Non è la richiesta di una fede cieca

Posté par atempodiblog le 30 mars 2008

Intervista di Socci ad Ignace de la Potterie.
Ignace de la Potterie. “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto hanno creduto”

Non è la richiesta di una fede cieca dans Antonio Socci L-incredulit-di-Tommaso

Due aspetti ci preme mettere in rilievo: anche in questa versione riveduta, le parole di Gesù vengono tradotte con un’imprecisione, rispetto all’originale greco. E tale imprecisione viene di fatto utilizzata per confermare con l’autorità del Vangelo un’impostazione che sembra prevalente nella Chiesa di oggi: l’idea che la vera fede sia quella che prescinde totalmente dai segni visibili. L’errore di traduzione a cui pensa di poter appoggiarsi tale interpretazione, che di fatto travisa il passo evangelico, consiste nel tradurre al presente il rimprovero di Gesù: “Beati coloro che credono, pur senza aver visto”. In questo modo le parole vengono trasformate in una regola di metodo valida per tutti coloro che vivono nei tempi successivi alla morte e risurrezione di Gesù. E infatti la nota spiega che solo per i contemporanei di Gesù “visione e fede erano abbinate”, mentre per tutti coloro che vengono dopo, “la normalità della fede poggia sull’ascolto, non sul vedere”. Secondo questa interpretazione sembra quasi che Gesù si opponga al naturale desiderio di vedere, chiedendo a noi una fede fondata solo sull’ascolto della Parola. In realtà, qui il verbo non è al presente, come viene tradotto. Nell’originale greco il verbo è all’aoristo (πιστεύσαντες), anche nella versione latina era messo al passato (crediderunt). “Tu hai creduto perché hai visto” – dice Gesù a Tommaso – “beati coloro che senza aver visto [ossia che senza aver visto me, direttamente] hanno creduto”. E l’allusione non è ai fedeli che vengono dopo, che dovrebbero “credere senza vedere”, ma agli apostoli e ai discepoli che per primi hanno riconosciuto che Gesù era risorto, pur nell’esiguità dei segni visibili che lo testimoniavano. In particolare il riferimento indica proprio Giovanni, che con Pietro era corso al sepolcro per primo dopo che le donne avevano raccontato l’incontro con gli angeli e il loro annuncio che Gesù Cristo era risorto. Giovanni, entrato dopo Pietro, aveva visto degli indizi, aveva visto la tomba vuota, e le bende rimaste vuote del corpo di Gesù senza essere sciolte, e pur nell’esiguità di tali indizi aveva cominciato a credere. La frase di Gesù “beati quelli che pur senza aver visto [me] hanno creduto” rinvia proprio al “vidit et credidit” riferito a Giovanni al momento del suo ingresso nel sepolcro vuoto. Riproponendo l’esempio di Giovanni a Tommaso, Gesù vuole indicare che è ragionevole credere alla testimonianza di coloro che hanno visto dei segni, degli indizi della sua presenza viva. Non è la richiesta di una fede cieca, è la beatitudine promessa a coloro che in umiltà riconoscono la sua presenza a partire da segni anche esigui e danno credito alla parola di testimoni credibili. L’imprecisione introdotta dai traduttori riguardo al tempo dei verbi usati da Gesù è servita a cambiare il senso delle sue parole e a riferirle non più a Giovanni e agli altri discepoli, ma ai credenti futuri. E’ passata così inconsapevolmente l’interpretazione del teologo esegeta protestante Rudolf Bultmann,che traduceva i due verbi del passo al presente (“Beati coloro che non vedono e credono”) per presentarla “come una critica radicale dei segni e delle apparizioni pasquali e come un’apologia della fede privata di ogni appoggio esteriore” (Donatien Mollat). Mentre è esattamente il contrario. Ciò che viene rimproverato a Tommaso non è di aver visto Gesù. Il rimprovero cade sul fatto che all’inizio Tommaso si è chiuso e non ha dato credito alla testimonianza di coloro che gli dicevano di aver visto il Signore vivo. Sarebbe stato meglio per lui dare un credito iniziale ai suoi amici, nell’attesa di rifare di persona l’esperienza che loro avevano fatto. Invece Tommaso ha quasi preteso di dettare lui le condizioni della fede. Vi è un altro ricorrente errore di traduzione, ripetuto anche dalla nuova versione CEI. Quando Gesù sottopone le sue ferite alla “prova empirica” richiesta da Tommaso, accompagna questa offerta con un’esortazione: “E non diventare incredulo, ma diventa (γίνου) credente”. Significa che Tommaso non è ancora né l’uno né l’altro. Non è ancora incredulo, ma non è nemmeno ancora un credente. La versione CEI, come molte altre, traduce invece: “E non essere incredulo, ma credente”. Ora, nel testo originale, il verbo “diventare” suggerisce l’idea di dinamismo, di un cambiamento provocato dall’incontro col Signore vivo. Senza l’incontro con una realtà vivente non si può cominciare a credere. Solo dopo che ha visto Gesù vivo Tommaso può cominciare a diventare “credente”. Invece la versione inesatta, che va per la maggiore, sostituendo il verbo essere al verbo diventare, elimina la percezione di tale movimento, e sembra quasi sottintendere che la fede consiste in una decisione da prendere a priori, un moto originario dello spirito umano. E’ un totale rovesciamento. Tommaso, anche lui, vede Gesù e allora, sulla base di questa esperienza, è invitato a rompere gli indugi e a diventare credente. Se al diventare si sostituisce l’essere, sembra quasi che a Tommaso sia richiesta una fede preliminare, che sola gli permetterebbe di “vedere” Gesù e accostarsi alle sue piaghe. Come vuole l’idealismo per cui è la fede a creare la realtà da credere. Le spiegazioni della nota, basate su queste traduzioni inesatte, e che per fortuna, come ha premesso monsignor Antonelli, non possiedono “alcun carattere di ufficialità”, sembrano comunque piegare le parole di Gesù alla nuova tendenza che vige oggi nella Chiesa, secondo cui una fede pura è quella che prescinde dal “vedere”, ossia dall’appoggio e dallo stimolo dei segni sensibili. E’ vero, come spiega la nota, che nel tempo attuale “la visione non può essere pretesa”. Niente nell’esperienza cristiana può mai essere oggetto di “pretesa”. Ma mettere in alternativa il vedere e l’ascoltare e sostenere che “la normalità della fede poggia sull’ascolto, e non sul vedere” ossia che basta ascoltare il “racconto” del cristianesimo per diventare cristiani, sembra essere in contraddizione con tutto ciò che insegnano le Scritture e la Tradizione della Chiesa. Le apparizioni a Maria di Magdala, ai discepoli e a Tommaso sono l’immagine normativa di un’esperienza che ogni credente è chiamato a fare nella Chiesa; come l’apostolo Giovanni, anche per noi il “vedere” può essere una via d’accesso al “credere”. Proprio per questo continuiamo a leggere i racconti del Vangelo: per rifare l’esperienza di coloro che dal “vedere” sono passati al “credere” (si pensi alla contemplazione delle scene evangeliche e all’applicazione dei sensi a esse, secondo una lunga tradizione spirituale). Il Vangelo di Marco si conclude testimoniando che la predicazione degli apostoli non era solo un semplice racconto, ma era accompagnata da miracoli, affinché potessero confermare le loro parole con questi segni: “Allora essi partirono e annunciarono il vangelo dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la parola con i segni che la accompagnavano” (Mc 16,20). Molti Padri della Chiesa, dall’occidentale Agostino fino all’orientale Atanasio, hanno insistito su questa permanenza dei segni visibili esteriori che accompagnano la predicazione e che non sono un di meno, una concessione alla debolezza umana, ma sono connessi con la realtà stessa dell’incarnazione. Se Dio si è fatto uomo, risorto col suo vero corpo, rimane uomo per sempre e continua ad agire. Ora non vediamo il corpo glorioso del Risorto, ma possiamo vedere le opere e i segni che compie: “In manibus nostris codices, in oculis facta”, dice Agostino: “nelle nostre mani i codici dei Vangeli, nei nostri occhi i fatti”. Mentre leggiamo i Vangeli, vediamo di nuovo i fatti che accadono. E Atanasio scrive nell’Incarnazione del Verbo: “Come, essendo invisibile, si conosce in base alle opere della creazione, così, una volta divenuto uomo, anche se non si vede nel corpo, dalle opere si può riconoscere che chi compie queste opere non è un uomo ma il Verbo di Dio. Se una volta morti non si è più capaci di far nulla ma la gratitudine per il defunto giunge fino alla tomba e poi cessa – solo i vivi, infatti, agiscono e operano nei confronti degli altri uomini – veda chi vuole e giudichi confessando la verità in base a ciò che si vede”. Tutta la Tradizione conserva con fermezza il dato che la fede non si basa solo sull’ascolto, ma anche sull’esperienza di prove esteriori, come ricorda il Catechismo della Chiesa cattolica al paragrafo 156, citando le definizioni dogmatiche del Concilio ecumenico Vaticano I: «“Nondimeno, perché l’ossequio della nostra fede fosse conforme alla ragione, Dio ha voluto che agli interiori aiuti dello Spirito Santo si accompagnassero anche prove esteriori della sua rivelazione”. Così i miracoli di Cristo e dei santi, le profezie, la diffusione e la santità della Chiesa, la sua fecondità e la sua stabilità “sono segni certissimi della divina rivelazione, adatti a ogni intelligenza”, sono “motivi di credibilità” i quali mostrano che l’assenso della fede non è “affatto un cieco moto dello spirito”».
In particolare, sono i santi che attualizzano per i loro contemporanei i racconti del Vangelo.
Quando san Francesco parlava, per chi era lì presente era chiarissimo che i Vangeli non erano un racconto del passato, solo da leggere e ascoltare: in quel momento era evidente che in quell’uomo era presente e agiva Gesù stesso.
Non per niente anche Giovanni Paolo II ha proposto in chiave positiva proprio la figura dell’apostolo Tommaso, quando, in un suo discorso ai giovani di Roma, il 24 marzo del ’94, li ha invitati a prendere sul serio, rispettare e accogliere questa sete di prove esteriori, visibili, così viva tra i loro coetanei: «Noi li conosciamo [questi giovani empirici], sono tanti, e sono molto preziosi, perché questo voler toccare, voler vedere, tutto questo dice la serietà con cui si tratta la realtà, la conoscenza della realtà. E questi sono pronti, se un giorno Gesù viene e si presenta loro, se mostra le sue ferite, le sue mani, il suo costato, allora sono pronti a dire: Mio Signore e mio Dio!».

Fonte: liturgiadomenicale.blogspot.com – Pubblicato da Don Antonello Iapicca

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Festa della Divina Misericordia (30 marzo 2008)

Posté par atempodiblog le 28 mars 2008

Dal Diario di Suor Faustina Kowalska per la prossima festa della divina Misericordia: Dice Gesù: Desidero concedere la remissione totale, alle anime che si accostano alla confessione e alla Santa comunione nel giorno della Festa della mia Misericordia. ( Pag 381 del Diario di Suor Faustina edizioni Vaticane) In un altro punto del Diario si dice che chi non entrerà per la porta della sua Misericordia ubbidirà a quella della sua Giustizia. La Festa Liturgica si celebra Domenica 30 marzo ’08 e per essa il Papa ha applicato l’Indulgenza Plenaria.

Fonte: medjugorje.altervista.org

Per approfondire: www.festadelladivinamisericordia.com/page/la-festa-della-divina-misericordia.asp

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L’ultima utopia

Posté par atempodiblog le 15 mars 2008

La vita, si sa, è fatta di esami. Ma sino a poco fa, nei primi anni della nostra esistenza, eravamo anzitutto accolti, amati, serviti, ammirati. Ogni vita un dono, un miracolo, di cui prendersi cura.

Ma basta con le favole, con la poesia. Da un po’ di tempo ci viene promessa la luna: la tecnica riuscirà a produrre creature perfette, selezionate, filtrate, e ogni mela ammaccata verrà gettata via, lontano dagli occhi e lontano dal cuore, come è giusto che sia. Due secoli fa l’illuminista Condorcet, prima di finire suicida, perché condannato alla ghigliottina, prometteva ai posteri che il futuro avrebbe portato un mondo meraviglioso. Niente infortuni sul lavoro, niente malattie, uomini più intelligenti e più buoni, niente guerre…. Dopo Condorcet altri prometteranno allo stesso modo il paradiso sulla terra, ma ogni malattia sconfitta lascerà sempre il posto ad un altro male, ogni dolore ad un altro dolore. Saranno politici, letterati, filosofi, a proporsi come i nuovi Mosè, a voler traghettare l’umanità verso nuovi cieli terrestri: sempre con gravissimi danni e sonore delusioni. Eppure, ancora quarant’anni fa precisi, nel celebre 1968, Adriano Buzzati Traverso, scriveva: “Tra poco l’uomo riuscirà a modificare se stesso; fra poco potremo far nascere i nostri figli del sesso desiderato; fra poco potremo garantirci contro il rischio che possa nascere un bambino deficiente; fra poco potremo verosimilmente prevedere, e almeno in parte predeterminare, le caratteristiche fisiche e psichiche del nascituro…”.
Gli fa eco, oggi, Gregory Stock, allorché propone di “riprogettare gli esseri umani”, per raggiungere ogni traguardo possibile. Divenire più che umani, “trasumani”, è il sogno di molti, è il superuomo nella versione tecnologica. Fallita l’antica versione, quella politica ed etica, fallite l’ideologie materialiste, rimane l’ultima utopia: la medicina dei desideri. La medicina, cioè, che non si prende più a carico l’uomo, con la sua malattia, la sua fragilità, il suo limite, ma che accantona i malati, li sopprime, li scarta, in nome di quello che vuole andare a creare, l’uomo nuovo, l’uomo senza peccato originale, l’uomo che non patisce e non muore, e, forse, l’uomo che non è più capace di sentimenti e di amore. Per questo l’ultima utopia non ha nulla di nuovo, funziona esattamente come le altre: elimina ciò che dimostra la sua imperfezione e chiede aiuto, lo travolge con le sue promesse, lo dimentica con le sue illusioni. Elimina l’individuo che c’è, in nome dell’Umanità futura; sacrifica il singolo alla collettività; la concretezza di ogni uomo, al sogno prometeico. Così la vita diventa, come si diceva, subito un esame: test genetici, diagnosi pre-impianto, diagnosi pre natali, con tutti i rischi di falsi negativi e falsi positivi annessi e connessi. Con tutto il carico di speranze deluse, di inganni, di fantasmi che vivono sempre dentro ai sogni impossibili. In realtà, il figlio perfetto nessuno ce lo saprà dare, mai; e se anche nascesse, sarebbe a rischio, ogni minuto, ogni secondo, di sopraggiunte imperfezioni, sciagure, dolori, che la vita ci sa riservare, dietro ad ogni angolo e ad ogni curva. Perché siamo limitati, e nel limite viviamo la nostra essenza di mendicanti, dell’amore di dio e degli uomini.
E’ molto più facile che all’illusione del controllo, controllo sulla vita, sul Dna, sull’uomo, si sostituisca, come è già accaduto e accade spesso, nei più importanti laboratori, il mondo fuori controllo. Lo ha scritto molto bene, tra gli altri, J. Testart, il padre della prima bambina in provetta francese, nel suo la vita in vendita, riflettendo sui rischi, fisici e sociali, delle tecniche artificiali: “possiamo ragionevolmente chiederci se la procreazione medicalmente assistita non contribuirà a diffondere la sterilità degli individui umani. E anche a diffondere l’idea che la sessualità debba essere sterile”. Mentre ce lo chiediamo, sappiamo con certezza che l’idea dell’uomo perfetto contribuirà a distruggere l’amore per l’uomo imperfetto, quello che effettivamente esiste.

di Francesco Agnoli

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Festa inventata

Posté par atempodiblog le 15 mars 2008

Una « festa » inventata
di Vittorio Messori
[Da "Pensare la storia", San Paolo, Milano 1992] – © Edizioni San Paolo

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C’erano una volta delle operaie tutte lavoro, fede socialista e sindacato; e c’era un padrone cattivo. Un giorno, le lavoratrici si misero in sciopero e si asserragliarono nella fabbrica. Qualcuno (il padrone stesso, a quanto si dice) appiccò il fuoco e 129 donne trovarono atroce morte. Era l’8 marzo 1908, a New York. Due anni dopo, la leggendaria femminista tedesca Clara Zetkin propose, al Congresso socialista di Copenaghen, che l’8 marzo, in ricordo di quelle martiri sociali, fosse proclamato « giornata internazionale della donna ».

Storia molto commovente, letta tante volte in libri e in giornali, fatta argomento di comizi, di opuscoli di propaganda, di parole d’ordine per le sfilate e le manifestazioni: prima del femminismo e poi di tutti. Si, storia commovente. Con un solo difetto; che è falsa. Eh già, nessun epico sciopero femminile, nessun incendio si sono verificati un 8 marzo del 1908, a New York. Qui, nel 1911 (quando già la « Giornata della donna » era stata istituita), se proprio si vogliono spulciar giornali, bruciò, per cause accidentali, una fabbrica, ci furono dei morti, ma erano di entrambi i sessi. Il sindacalismo e gli scioperi non c’entravano. E neanche il mese di marzo.

Piuttosto imbarazzante scoprire di recente (e da parte di insospettabili quanto deluse femministe) che il mitico 8 marzo si basa su un falso che, a quanto pare, fu elaborato dalla stampa comunista ai tempi della guerra fredda, inventando persino il numero preciso di donne morte: 129… Ma è anche straordinario constatare quanto sia plagiabile proprio quella cultura che più si dice « critica », che guarda con compatimento (per esempio) chi prenda ancora sul serio quelle « antiche leggendo orientali » che sarebbero il Natale, la Pasqua, le altre ricorrenze cristiane.

E, dunque, a qualcuno che facesse dell’ironia sulle vostre, di feste e pratiche religiose (messa, processioni, pellegrinaggi), provate a ricordargli quanti 8 marzo ha preso sul serio, senza mai curarsi di andare a controllare che ci fosse dietro.

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