C’è un altro mondo

Posté par atempodiblog le 30 mai 2008

La vita dei bambini e dei ragazzi di oggi si svolge spesso in un bozzolo di beatitudine materiale e, in molti casi, di ebetudine spirituale. I loro orizzonti sono limitati, soprattutto perché lo sono quelli dei loro genitori e dei loro educatori. Le dimensioni spirituali della vita sono molto raramente prese in considerazione come tali. Il benessere che la nostra cultura cerca è soprattutto quello materiale: una specie di seduzione che incatena l’uomo alle cose meno importanti, se non addirittura spregevoli. Una seduzione che ieri agiva essenzialmente su certe classi privilegiate, oggi su tutti. Le giovani generazioni si affacciano così alla vita con un grande senso di vuoto interiore. Un vuoto che spesso tentano di riempire con una sempre più precoce serie di esperienze e brividi emozionali. Esiste una diffusa domanda di « religiosità » che non viene soddisfatta dalla nostra cultura che potremmo definire « malata d’anima». La pedagogia religiosa stessa corre il rischio di non trovare, soprattutto nei bambini e nei ragazzi, punti di ancoraggio reali. Vengono a mancare quelle che sono le « basi » della religiosità, soprattutto il rapporto dell’uomo con la trascendenza.
Per molti ragazzi la trascendenza è una dimensione inesistente, soprattutto perché completamente dimenticata dalle principali agenzie educative. Educare alla dimensione « religiosità » è invece un compito ineliminabile di una educazione integrale e umana.

Il coraggio di Giantarlo
In una trave dell’armatura di un vecchio e massiccio fienile viveva una comunità di tarli. La loro vita consisteva nel rosicchiare, rosicchiare e ancora rosicchiare. Se non rosicchiavano dormivano e questo era tutto.
In passato erano stati i loro genitori a fare la loro opera di rosicchiamento nella trave e, ancor prima di loro, i nonni e i bisnonni e i genitori dei bisnonni. Insomma tutti gli antenati di quei tarli non avevano fatto altro che rosicchiare quella trave e si erano potuti così nutrire molto bene.

La via che conduce fuori
E’ facile immaginare che la vita di quei tarli non era particolarmente eccitante. La noia era rotta dalle storie raccontate da un vecchio tarlo che una volta aveva rosicchiato un libro di favole e dalle serate di ballo nelle feste di compleanno e onomastico. Anche dal punto di vista della gola, non accadeva un gran che. Di tanto in tanto uno dei tarli incappava in una vena di resina essiccata e allora per breve tempo c’era una varietà nella lista delle vivande. Ma la cosa accadeva di rado.
Un giorno, l’allegra compagnia dei tarli era seduta insieme a banchettare, cioè a rosicchiare la solita trave. Tra un boccone e l’altro conversavano sui vari tipi di legno della loro trave: quello che fa ingrassare, quello che dà acidità di stomaco, quello stagionato al punto giusto. I tarli non parlano d’altro che di legno o del campionato di scavo che si svolge tutti gli anni.
Ad un tratto però, il più anziano dei tarli sbottò: «C’è un mondo al di fuori della trave. Io conosco la via che conduce fuori. Una formica che incontrai una volta in una delle mie passeggiate, me l’ha descritta con esattezza».
«Macché!», disse un altro tarlo, «secondo me non c’è nessun mondo all’infuori di questo. Sono tutte fantasticherie! Il mondo è fatto di legno, ecco la realtà della vita, mio caro, ti piaccia o no».
Un altro tarlo ancora disse: «Eppure è possibile che ci sia qualche altra cosa all’infuori del legno. Io non lo escluderei, ma vi avverto: non pensateci troppo, può diventare pericoloso. Chi sa realmente che cosa c’è al di fuori del legno? Nessun tarlo può saperlo!».
Un altro tarlo borbottò, con la bocca piena: «A me non interessa. Fintanto che posso riempirmi a sazietà, mi sta bene tutto!».
Giantarlo era un tarlino giovane e vispo e quei discorsi lo interessarono subito. Dopo aver molto riflettuto, intervenne dicendo: «Chissà? Forse esistono altre specie di legno. Forse noi mangiamo il legno più scadente che c’è e non lo sappiamo. Forse nelle strette vicinanze c’è un legno dolce o che so io!».
Gli altri tarli scoppiarono a ridere. «Ma tu sei completamente impazzito!», dissero, e il tarlo più anziano aggiunse beffardamente: «Se sei così sicuro, va’ a vederti l’altro mondo! La via per arrivarci è semplicissima: basta che rosicchi sempre in direzione sud come mi indicò la formica. Va’! Nessuno ti trattiene!».
Gli altri tarli risero di nuovo, ma Giantarlo rispose fiero: «Non avete motivo di ridere! Io rischio! Per conto mio potete ammuffire qui!». E da quel momento si mise a rosicchiare in direzione sud.

Addio al vecchio mondo
Lavorava con zelo e s’immaginava l’altro mondo meraviglioso. Era persuaso che la trave non poteva essere «tutto il mondo». Tutti i tarli che lo incontravano però non facevano che sghignazzare.
Il papà e la mamma lo inseguirono preoccupati. «Figlio mio», scoppiò a piangere la madre, «ti ha dato di volta il cervello? Torna in te, rosicchia con noi in pace, come ti hanno insegnato tuo padre e tua madre, scava come i tuoi fratelli che ti vogliono tanto bene».
Giantarlo voleva bene ai suoi, ma era troppo sicuro di essere nel giusto per avere dei dubbi: abbracciò la madre, salutò il padre e i fratelli e continuò risolutamente a rosicchiare in direzione sud.
Il suo passaggio destò subito la sorpresa di un crocchio di tarle che da brave comari si erano radunate a far quattro chiacchiere in una galleria boutique molto chic.
«Guardate!», disse una. «Passa il tarlo che pensa di uscire dal trave».
«Non c’è più buon senso», disse un’altra.
«Con tutte le belle cose che ci sono da fare qui», ribadì un’altra.
«Ohibò, ohibò», disse una quarta.
Ma Giantarlo proseguì diritto per la sua strada.

In due si scava meglio
Ad un certo punto si sentì chiamare da un vecchio tarlo dall’espressione malinconica che se ne stava tutto solo in una vecchia galleria ingombra di detriti.
«Buon giorno», disse Giantarlo.
Il vecchio lo osservò a lungo, poi disse: «Cosa credi di fare? Anch’io, quando ero giovane, pensavo di andarmene dal trave per trovare un altro mondo e altro legno. Ma poi mi è mancato il coraggio ed ecco che cosa ci ho guadagnato: vivo tutto solo, e la gente pensa che sono matto. Fin che sei in tempo, da’ retta a me: rassegnati a fare come gli altri e un giorno mi ringrazierai del consiglio».
Giantarlo non sapeva cosa rispondere e stette zitto. Ma dentro di sé pensava: «Ho ragione io».
E salutato gentilmente il vecchio tarlo riprese fieramente il suo cammino.
Rosicchiò e rosicchiò, ma i travi sono grossi e i tarli sono piccoli.
Il tempo passava e Giantarlo trovava sempre e soltanto legno. Mille volte gli venne la tentazione di fermarsi, tornare indietro e comportarsi come tutti i tarli di questo mondo.
Una notte, rannicchiato nella galleria che stava scavando, spossato per la fatica, con le lacrime agli occhi, prese la grande decisione: «Basta! Non c’è nessun mondo al di là della trave. Tutto è legno e nient’altro! Domani tornerò indietro».
Proprio in quel momento un rumore sottile sottile, che ben conosceva, lo fece trasalire. Era il rumore di un tarlo che scavava a tutta forza.
Dopo un po’ lo vide arrivare. Era ansante, sudato, ma sorridente fino alla coda. «Finalmente ti ho raggiunto!», disse il nuovo arrivato. «Mi chiamo Piertarlo e voglio venire con te. Anch’io sono stufo della trave. Sono certo che c’è un altro mondo, fuori».
«Piacere!», rispose Giantarlo. E sentì che gli era tornato in cuore tutto il coraggio. «Domani scaveremo una galleria di esplorazione in quella direzione là. Sento che non manca molto alla meta».

Il coro degli angeli
In realtà mancavano ancora dieci centimetri abbondanti, perché la direzione sud non era la migliore per uscire dalla trave, ma la formica che aveva dato l’indicazione al vecchio tarlo non aveva mai capito niente di punti cardinali.
Non importava più molto. In due era tutto più facile. Se uno era stanco o sfiduciato, veniva confortato dall’altro. La fatica era divisa a metà, il coraggio invece raddoppiato.
Così un mattino dorato di settembre, Giantarlo e Piertarlo sbucarono fuori del trave. Per la prima volta videro il cielo azzurro e lo splendore del sole.
«Urrà!», gridarono all’unisono e si abbracciarono. Che cosa perdevano i tarli che pensavano che tutto il mondo fosse un trave!
L’aria tersa del loro nuovo mondo era percorsa da suoni incantevoli.
«E il coro degli angeli!», esclamò estasiato Giantarlo. «Ma va’!», brontolò una formica che transitava da quelle parti trascinando un pesante chicco di grano. «Sono i grilli. Mi fanno venire il mal di testa…».
Ma per i due tarli quel cri-cri era la musica più straordinaria che avessero mai sentito.Suggerimenti didattici

L’esperienza nascosta nel racconto
Le convinzioni dei tarli nella trave sono le convinzioni e i comportamenti di basso profilo ideale di molte persone del mondo attuale. L’orizzonte «reale» presentato dal sistema comunicativo in cui viviamo è schiacciato, unidimensionale. Televisione, giornali, pubblicità si disinteressano palesemente della trascendenza, riconducendo ogni problema nei limiti di uno sfrenato egocentrismo e di una intransigente affermazione del «sé».
Giantarlo è l’uomo che sente un potente impulso verso una dimensione diversa della vita e rinnega il servilismo acritico verso l’opinione prevalente. Il giovane tarlo sceglie un’autentica libertà, anche se questo implica un certo distacco, fatica e isolamento. Non si può uscire da se stessi, darsi con generosità, abbandonare il proprio guscio se non si è profondamente liberi. Liberi dagli idoli della possessività e dell’autoconservazione, liberi da indottrinamenti e da suggestioni, liberi dal ricatto e dalla paura.
L’arrivo di Piertarlo aggiunge un altro tratto significativo: tutto questo è più facile se condiviso con qualcuno. E’ l’esigenza di un gruppo, una comunità.
L’insegnante può spiegare agli allievi che lo scopo dell’ora di religione è proprio la ricerca di quell’altra dimensione, così spesso dimenticata da chi pensa che tutto consista nel «rosicchiare» e basta.

Per il dialogo
L’insegnante deve condurre gli allievi a percepire l’esperienza umana nascosta nel racconto. Lo può fare con qualche domanda:
- A che cosa vi fa pensare la vita dei tarli nel trave?
- Perché Giantarlo se ne va? Che cosa cerca?
- Perché gli altri tarli non lo seguono?
- Perché l’arrivo di Piertarlo infonde nuovo coraggio a Giantarlo?
- Avete avuto bisogno di coraggio qualche volta? Dove lo avete trovato?
Com’è il mondo al di là della trave?

Per l’attività
Divisi a gruppetti, i bambini devono cercare di rappresentare con disegni o collages il «mondo dei tarli» e «il mondo di Giantarlo». La rappresentazione migliore è quella classica del labirinto, con tante piste che portano agli ideali «correnti» del nostro mondo: automobili, case, poltrone di comando, divertimenti, ecc. Una pista sola, anche se complicata, porta fuori del labirinto, in un luogo dove sono rappresentati gli ideali dello spirito.

Anche la Bibbia racconta…
I profeti, gli apostoli e naturalmente Gesù Cristo hanno indicato agli uomini la via del «cielo», della vita secondo lo spirito. L’insegnante può leggere o raccontare la storia di Giovanni Battista.

tratto da: Bruno Ferrero, Tutte storie, Elledici 1989
Fonte: Elledici

 

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La porta

Posté par atempodiblog le 29 mai 2008

C’è un quadro famoso che rappresenta Gesù in un giardino buio. Con la mano sinistra alza una lampada che illumina la scena, con la destra bussa ad una porta pesante e robusta.
Quando il quadro fu presentato per la prima volta ad una mostra, un visitatore fece notare al pittore un particolare curioso.
« Nel suo quadro c’è un errore. La porta è senza maniglia ».
« Non è un errore » rispose il pittore. « Quella è la porta del cuore umano.
Si apre solo dall’interno ».

L’aeroporto di una città dell’Estremo Oriente venne investito da un furioso temporale.
I passeggeri attraversarono di corsa la pista per salire su un DC3 pronto al decollo per un volo interno.
Un missionario, bagnato fradicio, riuscì a trovare un posto comodo accanto a un finestrino. Una graziosa hostess aiutava gli altri passeggeri a sistemarsi.
Il decollo era prossimo e un uomo dell’equipaggio chiuse il pesante portello dell’aereo.
Improvvisamente si vide un uomo che correva verso l’aereo, riparandosi come poteva, con un impermeabile. Il ritardatario bussò energicamente alla porta dell’aereo, chiedendo di entrare. L’hostess gli spiegò a segni che era troppo tardi. L’uomo raddoppiò i colpi contro lo sportello dell’aereo.
L’hostess cercò di convincerlo a desistere. « Non si può… E tardi…
Dobbiamo partire », cercava di farsi capire a segni dall’oblò.
Niente da fare: l’uomo insisteva e chiedeva di entrare.
Alla fine l’hostess cedette e aprì lo sportello.
Tese la mano e aiutò il passeggero ritardatario a issarsi nell’interno.
E rimase a bocca aperta. Quell’uomo era il pilota dell’aereo. Attento! Non lasciare a terra il pilota della tua vita.

di Bruno Ferrero – C’è qualcuno lassù?

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La scelta

Posté par atempodiblog le 29 mai 2008

Un uomo si sentiva perennemente oppresso dalle difficoltà della vita e se ne lamentò con un famoso maestro di spirito.
« Non ce la faccio più! Questa vita mi è insopportabile ».
Il maestro prese una manciata di cenere e la lasciò cadere in un bicchiere pieno di limpida acqua da bere che aveva sul tavolo, dicendo: « Queste sono le tue sofferenze ». Tutta l’acqua del bicchiere s’intorbidì e s’insudiciò. Il maestro la buttò via. Il maestro prese un’altra manciata di cenere, identica alla precedente, la fece vedere all’uomo, poi si affacciò alla finestra e la buttò nel mare. La cenere si disperse in un attimo e il mare rimase esattamente com’era prima. « Vedi? » spiegò il maestro. « Ogni giorno devi decidere se essere un bicchiere d’acqua o il mare ».

Troppi cuori piccoli, troppi animi esitanti, troppe menti ristrette e braccia rattrappite. Una delle mancanze più serie del nostro tempo è il coraggio, che di fronte ad ogni problema fa dire tranquillamente: « Da qualche parte certamente c’è una soluzione ed io la troverò ».

di Bruno Ferrero – Il segreto dei pesci rossi

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E’ amore!

Posté par atempodiblog le 26 mai 2008

Se tutte le Bibbie del mondo, è stato detto, andassero distrutte per qualche cataclisma o furore iconoclasta e ne rimanesse soltanto una copia; e anche questa copia fosse così danneggiata che solo una pagina fosse ancora intera, e anche questa pagina fosse così stropicciata che solo una riga si potesse ancora leggere: se tale riga è la riga della Prima lettera di Giovanni dove è scritto « Dio è amore! », tutta la Bibbia sarebbe salva, perché tutto è contenuto lì.

di Padre Raniero Cantalamessa

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Trionfo della Roma

Posté par atempodiblog le 25 mai 2008

Coppa Italia, trionfo della Roma
La Sensi: Noi Campioni d’Italia

Inter battuta 2-1 in finale all’Olimpico: i giallorossi si aggiudicano per la nona volta il trofeo. Decidono Mexes e Perrotta, gol nerazzurro di Pelè. L’ad: «Come uno scudetto». Totti alza la Coppa con la maglia speciale col numero 9: «Vittoria bellissima». Spalletti: «Dedicata al presidente e ai tifosi».

di Pasquale Salvione - Corriere dello Sport

Trionfo della Roma dans Articoli di Giornali e News romacampionejm2

ROMA, 24 maggio – La Coppa Italia l’ha alzata al cielo Francesco Totti davanti al presidente della Repubblica Napolitano. Una maglia bianca addosso con dietro il numero 9 grande (tante le volte che l’ha vinta la squadra giallorossa) e la data di oggi, 24 maggio 2008. Una maglia che indossavano anche tutti i suoi compagni per festeggiare in un Olimpico in delirio. La Roma ha avuto ragione dell’Inter prendendosi la rivincita sei giorni dopo aver dovuto arrendersi nella corsa scudetto. Un successo che Rosella Sensi, alla fine della partita paragona al tricolore e dedica a una persona speciale: «Questa coppa è per il presidente Franco Sensi, è meritata quanto lo scudetto. Una grande vittoria strameritata come tante altre che non sono arrivate. I campioni d’Italia siamo noi».

DECISIVI MEXES E PERROTTA – A decidere l’ennesima puntata della sfida infinita fra le due squadre sono stati Mexes (stupenda girata di destro ) e Perrotta (tocco facile dopo un bel triangolo con Vucinic), al termine di un match aperto, pieno di emozioni e in dubbio fino all’ultimo. Soprattutto perché l’Inter, che aveva subito il tremendo uno-due a cavallo fra primo e secondo tempo, ha reagito bene e, grazie alle mosse di Mancini, ha trovato in Pelè (entrato al posto di Stankovic) un trascinatore (e non solo per il gol). I nerazzurri, dopo aver accorciato le distanze, hanno sfiorato anche il clamoroso pareggio, con uno stupendo colpo di testa di Burdisso che ha centrato in pieno il palo. Ma il forcing nerazzurro non ha portato altri frutti: è finita con la Roma a festeggiare in campo. Mentre Totti e De Rossi alzavano la Coppa sotto la Curva Sud, Vucinic correva per il campo con l’automobilina del soccorso medico. E’ la serata della rivincita giallorossa.

LA GIOIA DI TOTTI - «Quest’anno abbiamo trovato una squadra un pò più forte di noi, un poco…». Francesco Totti rende omaggio all’Inter vincitrice del campionato ed insieme promette rivincite durante la festa. «Vincere la coppa in casa dà una grande soddisfazione – ha aggiunto Totti ai microfoni Rai – il nostro pubblico se lo merita. Cosa significa? La continuità della nostra competitività».

LA DEDICA DI SPALLETTI - Felice per la vittoria ovviamente anche Luciano Spalletti: «Per noi è una grande soddisfazione - ha detto ai microfoni di Roma Channel - Questa coppa la dedichiamo a Franco Sensi e a tutti i tifosi. I campioni d’Italia? Sono quelli dell’Inter, noi siamo secondi ma non perdenti, lo dicono i numeri di vittorie fatte in tutto il campionato».

LA FELICITA’ DEI PROTAGONISTI - «Ci siamo tolti una grande soddisfazione», dicono sorridendo a fine partita i match winner Philippe Mexes e Simone Perrotta. «Ho fatto il primo gol del campionato e l’ultimo della stagione – dice il difensore francese – Daremo ancora di più il prossimo anno, vogliamo vincere altri trofei». La curva sud canta ‘I campioni d’Italia siamo noi’, Perrotta è d’accordo in parte: «Virtualmente forse lo siamo, ma non sulla carta. Stasera però ci siamo tolti una bella soddisfazione. Abbiamo fatto una stagione strepitosa, meritavamo questa coppa. Questa è stata una stagione che ricorderemo per molto tempo. A momenti lo sbaglio quel gol… sono stato fortunato». Felicità anche nelle parole di Cassetti: «Abbiamo vinto contro i campioni d’Italia vuol dire che ce la possiamo giocare alla pari». Lo segue Aquilani: «Vincere questa Coppa dà una doppia soddisfazione perchè abbiamo battuto i campioni d’Italia». Chiude Vucinic: «È fantastico vincere qui speriamo di continuare a farlo».

ROMA-INTER 2-1
ROMA (4-2-3-1): Doni; Cassetti, Juan, Mexes, Tonetto; De Rossi, Pizarro; Giuly (21′ st Cicinho), Aquilani (46′ st Panucci), Perrotta (28′ st Brighi); Vucinic. A disp. Curci, Antunes, Mancini, Esposito. All. Spalletti
INTER (4-1-4-1): Toldo; Maicon, Burdisso, Chivu, Maxwell; J. Zanetti (45′ st Crespo); Balotelli, Vieira, Stankovic (1′ st Pelè), Cesar (17′ st Jimenez); Suazo. A disp. Julio Cesar, Fatic, Maniche, Solari. All. Mancini
Arbitro: Morganti di Ascoli Piceno
Marcatori: 36′ pt Mexes (R), 9′ st Perrotta (R), 15′ st Pelè (I)
Note: ammoniti Perrotta, Vieira, Vucinic, Burdisso, Pelè. Recupero 1′ pt, 6′ st. Spettatori 45 mila circa.

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“Dov’era Dio?”

Posté par atempodiblog le 24 mai 2008

DOVE ERA DIO?
di don Andrea Santoro

“Dov’era Dio?”. Molti se lo sono chiesti davanti alla tragedia del sud-est asiatico. È una domanda seria. Una domanda che ci facciamo quotidianamente davanti a sofferenze di ogni tipo. Una domanda spesso sommessa, segreta, non gridata ma sofferta silenziosamente nell’intimo.

Due risposte mi vengono in mente. La prima: “Non credo in Dio perché tutto va bene, ma siccome credo in Dio credo che in tutto c’è un bene nascosto che prima o poi verrà a galla”. “Non credo in Dio perché lo vedo ma siccome credo in Dio lo vedo sempre misteriosamente all’opera. Solo attendo di capirlo”. La seconda risposta: chiedere a Dio, davanti al dolore, dove si trova non è una bestemmia ma una preghiera, una legittima richiesta di un uomo piccolo davanti a un Dio troppo grande. La preghiera non è un’invocazione astratta ma la presenza concreta di tutto il nostro essere davanti a Dio, l’offerta di me a lui così come sono. Il mio urlo, il mio pianto, la mia imprecazione, il mio dubbio, il mio vuoto interiore, il mio peccato che mi umilia, l’ingiustizia che mi calpesta sono la mia preghiera. Li pongo davanti a Lui come li vivo. A Dio si può dire tutto, perché la preghiera è il mio vissuto e la fede è gettarmi addosso a Lui con tutto il mio peso. Nella Bibbia si legge: “Fino a quando Signore continuerai a dimenticarmi? Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?”. DiciamoGli dunque: dove sei? PuntiamoGli pure il dito addosso in un impeto di collera e di dolore, ma poi stringiamoci addosso a Lui e facciamoci portare: questo fa la differenza.

C’è una terza risposta, la più difficile e la più complessa, quella che maggiormente piega la nostra sicurezza, spiazza le nostre logiche più razionali, spezza il nostro orgoglio, la nostra illusione di dominare il mondo, la nostra pretesa di uomini giusti. La risposta è: dietro ad ogni tragedia c’è una tragedia più profonda che coinvolge l’universo intero. Una tragedia le cui radici sono nascoste e antiche ma i cui frutti amari sono di ogni tempo e ben visibili. Questa tragedia si chiama peccato e la si può paragonare, per capirla, a un’infezione nascosta che dà come sintomi convulsioni e attacchi di febbre altissima che stremano l’organismo e lo portano ogni volta sull’orlo del collasso e della morte. Il mondo, dice la Bibbia, è in preda al dolore e alla morte perché è in preda al peccato, non il mio o il tuo ma quello “nostro”, quello che passa di padre in figlio a partire dal primo “no” orgoglioso che si è annidato in noi come una malattia ereditaria: “grazie no, Dio! Non ho bisogno di te.Se tu ci sei, fai ombra alla mia libertà, perciò se devo esistere io, devi sparire tu”.

Come l’uomo (il singolo come ogni comunità e ogni popolo) conosce gli attacchi distruttivi dell’ira, della gelosia, dell’invidia, della superbia, dell’egoismo, dello spirito di possesso, della sensualità, del culto del denaro e dell’apparenza, così la natura creata conosce attacchi ciechi e distruttivi, lo scatenarsi di forze incontrollabili che si abbattono all’improvviso, magari dopo aver covato a lungo, e seminano morte. Come non c’è sempre amicizia tra uomo e uomo, tra popolo e popolo, anzi una strana inimicizia e rivalità, così non c’è sempre amicizia tra uomo e natura, anzi spesso ostilità e guerra vera e propria. L’immagine di una natura idilliaca e di un uomo “buono” all’interno di essa, è falsa. Dio non c’entra perché Dio all’inizio, come dice la Scrittura, “ha fatto bene ogni cosa”. C’entra il peccato che ha portato fuori centro l’asse dell’uomo e lo ha fatto impazzire. La creazione, casa dell’uomo, è rimasta sconvolta dal suo peccato come lo resterebbe una casa in preda a un pazzo. È stata sottomessa, senza sua volontà, alla caducità e al disordine e si è rivoltata contro l’uomo. È come impazzita essa stessa. Dio, per amore di libertà, ha lasciato spazio al peccato e alla morte che ne è il frutto e i cui segni sono evidenti tanto nell’uomo che nella natura. Ma Dio, per amore dell’uomo, non lo abbandona. Gli invia una forza illuminatrice, risanatrice e divinizzatrice e piega a suo favore le conseguenze tragiche del suo peccato. Dio cioè, che non ha voluto né il male né la morte, lascia al male, alla sofferenza e alla morte il suo corso affinché l’uomo, attraverso essi, si interroghi, si purifichi, e rientri in se stesso.

Quando l’uomo chiede a Dio: “dove sei?”, Dio chiede all’uomo: “e tu dove sei? Dove sono io nella tua vita? Dove è il tuo cuore? Dove portano le tue vie?”. Proprio la morte, da nemica, può diventare amica perché appannando all’improvviso tutto può portare alla luce cose nascoste e porre domande fino allora ignorate. Il dolore, che uccide e spesso all’inizio pone contro Dio, può aprire sentieri sconosciuti e produrre frutti inimmaginati, può riportare a quel Dio da cui ci eravamo allontanati e che per questo ci appariva inesistente o estraneo o muto. Dio non veglia sulle nostre tragedie per inviarcele cinicamente, non è cieco o distratto da non accorgersene, non è impotente da non potercene salvare. Dio veglia sul nostro male perché ne nasca un bene.

Non teme il dolore dei suoi figli ma se ne serve affinché, come per un bambino condotto in sala operatoria, ne nasca una guarigione. Dio non guarda dal di fuori il nostro dolore ma ci è entrato dentro in Gesù, “uomo dei dolori”, per mostrarci come trasformarlo in una via di luce, per viverlo in noi e farcelo vivere in lui come strumento di Redenzione e come fonte di vita.

Se non vogliamo allora sprecare una tragedia o una morte, o seppellire sotto le parole eventi dolorosi privati o pubblici dobbiamo sempre daccapo chiederci: dove stiamo andando? Attorno a cosa ruota la nostra vita? Siamo davvero giusti o siamo chiamati alla conversione? Dov’è davvero Dio? Farsi solo domande sui sistemi di allarme e di prevenzione, fare solo ricerche di natura medica o scientifica, indagare solo sui danni di natura economica, significherebbe sprecare la morte di tanti e buttare al mare un patrimonio di dolore. Le prime domande sono importanti e doverose. Ma le seconde lo sono ancora di più. Le prime sono difficili, le seconde ancora di più. Le prime permettono di ricostruire, le seconde permettono di rinascere.

da “Aesse”, il mensile delle Acli nazionali, n. 1, 2005

P.S.
Pensando allo Tsunami (il maremoto dell’Oceano Indiano del dicembre 2004) Padre Livio ha affermato che “Dio era lì che bussava alla porta di ogni cuore, inondato dall’acqua, per portarli nell’Oceano dell’Infinito Amore”.

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L’appassionato schiavo del dolore

Posté par atempodiblog le 22 mai 2008

L’appassionato schiavo del dolore
di Léon Bloy

L’appassionato schiavo del dolore dans Citazioni, frasi e pensieri leonbloy

Ogni afflizione al corpo e all’anima è un male d’esilio.

Io sono soprattutto un uomo di guerra, ma il mio furore si rivolgerà soltanto contro i potenti, gli ipocriti, i seduttori di anime, gli avari e sono straziato dalla pietà per gli oppressi e i sofferenti.

Non è in potere di nessun uomo il non cercare il Paradiso, fosse pure nella disperazione.
Il dolore non è il nostro fine ultimo, è la felicità il nostro fine ultimo. Il dolore ci conduce per mano sulla soglia della vita eterna.

L’uomo che non soffre o che non vuol soffrire, è un figlio diseredato dal Figlio di Dio che sposò il Dolore, perché solo colui che accetta di soffrire può intravvedere la Pace della sua anima.

Non accusatemi; voi credete che il sentimento religioso in me sia una particolare forma di rivolta. E’ esattamente il contrario.
Per quanto folle possa sembrarvi, io sono in realtà, un obbediente ed un tenero. E’ per questo che scrivo implacabilmente, dovendo difendere la Verità e rendere testimonianza al Dio dei poveri. Ecco tutto. Le mie pagine più veementi furono scritte per amore e spesso con lacrime d’amore, in ore di pace indicibili.

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Il mistero del male

Posté par atempodiblog le 22 mai 2008

È possibile conciliare la bontà e l’onnipotenza di Dio con la presenza del male? Da una conversazione tenuta dal prof. Giampaolo Barra a Radio Maria

Come possiamo dire che Dio è amore se poi noi vediamo tanto male che sembra trionfante nel mondo e nella nostra vita? Come possiamo accogliere il messaggio di amore e di salvezza di Dio se poi vediamo che sembra impotente di fronte al male? Questa domanda ha angosciato il cuore di tanti uomini anche sinceramente credenti, specialmente quelli che vivono una esperienza di sofferenza e di dolore. A questa domanda hanno tentato di dare una risposta insigni filosofi, ma la risposta più consolante resta quella cristiana e che nasce dalla fede che poggia sulla rivelazione di Dio. Per svolgere questa conversazione mi farò aiutare da un giovane e promettente filosofo, Giacomo Samek Lodovici, e di altri articoli che sono stati raccolti sul numero del Timone del mese di novembre 2006 all’interno del dossier « Dio e il problema del male ». Il problema del male e il tentativo il capirne il senso emerge costantemente nella vita dell’uomo specialmente di fronte alle malattie, alle guerre, alle stragi del terrorismo e alle catastrofi naturali. La domanda non si rivolge tanto alla sofferenza del malvagio, perché ci sembra giusto che chi ha sbagliato è giusto che meriti una punizione, ma si rivolge verso alla sofferenza delle persone innocenti, che non hanno colpe personali e che in vita loro non hanno mai fatto male a nessuno. Essendo l’uomo un essere razionale e dotato di intelletto cerca di capire il senso di queste realtà che noi genericamente chiamiano male e la cui risposta è difficile. La domanda si fa più pressante dunque quando ci troviamo di fronte alla sofferenza di chi è innocente, dei bambini colpiti dalla malattia o perché è capitato loro qualche disgrazia. Il bambino è l’immagine dell’innocenza e il vederli soffrire magari terribilmente angoscia il cuore di ogni essere umano degno di questo nome. Ma perché Dio permette ciò? Qualcuno si è spinto a muovere una specie di atto di accusa: se c’è Dio, come è possibile il male? Dov’era Dio ad Auschwitz? Se Dio esiste o il male sfugge alla sua sua onnipotenza (ma allora Dio non è onnipotente e non sarebbe nemmeno Dio) oppure Dio c’è ma non è buono (e sarebbe così complice del male nel mondo), oppure si deve riconoscere che Dio si disinteressa dell’uomo, che Dio c’è ma non ci ama, ci ha creato ma poi ci ha abbandonato al nostro destino lasciandoci in balìa della sofferenza e della morte. Nel tentativo di dare una risposta possiamo seguire una duplice strada. La prima strada è quella della ragione umana che non si serve dell’aiuto della Rivelazione e della fede, la seconda è la risposta offerta dal Cristianesimo e che non contrasta con la ragione ma la rende più completa.Ma iniziamo chiedendoci cos’è il male, cosa intendiamo con la parola male? Possiamo rispondere a questa domanda secondo 3 diversi punti di vista: quello ontologico, quello fisico e quello morale.

Secondo il punto di vista ontologico, cioé quel punto di vista che prende in considerazione l’essere, la filosofia ci dice che il male è una assenza di bene. Facciamo un esempio: quando definiamo la malattia come un male, in realtà stiamo definendo la mancanza di un bene, ossia l’assenza di salute. Pertanto il male, in sé stesso e indipendentemente da ogni bene, non esiste né può esistere perché non è un essere. Ciò implica che Dio non può aver fatto il male, essendo Dio creatore dell’essere, ossia di tutto ciò che esiste. Il male assoluto dunque non esiste.

Secondo il punto di vista fisico è la privazione di un bene fisico che appartiene per natura ad una cosa, che dovrebbe esserci e invece non c’è. Facciamo un esempio: noi consideriamo la cecità un male, ossia la mancanza della vista è un male per l’uomo perché per sua natura l’uomo deve vedere. La mancanza della vista, invece, non creerebbe alcun problema ad una pietra o ad una pianta perché la vista è una caratteristica della natura umana ma non di una pietra o di una pianta. Anche in questo caso Dio non può essere creatore del male essendo il creatore di tutto l’essere.

Secondo il punto di vista morale invece il male esiste. Secondo Sant’Agostino il male morale nella scelta consapevole di un bene minore rispetto ad un bene maggiore, ossia nella scelta di un bene più piccolo quando invece andrebbe scelto un bene più grande. Facciamo un esempio: il furto è un male morale, e con l’atto del rubare il ladro sceglie un bene minore rispetto ad un bene maggiore perché di fatto i soldi rubati ad un’altra persona in sé stessi sono una cosa buona dato che possono anche essere riutilizzati per fare del bene, ma rappresentano in ogni caso un bene più piccolo rispetto al rispetto del bene della persona che è stata derubata nella sua proprietà. Nessun uomo sceglie di fare il male perché crede che sia giusto fare il male, ma perché convinto di fare una cosa buona e ci sono casi in cui il male morale ha in sé anche qualche aspetto buono. Spesso il sadico prova pure del piacere a fare il male, ma il provare piacere in sé è un bene però in questo caso il piacere provato dal sadico è un piacere minore rispetto alla integrità della vita della persona a cui fa il male. Il male morale non può dunque essere additato a Dio ma sta nella libera scelta dell’uomo che agisce moralmente male infliggendo la sofferenza agli altri. Le guerre e molte altre sofferenze sono opera degli uomini e non di Dio.

La nostra natura di esseri umani è una natura limitata e la nostra ragione non è capace di capire tutto perfettamente perché facciamo continuamente esperienza dei limiti della nostra ragione e solo Dio ha uno sguardo assoluto sulla realtà. Il male dunque resta un mistero che solo Dio è in grado di decifrare perfettamente mentre noi possiamo tentare solo qualche vaga risposta. Il filosofo Samek Lodovici fa un chiaro esempio che ci aiuta a capire. Immaginiamo di trovarci davanti ad un quadro: se noi guardiamo il dipinto alla distanza di un centimentro può capitare di vedere una macchia scura che ci appare brutta e deforme. Se però noi ci mettiamo ad una distanza tale da permetterci di vedere il dipinto nella sua complessità ci accorgiamo che quella macchia oscura è in realtà un’ombra fatta bene che nell’insieme del dipinto ha un suo significato.

Se noi avessimo il punto di vista di Dio in modo da abbracciare tutto ciò accade in un insieme, potremmo arrivare a comprendere che Dio, tollerando alcuni mali, prepara sempre dei beni più grandi o ci evita dei mali maggiori. Facciamo ancora un esempio: una malattia fisica può essere così dolorosa da obbligarci a stare in ospedale e riteniamo questo fatto una disgrazia perché noi vediamo la nostra vita dalla nostra prospettiva. Forse però se noi potessimo guardare la nostra realtà dal punto di vista di Dio, magari potremmo capire che la sovverenza che in quel momento stiamo vivendo ci fa comprendere la nostra debolezza e la nostra miseria, il fatto che non siamo autosufficienti, che non siamo superuomini, e ciò potrebbe indirizzarci sul sentiero dell’unico bene che non delude: Dio. Quante volte si sono sentite storie di convertiti a Dio dopo un lungo calvario di sofferenze. Può anche essere dunque che Dio abbia permesso, non voluto ma permesso, un male per ricavarne un bene superiore come ad esempio il bene della fede. A volte i mali che ci capitano non propiziano un bene a noi stessi ma alle persone che ci amano e agli altri. Quante volte la sofferenza di una donna evita ad esempio mali maggiori al marito, ai figli o alla famiglia, dal momento che c’è un legame tra gli esseri umani.

E la sofferenza di un innocente come si spiega? Se ci mettiamo da un punto di vista estraneo alla fede, tale sofferenza rimane un assurdo e una crudeltà senza senzo. Se chiediamo aiuto alla fede allora la sofferenza di un innocente può trovare un barlume di senso e di significato. Può essere che senza questa croce la persona si sarebbe allontanata da Dio (cosa che è il male più grande che ci possa capitare), può essere che l’innocente sconti una pena rispetto ad altri che non l’avrebbero portata e che si sarebbero persi. San Tommaso ci insegna che tutti i mali che Dio permette sono sempre orientati ad un bene che non sempre è il bene di colui che subisce il male, ma talvolta è orientato al bene di altri o anche di tutto l’universo. Non si tratta di una risposta irragionevole e che libera il problema da tutti i misteri, ma ci lascia uno spiraglio di luce: tutti i mali sono orientati al bene. Cosa che non non capiamo pienamente ma che noi sappiamo in base alla Rivelazione. Dio dunque tollera e permette, ma non fa, il male per evitare un male peggiore o per trarne un bene.

Il male morale ha la sua causa nella libera scelta dell’uomo. Se Dio con la sua onnipotenza impedisse all’uomo di fare il male morale dovrebbe togliere all’uomo la causa di questo male morale ossia la sua libertà, ma ciò porterebbe l’uomo ad essere come gli altri animali. Facciamo un esempio: nessuno accusa un leone di aver commesso un male morale quando sbrana una gazzella perché quando il leone ha fame non ha la libertà di scegliere se uccidere o meno una preda ma segue l’istinto di soddisfare la sua fame ed obbedisce a questo istinto. L’uomo invece è diverso perché l’uomo è un essere libero.

Inoltre Dio si interesa premurosamente dell’uomo: Dio infatti ha voluto creare l’uomo libero senza averne alcun bisogno. Se infatti Dio è sommamente perfetto, quando ha creato l’uomo non ha aggiunto qualcosa a sé stesso cioé non è diventato più contento, più potente o più perfetto perché Dio sarebbe stato perfetto anche senza l’uomo. Dio ha creato l’uomo per un gesto di amore gratuito e ciò implica che Dio si interessa premurosamente all’uomo. Per il Cristianesimo la sofferenza è stata introdotta nel mondo dall’uomo e non da Dio ed è la pena per quella colpa che si chiama peccato originale. Il Cristianesimo però ci dice anche qualcosa di più, e si tratta di una novità strabiliante rispetto a tutte le altre religioni: che Dio si è fatto uomo, pur senza il peccato, ed ha assunto la natura umana compresa la sofferenza, sperimentando la sofferenza della crocefissione che è il culmine del dolore fisico e psicologico (cioéquello derivante dal tradimento degli uomini che aveva amato). Dio, quando gridò dalla croce «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato!», sperimentò il massimo del male che può capitare ad un uomo: la lontananza e l’abbandono da Dio. Si tratta dell’esito del peccato che Gesù sperimenta pur senza avere il peccato. Il Cristianesimo ci aiuta dunque a scagionare Dio dalla accusa di essere onnipotente ma indifferente all’uomo. Dio facendosi uomo non è rimasto indenne al male e alla sofferenza e non guarda all’uomo distrattamente o indifferentemente, ma si è incarnato per amore infinita e ha patito nell’uomo Gesù Cristo le più atroci sofferenze fino alla morte in croce. Quindi è impossibile accusare Dio di averci lasciato a soffrire da soli.

Qui è necessaria una precisazione di carattere dottrinale: Gesù come Vero Dio non soffriva ma come Vero Uomo in tutto simile a noi tranne che nel peccato ha sopportato il massimo del dolore concepibile in una persona non solo dal punto di vista fisico ma soprattutto dal punto di vista morale, sperimentando il male massimo che si potesse immaginare per una persona. Il perché di questa strada per redimere l’umanità non la sappiamo perché non riusciamo a penetrare così in fondo questa realtà. Scegliendo però questa strada il Signore ci indica la via della speranza, e ci dice che la via della croce, pur essendo dura, è comunque sopportabile e ci ha mostr che dopo il Calvario c’è la resurrezione.

Se dunque per gli altri la sofferenza dell’innocente resta uno scandalo, nel Cristianesimo resta piuttosto un mistero il cui senso ultimo ci sfugge, anche se ci viene garantito che la sofferenza dell’innocente è sempre feconda, e la garanzia ci giunge da Gesù Cristo, cioé da quell’innocente per eccellenza che ha sofferto e dalla cui soferenza è emersa la possibilità di guadagnarsi la salvezza eterna e il Paradiso. In tal modo anche la sofferenza di una persona buona o di un bambino innocente o degli ammalati partecipa alla redenzione operata da Cristo in favore di tutti gli uomini. La sofferenza dunque può essere offerta a Dio così come Gesù Cristo offrì la sua sofferenza al Padre chiedendo che in cambio la trasformi in bene per noi che soffriamo, per le persone care e per l’universo intero. Nel Cristianesimo guardando Cristo abbiamo un esempio di come si porta la croce e un amico che ci aiuta a portare la croce e che rende feconda la sofferenza. Si tratta di una consolazione che non cancella l’orizzonte della sofferenza dalla nostra vita ma che però le dà un significato ed una prospettiva: quello del premio che arriverà alla fine del cammino doloroso della « valle di lacrime ».

trascrizione e adattamento: A. Galli – Holy Queen

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L’ultimo della classe

Posté par atempodiblog le 21 mai 2008

L'ultimo della classe dans Don Bruno Ferrero Jean-Marie-Baptiste-Vianney-Curato-d-Ars

Quando era seminarista, Giovanni Battista Vianney, il futuro santo Curato d’Ars, aveva enormi difficoltà con la scuola. Non riusciva a capire neppure le nozioni più semplici.
I superiori del seminario lo avevano rimandato a casa più volte. Ma lui caparbiamente insisteva. Aveva ormai 21 anni e sedeva in aula con ragazzi che avevano dieci anni meno di lui.
Uno di questi, undicenne, cominciò ad aiutarlo nello studio.
Giovanni Battista Vianney era molto grato al suo piccolo maestro, ma le difficoltà persistevano: non capiva, non ricordava, si smarriva, balbettava.
Il ragazzino si lamentò di questo con i compagni di scuola. Giovanni Battista Vianney lo sentì. Si alzò dal suo banco, si inginocchiò davanti al ragazzino e gli disse: « Perdonami perché sono così stupido ».

In un campo di grano, quasi tutte le spighe stavano curve verso terra.
Solo alcune avevano lo stelo ben diritto e fissavano con alterigia il cielo, i passanti e le loro compagne.
« Noi siamo le migliori » garrivano all’intorno.
« Non viviamo piegando lo stelo come schiave, davvero si può dire che dominiamo gli eventi e la situazione! ». Ma il vento, che conosce la vita meglio di tutti, sogghignò:
« Stanno ben dritte, certo… Perché sono vuote! ».

di Bruno Ferrero

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La mano e la sabbia

Posté par atempodiblog le 21 mai 2008

La mano e la sabbia dans Don Bruno Ferrero sabbia

Giorgio, un ragazzo di tredici anni, passeggiava sulla spiaggia insieme alla madre.
Ad un tratto le chiese: « Mamma, come si fa a conservare un amico quando finalmente si è riusciti a trovarlo? ».
La madre meditò qualche secondo, poi si chinò e prese due manciate di sabbia. Tenendo le palme rivolte verso l’alto, strinse forte una mano: la sabbia le sfuggì tra le dita, e quanto più stringeva il pugno, tanto più la sabbia sfuggiva.
Tenne invece ben aperta l’altra mano: la sabbia vi restò tutta.
Giorgio osservò stupito, poi esclamò: « Capisco ».

Dietro un ‘immaginetta della Madonna, dimenticata in un santuarietto di montagna, ho trovato la « Preghiera dell’accoglienza ». Eccola:

Signore, aiutami ad essere per tutti un amico,
che attende senza stancarsi,
che accoglie con bontà,
che dà con amore,
che ascolta senza fatica,
che ti ringrazia con gioia,
Un amico che si è sempre certi di trovare
quando se ne ha bisogno.
Aiutami ad essere una presenza sicura,
a cui ci si può rivolgere
quando lo si desidera,
ad offrire un’amicizia riposante,
ad irradiare una pace gioiosa,
la tua pace, o Signore.
Fa’ che sia disponibile e accogliente
soprattutto verso i più deboli e indifesi.
Così senza compiere opere straordinarie,
io potrò aiutare gli altri a sentirti più vicino,
Signore della tenerezza.

di Bruno Ferrero

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Il funzionamento del mondo

Posté par atempodiblog le 20 mai 2008

Solo la provvidenza può spiegare il funzionamento del mondo

« Si interrogano gli ingrati e gli insensati: «Non dovrebbe esser proprio della bontà di Dio concedere per tutti uguaglianza di onori?». Dimmi, o ingrato, quali sono le cose che tu affermi non esser proprie della bontà di Dio, e che cosa intendi per «uguaglianza di onori»? Uno è storpio da fanciullo, un altro diventa pazzo ed è invasato da un demonio; un altro, che giunge al limite della vecchiaia, ha trascorso tutta la vita nella povertà; un altro in gravissime malattie: sono queste le opere della provvidenza? Uno è sordo, un altro muto; uno è povero; un altro, infame e scellerato e pieno d’innumerevoli vizi, guadagna denaro e mantiene meretrici e fannulloni, possiede una casa bellissima e conduce una vita senza mai lavorare. E raccolgono molti esempi del genere, tessendo un lungo discorso contro la provvidenza di Dio.

Che dunque? Non vi è nessuna provvidenza? Che cosa rispondiamo loro? Se fossimo greci e ci dicessero che il mondo è retto da qualcuno, anche noi diremmo loro le stesse cose: Perché non c’è nessuna provvidenza? Perché mai, allora, voi avete il culto degli dèi e adorate demoni ed eroi? Infatti, se esiste una provvidenza, essa si prende cura di tutto. Se vi fossero alcuni, cristiani o anche greci, che si scoraggiassero e vacillassero, che cosa diremmo loro? Tante cose, dimmi, ti prego, sarebbero dunque sorte buone per caso? La luce del giorno, l’ordine predisposto nelle cose, il movimento circolare degli astri, l’eguale corso dei giorni e delle notti, l’ordine della natura tanto nelle piante quanto negli animali e negli uomini? Chi è mai, domando, colui che governa tutte queste cose? Se nessuno le dirige ed esse dipendono tutte da se stesse, chi ha mai fatto questa volta così grande e bella, il cielo appunto, collocato tutt’intorno alla terra e anche sopra le acque? Chi dà alle stagioni dei frutti? Chi ha posto tanta vita nei semi e nelle piante? Ciò che avviene per caso, infatti, è assolutamente disordinato; ciò che presenta ordine e armonia, invece, è stato prodotto con ingegno.

Infatti, ti chiedo, quelle cose che da noi avvengono per caso, non sono piene di grande confusione, tumulto e turbamento? E non parlo soltanto di quanto avviene per caso, ma anche di ciò che è fatto da qualcuno, ma senza criterio. Ad esempio, vi siano legna e pietre, e vi sia anche la calce; ora, un uomo inesperto nell’arte di costruire, servendosi di questi, si accinga a edificare e a compiere qualcosa: costui non manderà forse in rovina e non distruggerà ogni cosa? E ancora, si dia una nave senza nocchiero, provvista di tutto quanto una nave debba possedere, tranne il nocchiero: potrebbe forse navigare? E la terra stessa, che è tanto estesa, posta com’è al di sopra delle acque, potrebbe rimanere tanto tempo immobile, se non vi fosse qualcuno in grado di sorreggerla? E tutto ciò è forse ragionevole? Non è ridicolo pensare queste cose?…

Se volessimo esporre esaurientemente, in tutto e per tutto, fin nei dettagli, tutte quelle cose della provvidenza, non ci basterebbero tutti i secoli. Domanderò, infatti, a chi abbia chiesto ciò: queste cose avvengono grazie alla provvidenza o senza la provvidenza? Se rispondesse: «Non sono della provvidenza», gli domanderei ancora: Come dunque sono state fatte? Ma non potrebbe rispondere in alcun modo. A maggior ragione, perciò, non devi investigare con curiosità intorno alle cose umane. Perché? Poiché l’uomo è l’essere più illustre e onorevole di tutti, e tutte le cose sono state create per lui, non lui per esse.

Se dunque non conosci la sapienza e il governo della provvidenza riguardo all’uomo, in che modo potresti mai scoprire quali siano le sue ragioni? Dimmi un po’, perché mai essa ha creato l’uomo così piccolo e così distante dall’altezza del cielo al punto che dubiti di quelle cose che si mostrano dall’alto? Perché le regioni australi e boreali sono inabitabili? Dimmi, perché la notte è stata fatta più lunga d’inverno e più corta in estate? Perché tanto freddo? Perché il caldo? Perché la mortalità del corpo? E altre innumerevoli cose voglio sapere da te; se tu vorrai, non smetterò d’interrogarti perché tu possa replicarmi in tutto.

Pertanto, la caratteristica più confacente alla provvidenza è questa: che le sue ragioni rimangano per noi ineffabili. Qualcuno, infatti, non avendo compreso il nostro pensiero, avrebbe potuto ritenere che l’uomo sia la causa di tutte le cose. «Tuttavia, direbbe qualcuno, quell’uomo è povero: e la povertà è un male». Ma che cos’è il male? Che cos’è la cecità, o uomo? Vi è un solo male: peccare; e solo di questo dobbiamo preoccuparci. Invece, tralasciando di scrutare le cause dei veri mali, ricerchiamo con curiosità altre cose. Perché nessuno di noi cerca mai di scoprire il motivo profondo per il quale ha peccato? È in mio potere di peccare, oppure no? Ma che bisogno c’è di usare un grande giro di parole? Cercherò tutto in me stesso: forse che sono riuscito qualche volta a vincere la passione? Ho vinto qualche volta l’ira per pudore o per timore umano? In tal modo, accertato questo, scoprirò che è in mio potere peccare. Nessuno si preoccupa di comprendere e di approfondire queste cose; al contrario, sconsideratamente, come si legge in Giobbe, l’uomo nuota disordinatamente nelle parole (Gb 11,12). »

Giovanni Crisostomo, Omelie sulla lettera agli Efesini, 19,3-4

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Inter campione d’Italia e gli altri verdetti

Posté par atempodiblog le 19 mai 2008

Torna Ibrahimovic e l’Inter è campione d’Italia. Fiorentina in Champions
di Lara Vecchio – Il Sole 24 ORE

Inter campione d'Italia e gli altri verdetti dans Articoli di Giornali e News interlg0

Il terzo per gli almanacchi. Il secondo per i protagonisti. Il primo, vero, questo sì, per i tifosi che non si sono mai davvero accontentati né del frutto del peccato altrui, né dell’impresa monca della scorsa stagione sulla quale pesava la falsa partenza o addirittura la latitanza delle contendenti storiche. Del trionfo di ieri si è detto tutto, troppo, e a tratti, giocando d’anticipo, a sproposito; oggi è il giorno di rendere onore ai campioni d’Italia, perché i detrattori, o i « gufi » (come li hanno definiti i neo scudettati) non hanno più nulla a cui aggrapparsi. E col senno di poi, aver rischiato di perderlo rocambolescamente non è una colpa, ma solo l’ingrediente segreto per rendere più gustoso il boccone. Il 16° scudetto dell’Inter è quello che straccia via, una volta per tutte, senza se e senza ma, l’etichetta dell’eterna incompiuta. È quello catartico che scrolla di dosso la frustrazione. È quello che i protagonisti si godranno solo dopo aver realizzato appieno. Ieri sera, paradossalmente, sono mancati i tempi tecnici. Come se non bastasse giocarsi tutto all’ultima giornata, a fine primo tempo il tricolore stava chiuso nella cassaforte del Massimino, a Catania, mentre Mancini e compagnia, al Tardini di Parma, rientravano in campo per la ripresa ostentando sicurezza, ma traditi dallo sguardo smarrito dell’ animale braccato. Certo, dopo aver respirato l’odore pungente della paura, quello della festa è così inebriante che arriva al cervello, ti toglie il respiro, annebbia immagini, riflessioni e pensieri. Per recuperare la visione d’insieme c’è tempo. Per ora bastano i flash. Il primo abbaglia e stordisce: arriva da Catania e, come nei film, in un istante, ti passa davanti una vita. Perché per la prima in volta in stagione, dopo 8′ dell’ultimo atto, l’Inter si trova a rincorrere senza averne attitudine e abitudine. Il gol di Vucinic, che illumina la faccia giallorossa della luna e prende a picconate il fortino della scaramanzia costruito ad hoc dal popolo romanista e dagli uomini di Spalletti, disegna rughe profonde sui volti nerazzurri e annichilisce i tifosi interisti infiltrati al Tardini, quelli che attendono fuori, quelli radunati sotto
la Madonnina. Il secondo, nell’intervallo, è un segreto che per sempre sarà custodito dai muri del Tardini. Le parole di Mancini, quelle di Moratti , o solo uno sguardo, chissà. Fatto sta che nel diluvio di Parma, i flash successivi sciolgono il ghiaccio e scaldano il cuore. È il 6′ della ripresa e, quando Ibrahimovic si alza dalla panchina, la Roma è campione d’Italia. Lo svedese, in undici minuti, spinge l’altalena dell’Inter così forte da rispedirla in paradiso. E rotto il digiuno con uno splendido gol (controllo, dribblig e gran destro), si assicura i titoli a nove colonne marchiando a fuoco lo scudetto con un sinistro al volo. Gli ultimi, sono quelli dei fotografi, che immortalano l’urlo liberatorio di Roberto Mancini fradicio come un pulcino, il mucchio nerazzurro in mezzo al campo e le lacrime gialloblù di un Parma che lascia la serie A dopo 18 anni. Speculari le immagini che giungono dalla Sicilia, dove si spengono i sorrisi di una Roma tenace e straordinaria, vinta dalla spossatezza di un’estenuante rincorsa, raggiunta dal gol salvezza del Catania che, a catena, condanna alla serie B l’Empoli, pur vittorioso sul già retrocesso Livorno. Mai, negli ultimi anni, un’ultima giornata era stata così decisiva e così gravida di verdetti:in testa, in coda, in mezzo. Milan e Fiorentina non sono state da meno. Nella lotta per la Champions League è successa un po’ la stessa cosa. Fiorentina avanti per tutto il campionato, raggiunta e superata da uno sprint milanista a un passo dal traguardo, aggredita al primo cedimento mentre tentava invano di smaltire la delusione dell’eliminazione in Coppa Uefa, capace però di piazzare la zampata finale per riprendersi meritatamente un posto tenuto in caldo per quasi tutta la stagione. La splendida rovesciata di Osvaldo, che vale la vittoria sul Toro, vanifica il 4-1 del Milan sull’Udinese. Giornata nera per il Milan e i suoi tifosi, costretti a beccare le briciole tenendo stretta la qualificazione in Coppa Uefa, ma soprattutto a sfollare alla svelta San Siro per cedere il palcoscenico alla festa dei cugini. Davvero pochi, ieri, i campi neutrali. Una scampagnata tra Cagliari e Reggina, già in vacanza: finisce 2-2, come Siena-Palermo, altra sfilata di fine stagione.
La Lazio all’Olimpico vince sul Napoli ma i risultati più interessanti sono, per ovvie ragioni, quelli che appaiono sul tabellone. Riflettori puntati invece su Atalanta-Genoa, con uno spettatore più interessato di altri: Alessandro Del Piero. In vetta alla classifica cannonieri con 21 gol, dopo la doppietta nella gara di sabato con la Sampdoria, Pinturicchio attendeva la consacrazione via telecomando. Il digiuno di Marco Borriello, che si ferma a quota 19, toglie l’ultimo alibi a Donadoni che, di fronte al capocannoniere del campionato, si trova con le spalle al muro.

Tutti i verdetti:
85 Inter, campione d’Italia con accesso diretto in Champions League
82 Roma, in Champions League accesso diretto 72 Juventus, 66 Fiorentina, in Champions League (preliminari);
64 Milan, 60 Sampdoria, 57 Udinese, in Coppa Uefa;
50 Napoli; 48 Genoa, Atalanta; 47 Palermo; 46 Lazio; 44 Siena; 42 Cagliari; 40 Torino Reggina; 37 Catania
36 Empoli, 34 Parma, 30 Livorno (serie B)

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Il puzzle

Posté par atempodiblog le 17 mai 2008

Il puzzle dans Don Bruno Ferrero diddlmania_642

Durante l’assenza della moglie, un importante uomo d’affari dovette rimanere in casa per badare ai due scatenatissimi bambini. Aveva un’importante pratica da sbrigare, ma i due piccoli non lo lasciavano in pace un istante.
Cercò così di inventare un gioco che li tenesse occupati un po’ di tempo. Prese da una rivista una carta geografica che rappresentava il mondo intero, una carta complicatissima per i colori dei vari stati. Con le forbici la tagliò in pezzi minutissimi che diede ai bambini, sfidandoli a ricomporre il disegno del mondo. Pensava che quel puzzle improvvisato li avrebbe tenuti occupati per qualche ora.
Un quarto d’ora dopo, i due bambini arrivarono trionfanti con il puzzle perfettamente ricomposto.
« Ma come avete fatto a finire così in fretta? », chiese il padre meravigliato.
« È stato facile », rispose il più grandicello. « Sul rovescio c’era una figura di un uomo. Noi ci siamo concentrati su questa figura e, dall’altra parte, il mondo si è messo a posto da solo ».

Il saggio Bayazid diceva: « quando ero giovane ero un rivoluzionario e tutte le mie preghiere a Dio erano: « Signore, dammi la forza di cambiare il mondo ». Quando ero ormai vicino alla mezza età e mi resi conto che metà della mia vita era passata senza che avessi cambiato nulla, mutai la mia preghiera in: « Signore, dammi la grazia di cambiare tutti quelli che sono in contatto con me. Solo la mia famiglia e i miei amici, e sarò contento ».
Ora che sono vecchio e i miei giorni sono contati, comincio a capire quanto sono stato sciocco. La mia sola preghiera ora è: « Signore, fammi la grazia di cambiare me stesso ». Se avessi pregato così fin dall’inizio non avrei sprecato la mia vita ».
Se ognuno pensasse a cambiare se stesso, tutto il mondo cambierà.

di Bruno Ferrero

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Gianni Morandi: “Alla musica preferisco Radio Maria”

Posté par atempodiblog le 16 mai 2008

Gianni Morandi, l’eterno ragazzo della canzone italiana, ora vive una Fede adulta: “Ho ritrovato Dio e alla musica preferisco Radio Maria”
di Bruno Volpe

CITTA’ DEL VATICANOL’eterno bravo ragazzo di Monghidoro va a Messa regolarmente, vive la sua fede con intensità e alla musica preferisce i programmi di Radio Maria e le prediche di Padre Livio Fanzaga. Gianni Morandi (nella foto), uno dei cantanti italiani più conosciuti e apprezzati nel mondo, si ‘confessa’ e per la prima volta accetta di parlare, in esclusiva con ‘Petrus’, del suo essere cattolico.

Morandi, cosa rappresenta per Lei la Fede?
“Quanto di più intimo possa esistere. E nel mio caso, anche una piacevole riscoperta. Veda, mio padre era ateo, mia madre profondamente credente. Sino all’età di quarant’anni sono cresciuto come se Dio non esistesse, poi tutto è cambiato…”.

Ci spieghi come…
“Mi ha molto aiutato il Parroco di Monghidoro, il mio paese natale. E’ anche grazie a lui che ho incontrato Dio e mi sono avvicinato al creato. Diciamo che mi sono reso conto che sino a quel momento avevo vissuto una vita di successi artistici, di danaro, ma anche intimamente ed estremamente vuota. Ho avvertito un terribile senso di sazietà interiore, di frivolezza, ed ho deciso di voltare pagina. E’ così che mi sono intimamente convinto che solo in Cristo esiste vera concretezza,vera gioia e serenità”.

Qual e’ la  Sua concezione di cristianesimo?
“La preghiera è importante, decisiva. Ma anche il mettere in pratica il comandamento dell’Amore. ‘Ama il prossimo tuo come te stesso’. Se tutti noi lo facessimo davvero, saremmo più liberi e felici. Il cristianesimo è la religione del sì e della gioia”.

Nella società moderna si parla sempre meno di Dio…
“Purtroppo è vero. Si straparla eccessivamente di cose fatue e viene messo da parte il Trascendente. Credo seriamente che si debba recuperare la cultura del silenzio – il dolce suono del silenzio – e saper ascoltare se stessi, gli altri e ciò che ha da dirci il Signore”.

Morandi, il Suo è un richiamo a riscoprire l’interiorità…
“Esatto. Abbiamo bisogno di guardarci dentro e meditare. Oggi viviamo freneticamente, tra suoni, rumori, luci, ricerca della ricchezza e del potere. Ma quando mai ascoltiamo il silenzio e ammiriamo la bellezza del creato che solo Dio ci sa donare?”.

Sia sincero: la morte Le fa paura?
“Confesso la mia debolezza: sì. Diciamo che non mi sento ancora pronto”.

Quale canzone dedicherebbe a Benedetto XVI?
“Non una del mio repertorio ma ‘Che cosa resterà di me’ di Franco Battiato. E’ bellissima e intensa. Quando la ascolto, mi chiedo sempre: sarò capace di lasciare qualcosa di tangibile e di bello agli altri?”.

Cosa Le piace ascoltare di più alla Radio?
“I programmi e le catechesi di Padre Livio Fanzaga trasmessi da ‘Radio Maria’. In particolar modo quando viaggio in autostrada, non cambio frequenza neanche per un istante”.

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“Siamo fatti per il Cielo”

Posté par atempodiblog le 16 mai 2008

AVE MARIA a cura di mons. Luciano Alimandi – “Siamo fatti per il Cielo”

“Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io” (Gv 14, 2-3). In questo passaggio del Vangelo di Giovanni, il Signore Gesù, dopo aver esortato i suoi a non lasciarsi turbare, ma ad avere fede in Dio ed in Lui (cfr. Gv 14, 1), parla del Paradiso come di una “Casa”! È bello e consolante sapere che proprio Lui verrà a prenderci e a portarci Lassù, quando il nostro posto sarà preparato, come promette agli Apostoli, a tutti coloro che crederanno nel Suo Nome.

Occorre dire, purtroppo, che non si pensa spesso al Cielo, alla Casa del Padre che ci aspetta, alla Dimora sicura e stupenda, dove si abiterà per sempre, insieme agli Angeli ed ai Santi. Il pensiero e il desiderio del Cielo, in effetti, richiede una fede “certa” da parte del discepolo; una fede “certa” nelle promesse di Gesù, che non lascia spazio a tentennamenti ed esitazioni, ma che dona al credente uno sguardo realmente soprannaturale.

Uno sguardo è soprannaturale quando non si ferma su ciò che è visibile, ma si spinge al di là della realtà terrena, per penetrare nell’invisibile realtà dell’Aldilà, della quale parla il Signore. L’allora Cardinale Joseph Ratzinger, nella sua indimenticabile omelia per le esequie di Giovanni Paolo II, offrì, al mondo intero, l’esempio di un tale sguardo che raggiunge il Paradiso: “per tutti noi rimane indimenticabile come in questa ultima domenica di Pasqua della sua vita, il Santo Padre, segnato dalla sofferenza, si è affacciato ancora una volta alla finestra del Palazzo Apostolico ed un’ultima volta ha dato la benedizione ‘Urbi et orbi’. Possiamo essere sicuri che il nostro amato Papa sta adesso alla finestra della casa del Padre, ci vede e ci benedice. Sì, ci benedica, Santo Padre. Noi affidiamo la tua cara anima alla Madre di Dio, tua Madre, che ti ha guidato ogni giorno e ti guiderà adesso alla gloria eterna del Suo Figlio, Gesù Cristo nostro Signore. Amen” (8 aprile 2005). La fede “certa” dei discepoli del Signore è quella che permette di affermare con assoluta convinzione: ci attende una dimora eterna!

Sì, la Casa del Padre, il Cielo dei beati, è invisibile ad uno sguardo naturale, ma non agli occhi dello spirito illuminati dalla Parola di Dio.

Una fede debole, “incerta”, non riesce a scorgere il Cielo al di là degli orizzonti terreni, perché resta prigioniera dell’immanente, di se stessa, nell’incapacità di aprirsi al trascendente, a Dio. Una fede “incerta”, non riesce a raggiungere il Cielo perché subito ricade quaggiù, vinta dalla “forza di gravità” della realtà terrena. Si sforza di innalzarsi al di sopra di tale realtà, ma non giunge a rinnegare la logica mondana. Dentro questa logica terrena, il tempo e lo spazio sono le uniche coordinate ad imporsi, mentre, nella logica ultraterrena, la ragione si apre alla fede, l’infinito e l’eternità divengono le “coordinate celesti” che indicano all’uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio, la sua destinazione finale: il Cielo!
Solo nell’uomo che si fa piccolo davanti a Dio e riconosce che non può bastare a se stesso, la fede trova spazio e libera dalla prigione dell’immanenza. L’uomo che crede veramente, secondo San Paolo, diventa un “uomo celeste”, che orienta la propria vita verso l’eternità e riconosce in Cristo la misura di tutta la realtà: inclusi comportamenti e scelte.

Alla scuola di Maria Santissima, impariamo giorno per giorno a diventare sempre più testimoni della resurrezione, animati cioè da una fede pasquale che ci fa scorgere, sia pur da una certa distanza, la Casa del Padre e in essa la nostra dimora. Così, insieme a San Paolo, possiamo anche noi ripetere: “sappiamo infatti che quando verrà disfatto questo corpo, nostra abitazione sulla terra, riceveremo un’abitazione da Dio, una dimora eterna, non costruita da mani di uomo, nei cieli. Perciò sospiriamo in questo nostro stato, desiderosi di rivestirci del nostro corpo celeste: a condizione però di esser trovati già vestiti, non nudi. In realtà quanti siamo in questo corpo, sospiriamo come sotto un peso, non volendo venire spogliati ma sopravvestiti, perché ciò che è mortale venga assorbito dalla vita. È Dio che ci ha fatti per questo e ci ha dato la caparra dello Spirito. Così, dunque, siamo sempre pieni di fiducia e sapendo che finché abitiamo nel corpo siamo in esilio lontano dal Signore, camminiamo nella fede e non ancora in visione” (2 Cor 5, 1-7).

Tratto da: Agenzia Fides

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