprie di una data tradizione liturgica, che è sempre anche tradizione teologica e spirituale. Si vive così in una comunione che è insieme diacronica e sincronica. Ricordo ancora con emozione il giorno che – durante una lunga giornata di confessioni all’aperto (si era nel 1987) accanto alla chiesa di Me?ugorje – mi si avvicinò un anziano signore dicendomi: «Ego sum sacerdos hungaricus, volo confiteri…».

Una lingua « antica », quindi non più correntemente parlata, è sottratta all’inevitabile mobilità della vita e garantisce quindi una certa fissità del linguaggio. Una fissità che non guasta quando l’argomento riguarda ciò che è eterno… «Le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili sono eterne» (2 Cor 4,18).

Un’antica lingua conserva dunque una connaturale simpatia – sintonia con il mistero.

Tra gli inconvenienti dobbiamo ascrivere soprattutto la pratica scomparsa del latino dai programmi scolastici. Perché una lingua liturgica « funzioni » non è indispensabile che tutti la capiscano, ma che qualcuno la capisca sì…

Bobbio, 17 agosto 2002
Tratto da: rassegnastampa.totustuus.it

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Il bambino nato tre volte

Posté par atempodiblog le 13 juin 2008

Il miracolo del piccolo Finley, il bambino nato tre volte
La madre prendeva la pillola. Quando ha scoperto di essere incinta ha provato ad abortire: però il bimbo è sopravvissuto
di Luca Doninelli, da “il Giornale” del 9 giugno 2008

Il bambino nato tre volte dans Aborto vitar

La prima cosa che il mondo ha saputo, a proposito di Finley Crampton, è che ha le orecchie a sventola. Le ha prese da papà. Dalla mamma ha preso invece il colore chiaro degli occhi.

Finley non si trova qui da ieri. Ha già sei mesi, sta piuttosto bene ed è cittadino inglese. E, se il buongiorno si vede dal mattino, possiamo stare certi che di lui sentiremo parlare ancora.

Finley infatti è vivo perché né la pillola anticoncezionale né un aborto terapeutico sono riusciti a sradicarlo dal grembo nel quale aveva cominciato a esistere, 19 settimane prima di apparire davanti agli occhi stupefatti dei medici di un ospedale del Nottinghamshire, gli stessi che 11 settimane prima avevano cercato di toglierlo di mezzo.

Quella di Jodie, la mamma, è una storia dolorosa. Jodie è portatrice di una malattia genetica che le è costata la perdita del primo figlio, a solo venti minuti dalla nascita, e la grave menomazione del secondo, di un anno maggiore di Finley. Per questo aveva deciso di non avere più figli, cominciando ad assumere sistematicamente la pillola. Accortasi, con stupore, di essere nuovamente incinta, era tornata in ospedale per abortire, ci ha provato e il risultato di tutta questa vicenda è che Finley è qui. Non si tratta, come si vede, di una storia di accanimento terapeutico, ma solo di una storia dolorosa con un inaspettato lieto fine, e questo non è perciò un articolo antiabortista, nel senso che la vita va ben oltre l’antiabortismo. La vita, che tendiamo a dare per scontata, e che richiede viceversa la nostra massima attenzione.

Quello che Finley ha da insegnarci, è per tutti. Ci insegna che la vita non è un «principio», un’idea, un’astrazione, ma un fatto, una cosa. Ricordate – dice Finley – che la vita è questa cosa che i medici del Nottinghamshire si son trovati davanti, restando con un palmo di naso dopo aver fatto il possibile per eliminarla. Certo, l’aborto può essere stato eseguito male, e il dosaggio delle pillole mal calibrato. Posso spingermi a pensare che la regolarità di Jodie nell’assunzione della pillola non sia stata esemplare, e che Jodie, nel fondo del cuore, desiderasse ardentemente altri figli dopo i primi due.

Nulla toglie però che si debba fare chapeau davanti alla vita, che diventa non solo trifoglio o mosca o gallina, ma uomo: alla sua tenacia, alla sua dura volontà, alla sua irriducibilità. La vita non coincide con i nostri programmi, è quello che è. Dirle di sì è l’accettazione di quello che tutta la cultura in cui siamo immersi ci insegna a odiare, perché la cultura in cui siamo immersi ci dice che la vita ha un senso solo se è come noi vogliamo.

E in questo, scusatemi se insisto, fa poca differenza l’ideologia di riferimento. Un cattolico sa bene,se non ha perso il cervello, com’è facile anche per lui accontentarsi della sua vita cattolica «bell’e fatta», come diceva Péguy. E la cultura dominante non si esprime tanto nell’abortismo (che è solo una conseguenza), quanto piuttosto in questa mediocrità, che spesso rimane anche quando ci si trasforma in fanatici e urlanti difensori dei più sacri principi.

La vita è il contrario di questo. Soprattutto in quello che è, come si diceva, il suo esito più inimmaginabile e in qualche modo più inaccettabile: l’uomo (un bel gattino è molto più accettabile).

Scrisse Hannah Arendt: «Gli uomini, nella misura in cui sono qualcosa in più che un fascio di reazioni animali e un adempimento di funzioni, sono del tutto superflui per il regime. Questo infatti non mira a un governo dispotico sugli uomini, bensì appunto a un sistema che li renda superflui».

Perciò che Dio benedica te e le tue orecchie a sventola, Finley, e con te questa cosa imperfetta, sporca, piena di guai, ma tenace e invincibile, che è la vita. Il solo augurio umano che possiamo fare a noi stessi è di riuscire ad affrontare fatiche e dolori nello stesso modo in cui tu hai affrontato i tuoi.

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