4 maggio 1949: cade il Grande Torino
Posté par atempodiblog le 2 mai 2008
Storie dalla storia / 4 maggio 1949: cade il Grande Torino
di Marco Innocenti – Il sole 24 ore
Dominò per cinque anni il campionato italiano: un monologo per il Torino, una teoria di scudetti color granata, con Juventus e Inter a fare da primi avversari. Dal 17 gennaio 1943 al 30 aprile 1949 il Filadelfia rimase imbattuto: 93 partite con 83 vittorie e dieci pareggi. Erano i campioni più amati dall’Italia sportiva. Poi, improvviso, il tiro crudele del destino: scompare un gruppo di ragazzi che è vissuto insieme per un tempo troppo breve.
Lo schianto
Pomeriggio del 4 maggio 1949. La primavera tarda al Nord e nebbie basse sporcano ancora i tramonti. Il cielo è cupo, fa freddo. Le nubi incombono basse e cupe, color inchiostro; la pioggia cade a ondate, sferzata dal vento. La sera ruba spazio al pomeriggio, la visibilità è di trenta metri, Torino sembra avvolta da un’ombra di malinconia, quasi un presagio. L’aereo del Torino, un trimotore Fiat proveniente da Lisbona, sta atterrando. Alle 17,07 , improvvisi, un boato e uno scoppio, come una folgore. L’apparecchio si schianta contro il colle della Basilica di Superga e si incendia. Non ci sono superstiti. «Che le nubi e i venti ci siano propizi e non ci facciano troppo ballare», così chiudeva il servizio del giornalista Luigi Cavallero, una delle 31 vittime, trasmesso dall’aeroporto di Lisbona a un quotidiano della sera.
L’Italia in lutto
Il Paese è stordito. L’emozione è immensa, e poi confusione, lacrime, cordoglio, disperazione. Dolore e amore sono complementari e nessun lutto è nazionale come la scomparsa del Grande Torino. Tutta la pietà d’Italia si stringe attorno ai caduti, alle loro mogli e ai loro bambini. I tifosi si trovano affratellati nel dolore. Il Torino è la più forte squadra d’Europa, la bandiera del calcio italiano, una gloria nazionale in un Paese che non ha glorie. Ha vinto quattro campionati consecutivi, stava per vincerne il quinto. I ragazzi recitano la formazione a memoria: Bagicalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti II, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola. Erano giovani, sani, amici fra loro, leali, bravi ragazzi e il destino li ha portati via in un colpo. «Sono caduti come soldati – scrive « La Stampa » – spensierati, semplici, colti a tradimento sulla soglia dell’accampamento. E ci sorgono spontanee nella memoria le parole con cui i soldati ricordano i loro caduti: erano giovani, la loro vita non ritorna più».
La lapide di Superga
Nei poveri brandelli di carne il vecchio Vittorio Pozzo, chino sotto il peso del dolore, cerca a uno a uno i visi dei suoi ragazzi chiamandoli sommessamente come per l’appello di un’ultima partita. Tocca a lui, l’ex commissario della nazionale, riconoscere i cadaveri. Maroso lo individua dalla cravatta, l’unica cosa che di lui sia rimasta. Indro Montanelli, sul « Corriere della Sera », li saluta con un articolo intitolato: « Nel grande stadio dell’aldilà Mazzola passa a Gabetto ». Ai funerali seguiranno le bare in trecentomila. Con loro, idealmente, ci sono gli occhi rossi dei ragazzi d’Italia. Sul colle di Superga viene murata una lapide che li ricorda e tramanda la leggenda della squadra che non perdeva mai. Per molti anni sarà mèta di pellegrinaggi. Ma il tempo passa, i ricordi sbiadiscono e le visite si fanno sempre più rare. Forse perché il 1949 è lontano o forse perché il calcio, oggi, è un’altra cosa.
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